27 luglio 1982, il publisher Atari stava facendo i salti di gioia per essere appena riuscito a ottenere il diritto di sviluppare e commercializzare una trasposizione videoludica di ET l’extra-terrestre, celebre lungometraggio firmato da Steven Spielberg che in quel momento stava sbancando alle biglietterie statunitensi. No, limitare l’impatto del film a una mera questione di botteghino è riduttivo, la pellicola ha avuto una risonanza tale da essere addirittura proiettata presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, sede che per l’occasione procedette anche ad assegnare la medaglia della pace al suo regista.
Atari aveva per le mani un brand inaffondabile, oro puro, in più era riuscito a reclutare per l’occasione Howard Scott Warshaw, stimatissimo game designer che aveva già lavorato al fianco di Spielberg e che poteva vantare la massima fiducia del maestro del Cinema, nulla sarebbe potuto andare storto. O almeno così verrebbe da pensare se la storia non avesse dimostrato il contrario, se ET non fosse stato un flop tale da essere considerato la prima vera causa del crollo del mercato videoludico del 1983. Ma come può un simile progetto virtuoso essere caduto tanto in basso da causare una crisi economica all’intero settore dell’intrattenimento digitale?
Il mondo videoludico che ha aperto la strada a ET e ad Atari
Il cosiddetto “video game crash” del 1983 è stato un vero e proprio punto di svolta per l’universo dei videogiochi. Nel giro di qualche anno il settore è stato rivoluzionato drasticamente, tuttavia per comprendere il fallimento di Atari dobbiamo ricordare che all’epoca l’intrattenimento digitale non era considerata un’inezia da bambini, tutt’altro. Originalmente, i cabinati sono entrati nella vita quotidiana affiancando gli intramontabili flipper, quindi i videogame erano perlopiù considerati uno svago da bar, un qualcosa con cui intrattenersi tra una birra e l’altra dopo aver staccato da un dura giornata di lavoro.
Le abitudini di consumo si sono quindi modificate, ibridate, e l’avvento delle console domestiche si è assicurato che la sfera videoludica si allargasse fino a inglobare al suo interno l’intera famiglia. Donne, uomini, bambine e bambini: chiunque era accolto dall’abbraccio elettrico di Atari e dei suoi competitor. I videogame erano praticamente vissuti al pari di giochi da tavolo da fruire convivialmente e il Mercato non faceva altro che crescere e crescere, puntando inconsapevolmente al collasso.
A ridosso del 1982 l’industria del settore era soggetta a un insieme sfaccettato di insidie: i personal computer stavano iniziando a entrare nelle case degli utenti, il settore dei device videoludici era esploso fino a saturarsi e lo sviluppo dei videogiochi non era più un’esclusiva dei distributori. All’epoca, il The New York Times aveva definito la situazione con il colorito epiteto di “video game sales war”, tratteggiando nel suo articolo l’esistenza di una “guerra” sanguinaria in cui ogni strategia era lecita.
La “liberalizzazione” dello sviluppo dei software e le ambizioni lucrative smodate delle aziende si sono celermente tradotte in un’offerta di merci che sorpassava vastamente la domanda effettiva della clientela. Ancor più, una gran parte dei videogame immessi in circolazione era stata improvvisata da game designer di scarsa esperienza, reclutanti in fretta e furia per partecipare a una corsa all’oro digitale, con il risultato che gli scaffali dei negozi erano inondati da un’immensa mole di ciarpame informatico.
La genesi di un alieno malvoluto
In questo contesto ultracompetitivo, Atari non se la stava passando brillantemente. Pochi anni prima, nel 1979, alcuni suoi programmatori insoddisfatti si erano messi in proprio fondando un’azienda nota come Activision, la quale proprio nel 1982 ha partorito Pitfall! dimostrando nei fatti che uno sviluppatore indipendente fosse tranquillamente in grado di logorare il monopolio di quei distributori tradizionali che erano ormai più guidati dalla necessità di fare business che dal desiderio di innovare la propria offerta.
Nel disperato tentativo di stagliarsi dalla concorrenza, Atari si era dunque concentrata sul commercializzare brand noti al grande pubblico. Nel 1982 la selezione era caduta su due marchi in particolare: Pac-Man ed ET the Extra-Terrestrial. La trasposizione di Pac-Man per Atari 2600 venne pubblicata nel marzo del 1982 e, nonostante abbia venduto più di sette milioni di copie, fu stroncata dalla critica e dai gamer di tutto il mondo a causa delle sue prestazioni abominevoli. Molti restituirono il gioco e chiesero di essere rimborsati, tuttavia il vero danno subito da Atari fu quello ricevuto alla reputazione. Il pubblico, il quale aveva sempre considerato l’azienda un baluardo di perfezione videoludica, iniziò infine a percepire nei suoi confronti una certa diffidenza.
Qualche mese più tardi, ET avrebbe potuto rappresentare un importante riscatto per il publisher, tuttavia la dirigenza di Atari impose a Warshaw una tabella di marcia a dir poco soffocante: l’uomo avrebbe dovuto terminare lo sviluppo del videogame nei tempi utili perché potesse essere nei negozi entro il periodo natalizio, ovvero tutto doveva essere pronto nel giro di circa cinque settimane. La storia ci insegna che le cose non sono andate nella direzione che gli imprenditori si erano ingenuamente auspicati.
ET the Extra-Terrestrial era graficamente deludente, confuso negli obiettivi ed estremamente monotono. La creatura di Warshaw non era del tutto priva di meriti, ma questi erano ben nascosti in un prodotto che risulta perlomeno grezzo e che oggi viene spesso elencato nelle liste dei peggiori videogiochi mai immessi nel mercato. A prescindere dal valore dell’oggetto in sé, il titolo ha rappresentato l’ennesima delusione di un Mercato che da lì a breve sarebbe collassato.
Il mondo nuovo benedetto da Nintendo
L’anno fiscale del 1983 si era tradotto per Atari in una perdita di 536 milioni di dollari. Negli anni immediatamente successivi l’azienda fu scorporata dalla casa madre, Warner Communications, e fu venduta in parte a Jack Tramiel, fondatore della competitor Commodore International recentemente messosi in proprio, e in parte al gigante degli arcade, Namco. Un numero imprecisato di videogame e accessori dedicati all’Atari 2600 fu quindi smaltito alla bene e meglio nel deserto del New Mexico, luogo che ancora oggi ospita quelle cartucce e quelle console che il Mercato aveva ripudiato, ET compreso.
Nel bene e nel male, il crack che ha colpito l’intero settore nel 1983 ha plasmato l’immaginario videoludico odierno. Nel tentativo di ravvivare la filiera, la giapponese Nintendo ha infatti deciso di intromettersi nel settore con una visione di marketing a dir poco stravolgente: al posto di creare un device pensato per tutta la famiglia, il gigante nipponico ha preferito puntare tutti gli sforzi promozionali sul bersagliare con tono martellante i bambini di sesso maschile.
Non più considerate uno strumento di intrattenimento per ogni età, le console hanno iniziato a essere commercializzate come giocattoli hi-tech, con il Nintendo Entertainment System (NES) che è velocemente entrato nelle liste natalizie infantili del 1985/86. Atari ed ET the Extra-Terrestrial non hanno dunque veramente distrutto il settore dei videogame, tuttavia rappresentano l’elemento più in vista di un episodio storico in cui la cupidigia ha lanciato un intero settore in un ciclo di morte e resurrezione che può essere letto a posteriori con tono ammonitorio.
Le industrie avevano allora abusato della fiducia e della pazienza dei consumatori, anteponendo le proprie mire speculative alla reciprocità della relazione venditore-cliente, il tutto in un panorama in cui la concorrenzialità imprenditoriale era fortemente incentrata sul massimizzare i margini di guadagno che venivano ricavati da servizi sempre più scadenti. E.T. ha avuto la sfortuna di comparire nel posto sbagliato e al momento sbagliato, tuttavia è facile notare che la sua figura mitologica sia andata a incarnare delle criticità più complesse, criticità che erano sistemiche e che forse lo sono ancora.
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