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Babylon: sogni, fantasmi, gloria e oblio nel nuovo film di Damien Chazelle

C’è un preciso punto di svolta nel cinema di Damien Chazelle, un momento in cui la realtà e l’illusione vivono una collisione netta, si dividono visivamente e concettualmente, lasciando il pubblico in balia di una considerevole rifrazione. L’unico elemento che resta ben saldo in questa oscillazione narrativa nel suo cinema è la musica. Non importa se sullo schermo c’è il passato o il futuro; la musica, con le sue ritmiche scandite e sempiterne, non appartiene all’illusione o alla realtà, non deve scendere a compromessi, non deve scegliere a chi appartenere, essendo, per sua stessa natura, al di sopra delle parti. 

Babylon è un’opera ambiziosa per tanti motivi, costellata da un lato da un cast di attori che convincono dalla prima all’ultima scena, da Brad Pitt, Margot Robbie, Samara Weaving, Spike Jonze a Tobey Maguire, e dall’altro dai molteplici riferimenti alla storia del cinema e al suo progressivo disgregarsi e consolidarsi sulle sue ceneri di celluloide. È evidente che Damien Chazelle deve aver amato Hollywood Babilonia, saggio fondamentale di Kenneth Anger che racconta come nacque lo Star System, come gli attori e le attrici diventarono divi e dive, stelle, figure mitizzate che vivevano spesso negli eccessi, negli scandali, nello sfarzo, nell’estasi più lussuriosa e distruttiva. 

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Ed è così che si apre Babylon, introducendoci nella vita, inizialmente, molto sfortunata di Manny Torres (Diego Calva), un messicano nella città degli angeli, alla fine dell’era del cinema muto, che sta cercando di portare un elefante – primo grande riferimento a Intolerance (D.W. Griffith, 1916) – a una delle feste più disinibite e sfrenate di quel tempo: anche i festini hollywoodiani erano abitati da figuranti e comparse, pezzi di scenografie e attori al culmine della propria popolarità, come se ad andare in scena non fosse una sceneggiatura nelle mani di un abile regista ma la grottesca, smisurata, lapidaria sospensione tra il prima e il dopo, un intermezzo tra il divismo e l’anonimato, tra la vita e la morte.

Babylon è un film ambizioso

Babylon film

Ma all’interno di questa atmosfera di festa convivono tre storie, tre personaggi e il loro amore per il cinema: Nellie LaRoy (Margot Robbie) un’aspirante attrice che si trova nel posto giusto (questa festa folle) al momento giusto e viene scritturata per un film; Manny Torres che diventa l’assistente di Jack Conrad (Brad Pitt), una star del cinema muto. 

Negli ultimi anni molti registi hanno raccontato il cinema, la sua storia, i personaggi che ne hanno composto e determinato l’immaginario, da Tarantino, David Fincher a Chazelle stesso. Babylon ha molto in comune con La La Land, di certo sono due facce della stessa medaglia, o due tratti speculari della stessa bobina: ritorna molto di La La Land, dall’amore che nasce sul set, in una città che è tutta un set, anche al di fuori di esso, considerando che Los Angeles è come un eruv filmico a cielo aperto; alla musica che non deve scendere a compromessi, neppure per essere realizzata; al cinema e all’amore, all’ossessione di chi lo scrive, di chi lo vive, e di chi lo guarda.

Chazelle sprigiona la sua ossessione fotogramma per fotogramma, componendo un’ode al cinema degli albori, al cinema che ha saputo cambiare i propri connotati, in cui l’intrattenimento ha dovuto necessariamente convivere con l’industria, mercificando i sogni di chi ha lottato, ha sbracciato per essere parte di qualcosa di nuovo, forgiato dalla fatica e dallo slancio immaginifico di reietti, rifiuti della società. 

Babylon è un film che celebra la magia del cinema

L’opera di Chazelle inventa se stessa a partire da un saggio ma non ha le stesse pretese: omaggia, cita, domina, unisce, scompagina e ricostruisce, un’opera prismatica che non è perfetta, è ambiziosa, determinata, e non fa fatica anche a scomodare i capolavori del cinema di ogni tempo, da Intolerance a Singing in The Rain, o a riferirsi a chi il cinema muto lo ha creato e illuminato, come Clara Bow, John Gilbert, Jeanne Eagels, Anna May Wong

Babylon è un film che celebra la magia del cinema, ma è anche una critica all’industria stessa da cui nessuno esce illeso. La crudeltà, la corruzione e la depravazione dell’industria convivono con la meraviglia immortale del cinema. Un set cinematografico è “il posto più magico del mondo”, secondo Jack Conrad, ma Chazelle per realizzarlo alterna la riflessione elegiaca sui sogni infranti con gli abissi della gloria, inabissando lo spettatore a sua volta in una storia che cerca di convincere che il cinema non è un’arte bassa, non è seconda al teatro, o all’opera, o alla letteratura, è più grande di noi, le persone che abitano le scene potrebbero anche svanire, ma i loro ricordi dureranno per sempre su celluloide. 

Come decretato anche da Andrej Tarkovskij, che attraverso il cinema scoprì come l’uomo possedeva nelle proprie mani la matrice del tempo, questa è la vera eredità del cinema, un’arte che si prende tutto, fama, gloria, salute, speranza, sogni, ma il cui lascito è enorme, incessante, sconfinato, eterno. 

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Lucia Tedesco

Giornalista, femminista, critica cinematografica e soprattutto direttrice di TechPrincess, con passione ed entusiasmo. È la storia, non chi la racconta.

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