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Il filo nascosto: Nick mano fredda di Stuart Rosenberg

Un nuovo appuntamento con la nostra rubrica, ancora all'insegna di Paul Newman.

Nato per agitare le acque. È così che il nemico-amico Dragline sintetizza la vita e la personalità del ribelle e antiautoritario protagonista di Nick mano fredda, interpretato da un Paul Newman all’apice del suo mito. Un uomo sconfitto dalla vita, che gli ha prima consegnato un abbandono da parte della donna che amava e successivamente lo ha condotto verso due anni di reclusione e lavori forzati, eccessiva pena a lui assegnata per aver distrutto alcuni parchimetri da ubriaco.

Un uomo senza Dio, la cui parabola è però costellata da ripetute simbologie cristiane, solo parzialmente smorzate da un catastrofico adattamento italiano, che ha prima cambiato il suo nome da Luke (non a caso uno degli evangelisti) a Nick, per poi travisare il titolo originale (Cool Hand Luke, ovvero mano di poker fortunata e ben giocata) e arrivare infine all’indiscriminato taglio di una delle scene chiave del film, in cui dopo aver miracolosamente ingerito 50 uova in un’ora il protagonista si accascia su un tavolo seminudo e con le braccia allargate, in un esplicito rimando all’icona di Gesù Cristo crocifisso.

In un 1967 che già ribolle delle tensioni socio-culturali incanalate poi nel celeberrimo Sessantotto, Nick mano fredda diventa così, insieme ai coevi Gangster Story e Il laureato, emanazione della crescente rivolta contro il sistema e contro il conformismo, efficacemente intercettata da una Hollywood ancora al centro del dibattito politico e intellettuale. Un’opera edificante e attuale sulla lotta, sempre doverosa e necessaria, contro le distorsioni del potere, a cui dedichiamo il nuovo capitolo della nostra rubrica cinematografica Il filo nascosto, ancora nel segno di Paul Newman dopo il precedente appuntamento con La gatta sul tetto che scotta.

Nick mano fredda: Paul Newman da leggenda in un intramontabile grido di ribellione

Nick mano fredda 7

Dopo un breve prologo, seguiamo Luke nella sua lacerante esperienza in carcere, che riflette il suo irriducibile carattere. Al protagonista basterebbe infatti resistere due anni, senza creare problemi e sottomettendosi alle autorità, per riguadagnare l’agognata libertà. Ma Luke, nato appunto per agitare le acque, non è capace di chinare la testa e mollare il colpo. «Quando finirà? Cos’hai in serbo per me? Cosa faccio ora?», chiede in ginocchio al dio in cui non crede nel corso dello struggente epilogo, ripercorrendo una parabola che lo ha portato prima in guerra, poi alla perdita del vero amore e infine a una fatale bravata, capace di sottrargli l’unica cosa per lui indispensabile, ovvero la libertà.

«Non ho mai fatto un progetto in vita mia», sussurra sconfitto Luke, rispondendo a Dragline che gli attribuisce una capacità di pianificazione a lui estranea. Nel suo tortuoso e doloroso percorso carcerario, Luke tenta infatti più volte la fuga, finendo inevitabilmente nel mirino di boss Godfrey (e del suo sguardo perennemente nascosto sotto inquietanti occhiali da sole) e in quello del Capitano impersonato da Strother Martin, che dopo l’ennesima bravata del protagonista pronuncia un breve monologo («What we’ve got here is failure to communicate…») entrato nella storia e scelto successivamente dai Guns N’ Roses per aprire il loro toccante brano Civil War.

Un viaggio segnato dal lutto (la perdita dell’amata madre, ultimo suo punto di riferimento), dai momenti di goliardia (il lavaggio dell’auto da parte di Joy Harmon, la sfida con le uova) ma anche dalla sincera amicizia, come quella con lo stesso Dragline, nata dalla reciproca antipatia e da una memorabile scazzottata, durante la quale Luke non si arrende neanche di fronte alla sua evidente inferiore prestanza fisica, rialzandosi anche dopo i colpi più violenti e anticipando di fatto il suo percorso in carcere.

Nick mano fredda: nato per agitare le acque

Stuart Rosenberg firma la vetta della sua carriera registica, con un intenso dramma carcerario che trasforma la prigione in chiara metafora delle costrizioni e dei soprusi perpetrati dal potere. Un’opera in cui la fuga è l’unica chiave narrativa e individuale per riappropriarsi della libertà, che proprio sul contrasto fra galeotti e carcerieri costruisce un ribaltamento di prospettiva fondamentale per l’intero filone del prison movie. L’esplosione dei film carcerari degli anni ’70 (con titoli come Papillon, Fuga di mezzanotte e Fuga da Alcatraz) è infatti inequivocabilmente figlia del solco scavato da Nick mano fredda e dalla parabola umana ed esistenziale tracciata da un monumentale Paul Newman, capace di fondere la sua aura divistica con una formidabile prova attoriale, che lo porta a tumefare ripetutamente la sua immagine per restituire al pubblico la discesa di Luke in abissi sempre più profondi.

Non è da meno però il resto del cast, a partire da Dragline, orso dal cuore d’oro interpretato dall’ottimo George Kennedy, premiato per la sua prova con l’Oscar come migliore attore non protagonista, capace di spingerlo verso una lunga e florida carriera, nel corso della quale ha spaziato fra i più disparati generi e registri. Doveroso però citare anche il contributo di Jo Van Fleet nella parte della morente madre di Luke Arletta, protagonista di un breve segmento fondamentale in chiave narrativa, e quello di un giovane Harry Dean Stanton, che in una memorabile sequenza accompagna una vera e propria tortura inflitta ai danni del protagonista con una lacerante esecuzione alla chitarra di Ain’t No Grave.

In un gruppo incredibilmente compatto e affiatato, spicca anche la presenza di Dennis Hopper, che appena due anni più tardi sfrutterà la lezione appresa sul set di Nick mano fredda per il suo Easy Rider, simbolo della contestazione giovanile e della Nuova Hollywood.

Il sottotesto religioso

Nick mano fredda

Il carcere in Nick mano fredda non è il punto di arrivo, ma il punto di partenza per diverse suggestioni, che si allargano ad altri aspetti della cultura e della società. Come accennavamo in apertura, a partire dal suo nome, Luke si rivela a più riprese una figura cristologica. L’inquadratura in cui lo vediamo sfibrato sul tavolo nella stessa posa di Gesù è solo il richiamo più evidente in questo senso. Quello del protagonista nel carcere è infatti un vero e proprio percorso di martirio, che si conclude con un sacrificio capace di alimentare la sua figura e di costituire un esempio per i compagni che gli sopravvivono. Dopo la morte della madre, un Luke distrutto si cimenta inoltre in una malinconica esecuzione di Plastic Jesus, altro brano dall’evidente sottotesto religioso.

Il parallelo fra Luke e Gesù è ancora più evidente nell’epilogo, quando all’apice del suo tormento si rivolge direttamente a Dio, per poi essere consegnato alle autorità dall’amico Dragline, in un tradimento dalle chiare analogie con quello di Giuda. La sua morte (fuori campo) non è però una sconfitta, ma è al contrario l’ennesimo episodio con cui il protagonista può rivivere e il suo messaggio può essere propagato. Non vediamo mai Luke su una croce, perché la croce è sempre stata metaforicamente sotto i suoi piedi: con un’efficace inquadratura nel finale, Rosenberg si sposta lentamente verso l’alto, scoprendo così l’incrocio su cui il protagonista ha passato l’ultimo difficilissimo periodo della sua vita.

A ribadire il concetto è l’ultimissima immagine di Nick mano fredda, ovvero un dettaglio della foto che Luke fa realizzare per vantarsi con i suoi ex compagni. Un’immagine in cui compare ancora una volta una croce e dove l’inconfondibile sorriso di Luke è affiancato da due splendide donne, simbolicamente al posto dei due ladroni di Gesù.

Fra western e pacifismo

Nick mano fredda

Nick mano fredda è cinema fieramente politico e perfettamente incastonato nella storia americana. Non è difficile infatti scorgere nel percorso di Luke riferimenti al contesto socio-culturale dell’epoca, come il suo passato in guerra, costellato da medaglie al valore ma anche da un disonorevole degrado a soldato semplice, anch’esso fuori campo ma ugualmente importante per tratteggiare la personalità di un uomo sempre in lotta contro le gerarchie, incapace di accettare gli ordini. Con la guerra del Vietnam allora in corso e il movimento pacifista sul punto di emergere in maniera dirompente, Luke si trasforma così anche in simbolo antimilitarista, anticipando di fatto anche le profonde conseguenze psicologiche ed emotive di un’intera generazione di giovani americani spediti al fronte.

Nella lotta del protagonista contro l’ordine e contro la legge si scorgono inoltre diversi riferimenti agli stilemi del western, trave portante della storia del cinema statunitense. Nick mano fredda ci presenta infatti un quadro umano sconfortante, in cui il potere è sempre freddo e autoritario, e agisce reprimendo con la forza qualsiasi tentativo di insubordinazione, applicando nei fatti il fallimento della comunicazione espresso a parole dal Capitano. Il mito della frontiera trova qui una nuova declinazione, diventando un luogo spirituale prima ancora che fisico dove fuggire per costruirsi un’esistenza diversa. Il paesaggio arido e bollente in cui Luke e i suoi compagni si spaccano quotidianamente la schiena, col fucile di boss Godfrey continuamente puntato su di loro, è il perfetto sfondo a un racconto di antieroi sporchi e sfrontati, perennemente in lotta contro un sistema disumano e contro regole e punizioni mortificanti.

La lotta contro il sistema

Le ribellioni e le fughe di Luke coincidono con i pochi raggi di sole all’interno di un racconto angosciante e dai risvolti drammatici, in cui ogni contravvenzione alla legge è punita con l’isolamento o, peggio ancora, con le percosse e con l’imposizione di lavori forzati da svolgere fino all’esaurimento fisico ed emotivo. Le inquadrature dal basso di Rosenberg non mancano di porre l’attenzione sulle catene che bloccano le gambe dei galeotti, mentre le sequenze ambientate negli angusti dormitori trasmettono l’atmosfera claustrofobica di un ambiente concepito per vessare e sfibrare i suoi ospiti.

Attraverso gli sguardi sinistri dei carcerieri e i loro movimenti lenti ma inesorabili, il regista tratteggia un quadro in cui non c’è possibilità di vittoria o redenzione, e dove l’unico modo per sentirsi ancora vivi è quello di provare a rimandare la propria fine, accettandone però le dolorose conseguenze. Le fughe di Luke sono rappresentate con un’efficace miscela di disperazione ed eroismo, mentre le missioni attraverso le quali il protagonista viene immancabilmente catturato e riportato in cella vengono quasi sempre nascoste allo spettatore, proprio per sottolineare che la vitalità fragile e fuorilegge del protagonista è comunque più dignitosa ed encomiabile dell’implacabile macchina con cui il sistema riporta sotto la propria ala protettiva le proprie pecorelle smarrite, da punire con metodi coercitivi e disumanizzanti.

Il finale di Nick mano fredda

Nick mano fredda

L’ultima fuga di Luke termina con l’ennesima cattura, con un inutile sparo a tradimento e con soccorsi che arrivano a un ritmo ben più compassato di quanto la situazione richiederebbe. Il potere ha ottenuto la sua ennesima vanagloriosa vittoria, ma il cammino del protagonista si conclude giustamente con un soddisfatto sorriso. Per chi è nato per essere libero da ordini, imposizioni e repressioni, la morte è un finale ben più accettabile e dignitoso di una vita spesa fra catene, torture e lavori forzati.

Nick mano fredda

Sono un tipo poco raccomandabile: ho ammazzato gente in guerra, mi ubriaco spesso e sfascio tutto quello che mi capita a tiro. Quindi non ho pretese da avanzare, ma anche tu devi ammettere che non mi dai buone carte da diverso tempo. Ho l’impressione che tu abbia organizzato la mano in modo che io non possa vincere, in galera o in libertà.

Il filo nascosto nasce con l’intento di ripercorrere la storia del cinema nel modo più libero e semplice possibile. Ogni settimana un film diverso di qualsiasi genere, epoca e nazionalità, collegato al precedente da un dettaglio. Tematiche, anno di distribuzione, regista, protagonista, ambientazione: l’unico limite è la fantasia, il faro che ci guida è l’amore per il cinema. I film si parlano, noi ascoltiamo i loro dialoghi.

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Marco Paiano

Tutto quello che ho imparato nella vita l'ho imparato da Star Wars, Monkey Island e Il grande Lebowski. Lo metto in pratica su Tech Princess.

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