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Venice Immersive: Victoria Bousis ci racconta una storia potentissima

Alla Mostra di Venezia abbiamo scoperto la straordinaria storia di Pin Yathay e ne abbiamo parlato con la regista dell'esperienza immersiva

C’è un angolo della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia che incrocia strettamente la tecnologia. È la parte definita Venice Immersive, in cui trovano spazio tantissimi progetti in realtà virtuale di ogni tipo. Ci sono ‘semplici’ video in tre dimensioni o a 360°, ma anche esperienze immersive complesse, che ci portano in veri e propri mondi differenti. Una di quelle che più ci ha colpito è Stay Alive My Son e abbiamo avuto la possibilità di parlarne in maniera approfondita con la sua regista Victoria Bousis.

Stay Alive, My Son ci immerge in una storia potentissima

Come si può intuire dal titolo, questo progetto affronta una vicenda dai toni drammatici e forti. Tutto parte dall’omonimo romanzo autobiografico di Pin Yathay, scrittore cambogiano scampato al genocidio del suo popolo. Una storia terribile, piena di dolore, aggravato dal fatto che per scappare l’autore ha dovuto abbandonare al suo destino il figlio minore Nawath.

È un racconto intenso, che affronta gli orrori della guerra e quella scelta drammatica. Una decisione che non si esaurisce nel momento in cui avviene, ma che resta dentro chi l’ha dovuta compiere. Il senso di colpa, le difficoltà per accettarla, la speranza (forse vana) che il bambino sia in qualche modo riuscito a sopravvivere e che un giorno possa ritrovare il suo genitore.

Stay Alive, My Son di Victoria Bousis non ci racconta tutto questo in maniera passiva, ma ci porta a viverlo in prima persona. Non soltanto trasportandoci tramite la realtà virtuale in quegli ambienti, ma facendoci entrare nei panni di Yathay, riscoprendo la storia tramite i suoi occhi e ponendoci di fronte alle sue stesse scelte. Un modo innovativo di affrontare la narrazione.

Vivere Stay Alive, My Son è un’esperienza eccezionale. Al di là dell’altissimo livello tecnico, è un progetto dalla carica emotiva straordinaria. Una volta tolto il visore ci siamo ritrovati commossi e scossi. Il lavoro di Bousis riesce effettivamente a restituire la potenza di questa storia, in un modo che difficilmente una fruizione passiva tradizionale avrebbe potuto fare.

Quattro chiacchiere con Victoria Bousis

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Come anticipato, abbiamo avuto la possibilità di farci raccontare direttamente dalla viva voce della regista Victoria Bousis qualcosa in più su Stay Alive, My Son. Un’intervista dove abbiamo affrontato non solo il tema di questa esperienza immersiva e i suoi legami con il periodo storico attuale, ma anche gli aspetti più tecnici della realtà virtuale e quello che potrebbe essere il suo futuro. Ecco com’è andata…

La vicenda di Pin Yathay è davvero potentissima: un padre costretto ad abbandonare il proprio figlio per sopravvivere. Come sei entrata in contatto con questa storia e qual è stata la scintilla che ti ha fatto pensare che dovesse essere raccontata?

Ho scoperto il libro nove anni fa mentre viaggiavo per la Cambogia. Al tempo non conoscevo molto della storia di quel Paese. Sapevo ovviamente che c’era stato un genocidio, sapevo che era stata parte della guerra in Vietnam ma non sapevo molto della sua cultura. Ho conosciuto le persone e scavando più a fondo nella loro storia, l’antico regno Khmer. Hanno questo straordinario tempio Angkor Wat, che è come se fosse il Colosseo o per noi l’Acropoli. Ho iniziato a realizzare che queste erano persone davvero speciali, che hanno affrontato perdite incredibili.

Quindi trovo il libro, atterro a New York, inizio a piangere perché la storia è davvero potente e molto, molto dettagliata nella sua scrittura. Guardo la copertina e scopro che l’editore era nelle Filippine. E in una delle e-mail vedo il nome di Pin Yathay e mi sono detta “Oh mio Dio, è vivo“. Sono andata a Parigi e gli ho detto “Voglio raccontare la tua storia”.

All’inizio doveva essere un film o un documentario, ma mentre sviluppavamo la sceneggiatura Angelina Jolie è uscita con il suo film, First They Killed My Father. A quel punto era impossibile farlo. Fast forward a due anni dopo quando un sacco di cose stavano succedendo con l’ascesa del gaming e giovani sempre più interessati a giochi che fossero anche di ruolo, a titoli che prevedessero un sempre maggior coinvolgimento narrativo. Storie davvero belle e personaggi approfonditi con cui interagire. E contemporaneamente i cinema chiudevano per via del COVID.

Sono avvenute tutte queste cose insieme e mi sono detta: “Questa è un’opportunità per educare i giovani su un periodo storico che non dovrebbe essere dimenticato”. Perché sta succedendo ancora, in Ucraina le famiglie vengono separate di nuovo. È successo anche in Siria. E potrebbe essere un modo per raggiungere il pubblico più giovane per renderli parte della discussione e del cambiamento. Il tutto parlando a loro nel loro media. Con un mezzo che unisce cinema e gaming insieme così che possano mettersi nei panni di Pin Yathay, vivere il suo viaggio, fare decisioni, essere, respirare e camminare negli spazi in cui lui stesso ha camminato e comprendere la prospettiva da quel punto di vista, rivivendo la sua storia.

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Come dicevi, hai lavorato direttamente con Yathay e ha anche un ruolo chiave nell’esperienza. Cosa ci puoi dire su questo? Com’è stato lavorare direttamente con lui?

È adorabile. All’inizio era un po’ confuso sulla realtà virtuale, pensava fosse un gioco e non capiva cosa volessi fare. Ma dopo poco la questione è diventata “Come posso raggiungere un pubblico più giovane?“. In questo modo la storia non verrà persa e la storia della sua famiglia e della sua perdita non sarà invano. Nella sua mente inoltre spera ancora che suo figlio sia ancora vivo. Quindi la vede come un’opportunità per raggiungere tutti questi obiettivi: raggiungere un pubblico giovane, potenzialmente ritrovare suo figlio e impedire che le persone si dimentichino di questa storia.

È stato integrale in tutto. Da trovare la musica cambogiana che c’è in alcune scene che lui e sua moglie sentivano, a trovare diverse foto e articoli, immagini della sua casa (che abbiamo ricreato nel motore di gioco)… È stato molto coinvolto e lo è ancora, ci parliamo piuttosto frequentemente, è molto esaltato all’idea che il progetto sia qui.

Ma anche in termini di ricrearlo il suo supporto è stato chiave. Abbiamo fatto un sacco di foto delle sue mani, della sua faccia… Perché il giocatore ‘sparisce’ e diventa lui stesso Yathay. Quindi servono le sue mani, esatte. E le mani raccontano una storia: come sono piegate da tutto il lavoro che ha fatto, la forma che hanno le sue unghie… Ci dice molto sul viaggio di quest’uomo.

La tecnologia che abbiamo usato per scolpirlo in digitale è molto sofisticata. È un nuovo prodotto di Epic Games che si chiama MetaHuman. La tecnologia arrivava al punto in cui potevamo unire delle forme per creare una faccia che ricordasse quella di Yathay, ma non era ancora abbastanza. Quindi abbiamo sviluppato strumenti unici per scolpire questo modello, per avere le sue rughe, le macchie sulla sua pelle, i suoi capelli, la forma di tutto

C’è poi un sofisticato rig. Immagina come se la pelle fosse sopra questa complessa struttura ossea che riproduce anche i tuoi muscoli. Con ogni piccolo movimento lo rende più umano. Quindi solo per la faccia ci sono circa 893 ‘ossa’. E questa era la parte esteriore, il lavoro di scultura, di 3D modelling. Poi però si aggiunge il lavoro di animazione. Come fai a fare in modo che si muova in maniera umana e che non sembri un robot?

E il terzo aspetto su cui stiamo lavorando ora è la scansione della sua voce. Yathay mi ha letto più o meno 20 minuti di discorso, che è grossomodo quello di cui l’algoritmo ha bisogno per ricostruire il tono esatto di una voce. Poi la metteremo sopra la voce dell’attore, in modo che suoni esattamente come lui. Questa sarà nella nuova versione che presenteremo al prossimo film festival.

È pazzesco pensare che bastino solo 20 minuti per ricreare una voce umana…

Assolutamente. Pensa che per scolpire il suo modello è stato necessario oltre un mese. Il corpo umano, il volto di ciascuno di noi è un elemento assolutamente unico. Racconta tantissime storie diverse e per renderlo unico devi investire del tempo, analizzarlo da ogni direzione. La voce invece… È intelligenza artificiale.

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Ne hai parlato anche prima, ma vorrei sapere di più sul perché hai scelto di raccontare questa storia non in una maniera ‘tradizionale’, ma tramite un’esperienza immersiva.

Penso che il punto di partenza fosse coinvolgere un pubblico giovane, perché credo sia importante renderli parte del futuro dello storytelling, dell’evoluzione del cinema e delle storie. Un’altra parte invece riguarda il cervello, che è una parte del corpo curiosa. Sa solo quello che gli dici e glielo dici tramite ciò che vedi, ciò che senti, ciò che assaggi, ciò che tocchi…

Una volta che indossi il visore, stai dicendo al tuo cervello: “OK, questo è l’ambiente in cui ti trovi, sei in una giungla in Cambogia. Questi sono i suoni che senti”. È un suono spazializzato, il che significa che in base a dove ti muovi il suono proviene da una parte diversa. Ricrea il modo in cui i rumori agiscono nel mondo reale. A questo punto afferri qualcosa.

Prima che tu te ne renda conto il cervello inizia a credere che stia effettivamente vivendo in quel mondo e inizi a percepire quella storia. Si apre l’opportunità di creare emozioni più complesse. In un film puoi ridere, sorridere, emozionarti, ma non ridi, ti emozioni o sorridi perché sei il personaggio, ma perché ti ricorda di qualcosa che è successo nella tua vita o sullo schermo.

In questa situazione se prendi delle decisioni, se sollevi qualcosa, se sei coinvolto nel mondo, dopo tre minuti il tuo cervello crede che tu sia questo personaggio, che queste cose succedano a te e le tue emozioni diventano più profonde. La speranza, la perdita, l’amore ma anche emozioni più complesse, che coinvolgono l’idea di scelta, come il rimorso, il senso di colpa e la responsabilizzazione. Non puoi averle semplicemente guardando. Devi fare qualcosa per sentire il rimorso per quello che hai fatto.

Ho pensato che sarebbe stata una vicenda importante da raccontare in questo modo, perché la storia si sta ripetendo, un’altra volta. La separazione delle famiglie è ritornata molte volte nel corso della storia, purtroppo. Che si tratti della crisi migratoria in America, che era legata alla politica, la crisi dei rifugiati in Siria, legata alla tirannia, o adesso nella guerra in Ucraina. È sempre la stessa storia, ancora e ancora.

E credo che quando il sistema politico non interverrà abbastanza rapidamente per proteggere queste famiglie, i giovani tramite la loro voce e l’uso dei social media saranno spinti ad agire, anche perché hanno conosciuto la storia di quest’uomo, provandola direttamente. Saranno più attenti a queste situazioni che aprono la porta alla separazione delle famiglie.

Penso che l’unità familiare vada protetta e che se le persone giovani o meno giovani conoscono queste storie capiranno che non è semplicemente scegliere di mettere tuo figlio su una scialuppa, ma che è una decisione che perdura. Per il genitore che la prende, non finisce mai. C’è sempre un sentimento ambiguo di perdita che provano. E lo stesso per il figlio, per cui le conseguenze potrebbero essere terribili. C’è il traffico di esseri umani, la perdita dell’identità… Credo sia un modo per cercare di impedire che accada di nuovo.

E poi naturalmente c’è la storia di un uomo, vero. Una persona che ha vissuto in questa epoca terribile, ma l’ha sfruttato per spingersi all’azione. È andato a testimoniare al processo delle Nazioni Unite ai leader del Khmer Rossi. Li ha guardati negli occhi e gli ha raccontato come si è sentito, come abbiano fatto soffrire lui e il suo popolo che è importantissimo per chi persegue la giustizia. Ha continuato a scrivere diversi libri in tutto il mondo. Ha preso qualcosa che normalmente sarebbe distruttivo per qualcuno e l’ha reso uno strumento di forza.

Dopo esserci confrontati con una pandemia e tutte queste cose terribili che il mondo sta affrontando, ricordare alle persone di avere speranza, di quanto sia forte lo spirito umano, di come possiamo fare cose positive a partire da quelle negative, questa storia può essere d’ispirazione.

Passando a un aspetto più tecnico, puoi spiegarci quali sono gli step da affrontare, oltre a quelli di cui abbiamo parlato prima, per creare un’esperienza immersiva come questa?

La prima parte è naturalmente scegliere la storia giusta, che sia adatta a un prodotto esperienziale come questo. Ti serve qualcosa che colpisca i sensi, che coinvolga il muovere il tuo corpo nello spazio… Perché è questo che hai a disposizione, i joystick e i diversi sensori. Una volta che hai la storia, inizi a creare il mondo.

Quindi in questo caso per esempio abbiamo ricreato l’S-21, che è il campo di concentramento in Cambogia, che ha anche il significato simbolico di essere la sua prigione mentale. Quindi ho raccolto tutte le reference dal luogo reale e ho iniziato a tracciare il percorso che il giocatore avrebbe dovuto fare e i diversi puzzle da affrontare.

Quello che fai poi è partire dalle graybox, quindi queste grandi forme e ti concentri sulle emozioni che emergono. “Cosa fa provare paura o ansia al giocatore?”. Può essere il suono di un mitra sulla sinistra o altre cose relativamente piccole come questa. Dopodiché c’è il voiceover e ciò che ciascuno può o non può fare.

Una volta che hai pronto tutto questo e le meccaniche che vuoi sfruttare, è il momento dell’art department, che aggiunge la magia. Nel nostro caso ad esempio abbiamo ricostruito il tempio di Angkor Wat in Cambogia. Il team artistico e il nostro level designer si sono impegnati per ricreare questi materiali complessi. Quando guardi un muro, deve raccontare una storia di migliaia di anni di rovine, stagioni che passano, sgocciolii… Nessun mattone è uguale agli altri, perché sono fatti da mani umane, non da una macchina. Guardi tutti questi dettagli e li ricrei ed è tutta una questione di ricreare l’ambiente.

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A questo punto interviene il team 3D che ricrea i vari oggetti: può essere questo telefono, questa borsa, questi alberi… Si passa quindi all’illuminazione, che chiaramente è una componente chiave per creare il mood e il realismo. Poi le meccaniche di gioco e infine, l’ottimizzazione.

Per la realtà virtuale, un aspetto difficile da gestire è la conta dei poligoni. Il numero di triangoli che vedi. Non è come un semplice videogioco. In un videogioco renderizzi ogni poligono che vedi in tempo reale una volta sola. Nel VR devi farlo due volte, una per ciascun occhio. Ogni scena quindi deve essere ottimizzata in modo che permetta di avere se non gli ideali 90 frame al secondo, almeno 60. In questo modo non si ha la sensazione della testa che gira. Perché se va troppo piano e glitcha, ti fa venire la nausea.

Il team è stato incredibile. Ho aperto uno studio di gaming che se ne è occupato, e hanno una lunghissima esperienza. Il Senior Level Designer è da oltre 30 anni nel gaming. Quindi sapevano come approcciare il tutto per avere un’esperienza incredibile, con un ambiente bellissimo, ma che girasse con dei buoni FPS così che la gente potesse effettivamente goderselo.

Insomma, il processo più o meno è questo.

Ho un’ultima domanda, legata anche a questo discorso. Questa tecnologia sta crescendo davvero molto velocemente: dieci-quindici anni fa tutto un’esperienza di questo tipo era pura fantascienza. E c’è una cosa che io per primo mi domando e su cui vorrei sapere come la pensi: questo tipo di arte è un’evoluzione di un altro media – come può essere il cinema o il videogioco – o stiamo assistendo alla nascita di qualcosa di completamente nuovo, con il suo linguaggio? Qualcosa che arriva dal mondo del gaming e del cinema ma che è un qualcosa a sé?

È un’ottima domanda ed è qualcosa su cui in realtà mi sono interrogata anche io. Io vengo dal cinema e per me il focus è sempre sulla storia e sui personaggi quindi non sviluppo niente senza sapere esattamente quale sia la storia che voglio raccontare e la prospettiva da cui voglio narrarla. Quindi per me è un’evoluzione naturale del cinema e del videogioco riuniti.

Penso sia ancora in uno stadio iniziale. Stiamo iniziando a comprenderlo. Penso che la mia esperienza sia ancora unica nel suo genere, mettendoti nei panni di un personaggio principale e aggiungendoci della complessità, con meccaniche di gioco interattive. Ci sono davvero sei livelli di libertà per effettivamente diventare quel personaggio.

Quindi credo che una volta che inizieremo a sviluppare sempre più progetti di questo tipo, magari avere esperienze multiplayer, in cui puoi davvero vivere una storia con un cast completo, nascerà un nuovo linguaggio. Un modo con cui le persone possano interiorizzare le esperienze, avere emozioni più profonde. Questo aspetto della realtà virtuale deve ancora essere compreso a pieno.

Non so se possa dare vita a qualcosa di effettivamente nuovo. Per me è un’estensione, un’evoluzione del cinema, ma senza l’idea di sostituirsi a esso. Tra le persone che attualmente sono coinvolte nel contesto delle esperienze immersive ci sono tanti progetti diversi dal mio. C’è chi sta creando della danza sperimentale, c’è chi sta sfruttando gli algoritmi per ricreare gli ambienti con frame rate elevati, c’è chi sta usando video a 360…

Da questo punto di vista, credo sia diverso perché può andare in tantissime direzioni differenti. Il cinema è il cinema, può avere diversi generi ma resta cinema. In questo ambiente invece l’esplorazione è ancora agli inizi quindi ha il potenziale di svilupparsi in qualcosa di unico, a sé stante, con tanti artisti che usano il mezzo per creare cose diverse.

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Per quanto mi riguarda, voglio restare nell’ambito della regia, raccontare storie come questa. Mi piace dirigere gli attori, creare mondi fantastici, dare vita ad ambienti virtuali che possano anche essere girati come film tradizionali – un po’ come The Mandalorian. Voglio essere un’autrice che crea film anche in questo modo e poi far nascere da questi un videogioco e un’esperienza VR. Vorrei questo tipo di approccio, restando sempre nell’ambito di ciò che è il cinema.

Non ci resta che ringraziare Victoria Bousis sia per la chiacchierata che per aver dato vita a un’esperienza unica come Stay Alive, My Son. Un progetto che davvero mostra le potenzialità di un mezzo come la realtà virtuale anche in ambiti artistici, dandoci un assaggio di ciò che potrebbe diventare questo medium in un futuro non troppo lontano.

Stay Alive, My Son
  • Used Book in Good Condition
  • Yathay, Pin (Autore)

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Mattia Chiappani

Ama il cinema in ogni sua forma e cova in segreto il sogno di vincere un Premio Oscar per la Miglior Sceneggiatura. Nel frattempo assaggia ogni pietanza disponibile sulla grande tavolata dell'intrattenimento dalle serie TV ai fumetti, passando per musica e libri. Un riflesso condizionato lo porta a scattare un selfie ogni volta che ha una fotocamera per le mani. Gli scienziati stanno ancora cercando una spiegazione a questo fenomeno.

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