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I videogiochi portatili anni Ottanta. La macchina del tempo

Vita, morte e miracoli degli schiacciapensieri

Persone chine che rischiano di andare a sbattere contro i lampioni perché dedite a digitare compulsivamente i tasti di piccoli apparecchi tascabili.

Chi di voi lettori sa datare questa scena? Come dite? 2022?

Sì, ma non solo. C’erano una volta i videogiochi portatili, che una trentina (abbondante) di anni fa hanno allenato miriadi di giovani e giovanissimi a diventare gli adulti smartphone-addicted del presente.

E chi pensa al Game Boy è fuori strada. Commercializzato a partire dal 1989, la mini console di casa Nintendo è da considerarsi la nipotina dei primi videogiochi portatili. Al cui ricordo è dedicata la puntata odierna della nostra rubrica settimanale La macchina del tempo.

I videogiochi portatili: le origini

Dei miti non si sa bene la data di nascita e quella della dipartita. E, così come alcuni sostengono che Jim Morrison sia ancora vivo a cantare e suonare in qualche atollo tropicale, nessuno sa dire quando ebbero origine i videogiochi portatili.

Alcuni siti di appassionati, facendo ricorso più alla memoria che a fonti attendibili, ne fissano la nascita intorno alla metà degli anni Settanta, e il declino nei primi anni Novanta del secolo scorso.

schiacciapensieri

Videogiochi portatili o schiacciapensieri

Cosa certa è il nomignolo che avevano assunto in Italia: schiacciapensieri. Con tutta evidenza, si tratta di una storpiatura di scacciapensieri, lo strumento musicale idiofono che non spicca certo per varietà timbrica.

Il nome, dunque, si adatta perfettamente ai videogiochi portatili. Per fruire dei quali, come vedremo, era in fondo sufficiente saper muovere i polpastrelli a velocità supersonica.

Ma entriamo nel vivo e vediamo più in dettaglio cosa mai siano stati, questi misteriosi videogiochi portatili di prima generazione.

Videogiochi portatili anni Ottanta: uno per tutti

Il fatto è che, praticamente, tutti gli schiacciapensieri erano concepiti allo stesso modo. Al punto che la console spesso era identica nel formato e nella disposizione dei tasti.

Due pulsanti (ma si poteva arrivare a quattro nelle versioni incredibilmente evolute) permettevano di muoversi, e uno consentiva di compiere una determinata azione. C’erano poi, di solito, i pulsanti A e B, che designavano due diversi livelli di difficoltà. Commuove, a distanza di decenni, la totale mancanza di creatività applicabile agli schiacciapensieri. Eppure, allora ci sembrava di essere a un passo dalla Luna.

C’erano un fondale fisso, e una serie di posizioni (altrettanto fisse) che poteva assumere il protagonista del videogioco, rigorosamente in versione monocroma.

Ma, e questo è il colpo di genio che ha tenuto generazioni incollate ai videogiochi portatili, un’unica matrice garantiva una varietà di declinazioni. Gli schiacciapensieri in commercio erano moltissimi. Se per gli spiriti più poetici il protagonista doveva, poniamo, raccogliere fiori a velocità record, i giovani più rock potevano sbizzarrirsi con eroi nerboruti che mollavano cazzotti o sollevavano pesi disumani.

I videogiochi portatili e il dramma delle pile

I videogiochi portatili degli anni Ottanta ci hanno insegnato che la vita non regala niente. E che l’imprevisto, addirittura il dramma, possono venire a visitarci nei momenti più inopinati. Addirittura? Addirittura.

Come abbiamo scritto, la competenza chiave per riuscire negli schiacciapensieri era la rapidità nel muovere le dita. I migliori, insomma, digitavano su quei poveri pulsanti decine di volte al secondo, obbligando così le pile a fare gli straordinari. È come se qualcuno, in una stanza, accendesse e spegnesse la luce per sei ore al giorno senza interrompersi.

Quindi, a distanza di decenni, è ora di dire la verità: non erano le pile dei videogiochi portatili a durare poco. È che, in mezza giornata, le sottoponevamo al lavoro che di norma avrebbero dovuto svolgere in un mese.

E, puntualmente, le suddette pile ci abbandonavano quando stavamo raggiungendo punteggi da campionato mondiale. La scena è nota: il nugolo di amici attorno al campione, le immagini dello schiacciapensieri che, inesorabilmente, sbiadiscono. E poi il nulla, lo schermo vuoto, la consapevolezza della finitudine delle cose umane, le pernacchie degli amici (begli amici, tra l’altro).

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Gli schiacciapensieri come palestra di vita

Inoltre, almeno tra il gruppo di amici frequentati dall’estensore di questo articolo, si era messo in moto un continuo prestito reciproco di schiacciapensieri.

Così come l’erba del vicino sembra sempre più verde, allo stesso modo i videogiochi portatili degli altri ci sembravano più avvincenti. E siccome tale sensazione era comune, tutti accettavano di prestare il proprio schiacciapensieri per riceverne un altro in cambio.

Insomma: quei buffi giochini in plastica insegnavano la destrezza fisica, allenavano al fatto che nulla è eterno, e ci facevano ripudiare il senso del possesso. Rendiamoci conto di cosa abbiamo perso!

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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