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Guido Harari protagonista di #fotointerviste, spazio dedicato alla fotografia

Max&Douglas intervistano Guido Harari, fotografo e critico musicale

Il primo appuntamento con il nuovo format per il nostro canale Twitch, #fotointerviste, ha per protagonista Guido Harari, fotografo e critico musicale. #fotointerviste, disponibile sul nostro canale Twitch e, in seguito, su Tech Princess – Replay, è il nuovo spazio settimanale dedicato alla fotografia, in cui avremo l’occasione di conoscere grandi protagonisti del mondo dell’immagine. A condurre sono max&douglas con cui scopriremo curiosità e aneddoti sulla vita di Guido Harari. 

Nato a Il Cairo, Guido Harari è stato uno dei primi fotografi ad imporsi come freelance nel mondo della musica. Nelle vesti di fotografo e giornalista, intervista diversi nomi del panorama musicale, come Bob Marley, Carlos Santana e Frank Zappa, pubblicando su riviste come Gong, Ciao 2001 e Rock & Folk. Le sue immagini sono finite in copertina di album di grandi artisti internazionali ma anche italiani, come De Andrè o Gianna Nannini. Negli anni 1983 e 1984 pubblica la sua prima mostra, esposta a Torino, Milano e Barcellona. Successivamente diventa il fotografo ufficiale di molti artisti, come Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Vicino Capossela, Pino Daniele, Enzo Jannaci, Vasco Rossi, Fabrizio De Andrè. Dal 1994 fa parte dell’agenzia Contrasto, una della più importanti al mondo. Nel 2011 ha fondato ad Alba la Wall Of Sound Gallery, una galleria fotografica esclusivamente dedicata alla musica.

Guido Harari protagonista di #fotointerviste

Durante l’intervista, Guido Harari ci ha parlato delle sue foto più iconiche, di tecnologia, delle copertine e ha raccontato il suo rapporto con i suoi scatti nel tempo. Harari ha esordito parlando a proposito del Progetto del Wall Of Sound Gallery, un progetto che è nato mentre era a New York. «Passeggiavo per Soho e sono finito in una galleria di un fotografo musicale che si chiama Henry Diltz; aveva aperto un suo spazio in cui ospitava anche le opere di altri suoi amici e colleghi. Questa idea mi piacque molto poiché in Italia eravamo abituati al Diaframma di Lanfranco Colombo; mi piaceva l’idea che non ci fosse un critico, un mercante, un tecnico, ma un fotografo a chiamare a raccolta amici e colleghi in un momento in cui la fotografia musicale era considerata un arte di serie B».

«La fotografia musicale stava uscendo da una nicchia specialistica e questa galleria che poi è diventata il Morrison Hotel Gallery, è la galleria che raduna il maggior numero di fotografi soprattutto attraverso diverse generazioni. Ho pensato nel tempo che poi qualcuno avrebbe portato anche in Italia questa idea. Ho atteso inutilmente questo momento, poi mi sono trasferito al Alba e ho deciso di colmare la lacuna e ho affrontato questo progetto. Dopo anni a scrivere libri, lavorando sugli archivi di altri fotografi, italiani soprattutto, mi piaceva tanto questo tipo di operazione, ovvero spostare il mio sguardo sullo sguardo di altri fotografi. Anche cercare il mio sguardo negli sguardi degli altri; quindi dai libri ho pensato che potevamo cominciare a fare un’opera di divulgazione sulla storia di questo genere in particolare».

Le foto hanno una vita continua, ininterrotta

«Per farsi largo in questo ambito in Italia devi essere specializzato anche tecnicamente, devi avere una cifra riconoscibile; io non mi sono mai curato della cifra, nel mio percorso ho voluto allontanarmi da questa etichetta. Ho affrontato un percorso molto lungo, e oggi non solo è cambiato il modo di fotografare i personaggi, è cambiato tutto il mondo, il mondo della fotografia, il mondo dell’editoria e l’ambito principe di quando ho cominciato a lavorare; prima non c’era internet, non c’erano i videoclip e la fotografia aveva una sua dignità. Esistevano testate importanti che davano un grande risalto, direttori e photo editor importanti che valorizzavano le foto. Da un certo punto in avanti è cambiato tutto ed è cambiato l’accesso ai personaggi».

«Tra la fine degli ’80 e gli anni 2000, ho vissuto una stagione d’oro, per congiunzioni astrali varie, ovvero numerose testate, direttori, personaggi, disponibilità e apertura nei confronti dei fotografi. In un certo periodo non aspettavo la telefonata del giornale, proponevo io personaggi che mi interessavano, non solo musicali,  con una coincidenza di interessi da parte dei giornali. Quando questa coincidenza è venuta meno ed è cambiato tutto il mondo, mi sono spostato in un altro ambito, quello dei libri. Dopo trent’anni di corse in giro per il mondo a cogliere l’attimo fuggente, con grandi frustrazioni, dopo aver esplorato, approfondito, ho deciso di dedicarmi a dei progetti a più lungo respiro, creati per restare, come un libro».

Guido Harari, fotografo e critico musicale

«Ho pensato di aver scoperto anche un modo di fotografare diverso; di fatto anche i giornali hanno perso importanza, anche la fotografia digitale e la fotografia con i cellulari hanno cambiato decisamente il panorama. Quindi fotografare i personaggi è cambiato per motivi endogeni ed esogeni, per limitazioni progressive, modifiche dell’ambiente, mutazioni e anche un cambio di interesse nel rapportarsi a personaggi o realtà che possono interessare».

«Se tu pensi a quanti fotografi sono rimasti segnati da alcuni incontri come Dino Prediali con Pier Paolo Pasolini, oppure i fotografi che hanno seguito i Beatles e che hanno documentato una cultura, quella degli anni ’60, oppure il fotografo Sukita legato a David Bowie per quarant’anni; questo ti da la misura dell’interazione stretta e passionale tra un fotografo e un soggetto».

«A proposito delle copertine iconiche, ormai le uniche sono quelle di molti anni fa, ce ne sono pochissime legati a dischi contemporanei, che sono frutto di citazionismo. La riduzione di formato da LP a cd ha penalizzato molto, e i creativi si sono dati da fare per realizzare cofanetti che sono anche molto gratificanti. La copertina è stata per molto tempo una bandiera, dalla copertina dipendeva l’acquisto, poiché compravi il disco sulla fiducia, ti faceva immaginare quello che potevi ascoltare comprando il disco. Sto parlando di un’epoca in cui non c’era né Spotify, né YouTube e il modo per ascoltare i dischi era comprarli. Oggi puoi anche non comprarlo, siamo in piena era di musica liquida, puoi scaricare una traccia e non sapere cos’altro contenga quel disco, siamo in un’altra fase».

Max&Douglas intervistano Guido Harari

guido harari

«Ad esempio la copertina di Heroes di David Bowie è nata da una session improvvisata, tanto per trovarsi in studio e fare foto, e poi è diventata la copertina di un disco storico; è stato il disco che ha trainato l’immagine, come per la mucca di Atom Heart Mother dei Pink Floyd o Sgt. Pepper. Anche in Italia c’è stato un periodo brevissimo in cui un fotografo come Cesare Monti ha legato le sue immagini a dei dischi storici, come quelli di Battisti, Bennato, de Andrè, PFM; credo sia l’unico periodo in cui è successo questo, poi è stata una debacle, sono spariti gli art director, sono spariti i photo editor, è precipitato tutto e non c’è stata cultura, e anche per i fotografi non c’è stato il margine di fare cultura dell’immagine».

«Non c’era l’ambizione di fare alta fotografia ma incontrare artisti o personaggi che ci hanno segnato, che ci hanno fatto crescere e ci hanno aperto delle prospettive in un momento in cui la cultura del tempo non parlava di quelle cose, come ha fatto la musica degli anni ’60, che ha avuto questo valore. Abbiamo sentito parlare di beat generation da Bob Dylan, di Andy Warhol tramite i Velvet Underground, di musica contemporanea tramite Frank Zappa. La musica era questo: scoprire ed esplorare nuovi territori. Ho fotografato Bob Marley o Lou Reed, ma li ho incontrati in momenti che non sono quelli iconici a cui tutti fanno riferimento con il loro immaginario, eppure li posso raccontare attraverso le mie foto».

Fare cultura dell’immagine

«La cosa su cui occorre riflettere è che quando si hanno davanti grandi miti bisogna evitare la trappola di cadere nel fanatismo; l’artista è sempre proiettato in avanti, ad esempio Lou Reed era sempre in tensione verso nuovi suoni e se ti parlava di musica non ti parlava dei suoi vecchi dischi ma di altri progetti. Il segreto di questi incontri è vivere questi personaggi nel momento dell’incontro e, attraverso le foto, dare la sensazioni di essere li, per capire chi sono in quel preciso istante».

A proposito di tecnologia, Guido Harari ha spiegato che, nonostante ci siano standard eccellenti e funzionalità che possono essere utili, soprattutto se si fa un certo tipo di fotografia, quel che deve cambiare è l’approccio; l’approccio deve essere aggiornato, più che la tecnologia. «Quindi se la tecnologia ci permette di fare un balzo in avanti, ben venga il cambiamento. Ho resistito tantissimo all’acquisto di uno smartphone e devo dire che permette di fare delle cose, non tanto tecnicamente ma psicologicamente, sia per come lo si usa e sia per come le persone lo percepiscono».

«Le foto dei grandi maestri della fotografia non sono la perfezione a cui dobbiamo ambire è l’immagine che conta non la sua confezione. Ci sono dei progetti e foto che esigono una certa soluzione tecnica e le luci di un certo tipo, e altri dove funziona egregiamente anche un cellulare; l’essenziale è riuscire ad avere una prensilità della visione che ti faccia capire cosa ti serve senza che ti faccia finire intrappolato in un gioco tecnicistico».

Passione e curiosità

«Non mi sono mai posto le questioni di stile, tipo la riconoscibilità a cui sono sempre stato abbastanza indifferente; avendo davanti soggetti diversi, ognuno con la propria personalità, ho sempre avuto la voglia di risettarmi, di non ripetere, di capire questa persona. La mia idea utopistica è di scattare su misura per il soggetto, non avere un’identità che non sia quella del soggetto».

A proposito di uno degli incontri più particolari, Guido Harari ci ha raccontato quello con Alda Merini. «Ero a Milano, siamo andati a trovarla avvertendola che volevo fotografarla. Ci siamo trovati in questo micro appartamento sui Navigli in cui Alda Merini, che aveva passato molti anni in manicomio, aveva ricreato il caos, perché senza quella dimensione non riusciva a vivere. Con pochissimo tempo a disposizione, ho dovuto scegliere qualcosa che raccontasse, che parlasse. Ad un certo punto squilla il telefono e lei rispose alla telefonata in camera da letto; allora vidi tutti gli armadi sventrati, i cassetti tirati fuori, e questa specchiera con tutti i numeri di telefono scritti con il rossetto. Allora ho scattato una foto, a cui sono molto legato, come anche a quest’incontro».

Le foto hanno una vita continua, ininterrotta. «Una volta che la scatti e la stampi non è finita li, non è cristallizzata nel tempo. Bisogna essere in uno stato di continuo innamoramento dei soggetti che cerchi, altrimenti è solo un esercizio di stile. Bisogna avere passione, curiosità ma bisogna soprattutto ricercare lo stupore, è importante imparare a stupirsi ancora».

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Lucia Tedesco

Giornalista, femminista, critica cinematografica e soprattutto direttrice di TechPrincess, con passione ed entusiasmo. È la storia, non chi la racconta.

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