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Blade Runner compie 40 anni, e non andrà mai perduto come lacrime nella pioggia

Il nostro omaggio al capolavoro di Ridley Scott nel giorno del suo quarantesimo compleanno.

Quello di Ridley Scott è il cinema dei duellanti. I duellanti attraverso diverse stagioni della vita che danno il titolo alla sua opera prima, ma anche Ripley e la spaventosa creatura protagonista di Alien, con cui il personaggio di Sigourney Weaver dà vita a uno scontro all’ultimo sangue nell’ignoto spazio profondo. Duellanti, stavolta nello stesso schieramento, sono anche Thelma & Louise, protagoniste di un intenso e struggente road movie in fuga da tutto e tutti. Massimo Decimo Meridio ne Il gladiatore trasforma in un duello il suo desiderio di vendetta su Commodo, e lo stesso fa lo Jean de Carrouges di Matt Damon in The Last Duel, deciso a riscattare l’onore della sua amata. Ma a ben guardare, il duello è alla base anche del capolavoro del regista britannico Blade Runner, che proprio oggi celebra il quarantesimo anniversario dell’uscita nelle sale statunitensi.

Uscito per ironia della sorte lo stesso giorno de La cosa di John Carpenter e a pochi giorni di distanza da E.T. l’extra-terrestre di Steven Spielberg, che con la sua fantascienza edificante e consolatoria condannò gli altri due film a un deludente riscontro al botteghino, Blade Runner prende vita dal romanzo del celeberrimo autore di fantascienza Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep?, adattato in italiano in un meno suggestivo Il cacciatore di androidi. Un’opera cupa e pessimista, che ambienta in una Terra post-apocalittica una lacerante riflessione sul concetto di esistenza, in bilico fra i duellanti umani e androidi. Un’atmosfera che si sposa perfettamente con lo stato d’animo di allora di Ridley Scott, alle prese con una profonda crisi esistenziale dopo la morte del fratello maggiore.

Un capolavoro di scenografia e design

Blade Runner

Dopo diverse modifiche alla sceneggiatura e brusche sterzate del progetto, prende vita un doloroso neo-noir futurista in perfetto equilibrio fra fantascienza e filosofia, ambientato nella morente Los Angeles del 2019. Una metropoli chiassosa e avvelenata, dove le luci al neon e i giganteschi cartelloni pubblicitari emergono a fatica da una fitta foschia e da una pioggia senza fine, che bagna una società distopica in cui la vitalità e le emozioni sono ormai ridotte ai minimi termini. In questa atmosfera tetra, esaltata da sublimi scenografie verticali che ricordano Metropolis e dal sontuoso lavoro di design di Syd Mead, facciamo la conoscenza dello scontroso e solitario Rick Deckard, interpretato da un Harrison Ford in versione Humphrey Bogart postmoderno. L’uomo viene incaricato di distruggere (o meglio, ritirare) alcuni replicanti, androidi fondamentalmente indistinguibili dagli esseri umani utilizzati come manodopera, contraddistinti da un ciclo vitale limitato a quattro anni.

Comincia così il duello fra Deckard e le intelligenze artificiali superstiti, a loro volta strenuamente attaccate all’esistenza che è stata creata per loro dalla Tyrell Corporation, una delle più importanti multinazionali di questa Terra al collasso fisico e morale. Quello di Deckard è però anche un duello contro la sua stessa coscienza: l’uomo intreccia infatti una relazione sentimentale con Rachael (un’eterea Sean Young), una delle replicanti ancora in circolazione; sulle sue tracce c’è inoltre l’indimenticabile Roy Batty di Rutger Hauer, protagonista nel finale di uno dei più celebri e amati monologhi della storia del cinema. Ma non finisce qui. Diversi indizi sparsi nel racconto, fra cui un origami a forma di unicorno che fa la sua comparsa nell’epilogo, suggeriscono che anche Deckard potrebbe essere un replicante, e in quanto tale in balia degli stessi quesiti esistenziali.

Blade Runner e Shining

Blade Runner

Proprio la natura di Deckard, insieme ad altri dettagli narrativi, è al centro di una bizzarra opera di revisione che ha portato a ben 7 versioni di Blade Runner disseminate in un arco temporale di 25 anni. Dopo un’estenuante lavorazione, che mise a dura prova il morale della troupe e minò alla base il rapporto fra Scott e Ford, i primi test screening diedero vita a reazioni abbastanza negative da parte del pubblico, che espresse disagio per la trama labirintica e a tratti contorta.

Si decise quindi di intervenire su Blade Runner con alcune modifiche. Le più sostanziali sono sicuramente l’introduzione della voce narrante dello stesso Deckard, che chiarifica alcuni aspetti del racconto, e l’inserimento di un posticcio ma suggestivo lieto fine, peraltro incoerente per toni e contenuti con il resto del film. Dopo la comparsa dell’origami dell’unicorno vediamo infatti Deckard e Rachael in fuga in auto in un’atmosfera sognante, mentre la voce narrante chiarifica che, a differenza di quanto affermato in precedenza, c’è la possibilità che la vita dell’androide si protragga per più di 4 anni.

Il finale di questa edizione, che è anche quella arrivata per la prima volta al cinema, contiene inoltre un inaspettato collegamento a un’altra pietra miliare della storia del cinema, cioè Shining di Stanley Kubrick: impossibilitato a girare le sequenze in elicottero della fuga di Deckard e Rachael, Ridley Scott chiese a Kubrick del materiale tagliato dalla leggendaria sequenza d’apertura del suo horror tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Kubrick acconsentì, contribuendo così con lo scarto di un suo lavoro a dare vita a un’opera altrettanto importante.

Le diverse versioni di Blade Runner

Nel corso degli anni, Scott è tornato più volte sui suoi passi, immettendo sul mercato la cosiddetta Director’s Cut del 1992 e la Final Cut del 2007. Questi rimaneggiamenti di Blade Runner eliminano la voce narrante, odiata da buona parte dei fan del film e dallo stesso Ford, cancellano l’insoddisfacente lieto fine e inseriscono una breve ma fondamentale sequenza onirica. In questo passaggio, Deckard sogna un unicorno in carne e ossa, alimentando così indirettamente il dubbio che anche lui sia in realtà un replicante e dando una nuova sfumatura all’enigmatica battuta del collega Gaff su Rachael: «Peccato però che lei non vivrà! Sempre che questo sia vivere…»

A prescindere da quale sia la versione preferita di Blade Runner da ogni spettatore, resta intatta la sua forza espressiva e tematica, che ha contribuito a elevare la fantascienza al cinema (da sempre considerata un genere di serie B) e ad alimentare il florido filone del cyberpunk, diventando fonte di ispirazione più o meno esplicita per opere come Terminator, Brazil, Akira, Il quinto elemento, Dark City e Matrix. A restare impresso a livello visivo è soprattutto l’impressionante lavoro scenografico, che mescola elementi futuristici con la Los Angeles sfruttata dal cinema noir degli anni ’30 e ’40, e suggestioni asiatiche (in particolare di Hong Kong) con un immaginario decadente e spettrale, in cui imponenti e grigi palazzi dominano su uno scenario totalmente privo di flora e fauna. Un chiaro monito sull’urbanizzazione sfrenata, ma anche un implicito invito a un rapporto più salubre con la natura, totalmente estranea a questo raggelante quadro.

Blade Runner e il tema del ricordo

Mentre il mondo muore, le uniche creature che fremono dal desiderio di continuare a vivere sono proprio coloro che la vita non la dovrebbero più avere. Scott segue in questo senso la scia di Dick, mostrando tutta l’empatia dei replicanti e mettendo al tempo stesso in scena l’impressionante livello di disumanità a cui sono arrivati gli esseri viventi. «Non era previsto che i replicanti avessero sentimenti. Neanche i cacciatori di replicanti. Che diavolo mi stava succedendo? Le foto di Leon dovevano essere artefatte come quelle di Rachael. Non capivo perché un replicante collezionasse foto. Forse loro erano come Rachael: aveva bisogno di ricordi», afferma la discussa voce narrante di Deckard, esplicitando alcuni dei temi di Blade Runner.

In una delle sequenze più angoscianti del lavoro di Scott, il protagonista dimostra a Rachael che conosce i suoi ricordi di infanzia, evidenziando che tutta la sua storia è in realtà una procedura standard applicata a tutti i replicanti. Il messaggio che emerge è tanto potente quanto allarmante: siamo frutto della nostra storia, della nostra memoria, ma cosa succederebbe se i nostri ricordi venissero in qualche maniera alterati? Saremmo ancora esseri senzienti o solo burattini in mano a qualcuno che gioca a fare Dio sulla nostra pelle? Quesiti esistenziali che trovano ulteriore riscontro nella passione dei replicanti per le fotografie, a sottolineare l’importanza dell’immagine per la creazione e per l’accesso al nostro personale bagaglio di ricordi ed esperienze.

Non è un caso che Blade Runner sia letteralmente disseminato di occhi: occhi da scrutare per carpire i pensieri, occhi che invadono l’inquadratura e occhi che addirittura vengono colpiti a mani nude per uccidere le persone.

La figura di Roy Batty

Blade Runner

Mentre Deckard rispecchia la figura del tipico antieroe noir, che subisce la storia invece di indirizzarla ed è come noi perso fra le pieghe di un racconto tortuoso e a tratti indecifrabile, in cui i confini morali si assottigliano sempre più, emerge prepotentemente l’androide ribelle Roy Batty. Mentre E.T. l’extra-terrestre conquistava le sale di tutto il mondo con una figura di stampo cristologico, al tempo stesso messaggera di pace e martire, protagonista di una resurrezione e di una nuova salita in cielo, Blade Runner propone un personaggio con diversi punti di contatto con il Diavolo, che cita apertamente gli angeli caduti di William Blake e cerca disperatamente il suo posto in un ambiente decisamente più simile all’Inferno che al Paradiso.

A metà fra saggio profeta e spietato killer, il personaggio di Roy Batty anima l’ultimo atto di Blade Runner, diventando al tempo stesso antagonista e martire in mezzo a un’interminabile sequenza di simboli religiosi, come la pioggia incessante, il chiodo che attraversa una sua mano e una colomba che si alza lentamente in cielo, proprio nel momento della sua morte.

Blade Runner: 40 anni di lacrime nella pioggia

Blade Runner

Dopo 40 anni, è ancora un’esperienza straordinaria quella di perdersi fra le inquietanti architetture di Blade Runner, seguire le suggestioni e i tanti binari morti della sua trama e vivere questo mondo di paradossi e chiaroscuri, dove il buio e la pioggia sono paradossalmente le uniche cose vere, mentre la luce è quasi sempre artificiale. Il disorientamento esistenziale messo in scena da Scott trova la propria espressione massima nelle commoventi parole dello stesso Roy Batty, che utilizza gli ultimi attimi a lui concessi dal suo creatore per pronunciare, accompagnato dalle straordinarie note di Vangelis, queste immortali parole: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire».

Uno dei più disperati inni all’attaccamento al concetto stesso di esistenza mai visti sul grande schermo, e al tempo stesso l’ennesima apologia della memoria. E se oggi siamo ancora qui a piangere nella pioggia per i ricordi fasulli di un’intelligenza artificiale, protagonista di un racconto che esiste solo sui nostri schermi, forse non siamo così diversi dai replicanti, in quanto perennemente all’inseguimento di immagini e ricordi e instancabilmente aggrappati alla vita e alle emozioni, non importa se reali o fittizie. Il lascito più attuale e persistente di un’opera che riesce a essere al tempo stesso precorritrice fantascienza, torbido noir, irrealizzabile storia d’amore e toccante riflessione sulla condizione umana, da sempre legata al duello come il cinema di Ridley Scott.

“È tempo di morire”

Blade Runner

Io non so perché mi salvò la vita. Forse in quegli ultimi momenti amava la vita più di quanto l’avesse mai amata. Non solo la sua vita: la vita di chiunque, la mia vita. Tutto ciò che volevano erano le stesse risposte che noi tutti vogliamo: “Da dove vengo?” “Dove vado?” “Quanto mi resta ancora?” Non ho potuto far altro che restare lì e guardarlo morire.

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Marco Paiano

Tutto quello che ho imparato nella vita l'ho imparato da Star Wars, Monkey Island e Il grande Lebowski. Lo metto in pratica su Tech Princess.

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