«Il mio futuro è adesso», dice il cinico e disilluso Snake Plissken, sintetizzando con questa battuta le emozioni degli spettatori di oggi di fronte allo straordinario e incredibilmente sottovalutato Fuga da Los Angeles di John Carpenter. A 15 anni di distanza da 1997: Fuga da New York, a cui abbiamo dedicato il precedente capitolo della nostra rubrica cinematografica Il filo nascosto, il maestro firma il primo sequel della sua prodigiosa carriera, declinando a suo modo la tendenza da parte dell’industria cinematografica a ripetere continuamente se stessa, spremendo fino all’inverosimile ogni franchise di successo. Un’opera inquietante, corrosiva e largamente in anticipo sui tempi, che come purtroppo accade a molti progetti di questo tipo incontrò una forte resistenza al momento dell’uscita, scontentando critica e pubblico e trasformandosi di fatto un insuccesso commerciale, con soli 25 milioni di dollari di incasso a fronte di un imponente budget di 50 milioni.
Troppo acida e disturbante la visione del futuro di Carpenter per un pubblico già assuefatto da racconti edificanti e atmosfere rassicuranti. Troppo provocatorie per gli addetti ai lavori le scelte tecniche e scenografiche del regista, che sotto l’influenza dello stesso mondo dei videogame che ha più volte ispirato si cimenta in diverse sequenze dalla CGI volutamente pacchiana e cartoonesca, anticipando il successivo abuso di green screen da parte dell’industria dell’intrattenimento e creando un emblematico cortocircuito con le svariate deformazioni dell’immagine presenti in Fuga da Los Angeles. Costantemente in bilico fra sequel, remake e auto-parodia, Fuga da Los Angeles è però soprattutto un film al 100% di John Carpenter, in cui l’autore riversa temi e atmosfere costantemente presenti nel suo cinema, come il nichilismo, la tendenza all’autodistruzione del genere umano e la regressione culturale e morale della società.
Fuga da Los Angeles: il sequel secondo John Carpenter
Kurt Russell (coinvolto anche come sceneggiatore e produttore) presta nuovamente corpo e volto all’iconico Snake Plissken, che ritroviamo nella Los Angeles del 2013, ben diversa da quella che conosciamo. A seguito di un disastroso terremoto, la metropoli si è infatti staccata dal resto della terraferma, ed è diventata una sorta di isola dei dannati: un posto senza leggi e senza regole dove deportare tutti i soggetti non conformi alle linee guide della nuova America. Gli stessi Stati Uniti hanno subito un’involuzione preoccupante. La fondamentale carica di Presidente degli Stati Uniti è infatti ad appannaggio di un pericoloso e autoritario conservatore, che ha spostato la capitale da Washington a Lynchburg in Virginia (la sua città natale) e ha legiferato in modo da mantenere la carica a vita, insieme al ruolo di comandante supremo permanente.
In un territorio governato da severe e stringenti regole morali, a Snake viene nuovamente concessa un’opportunità per cancellare le sue malefatte e per salvarsi dalla prigionia. L’ex eroe di guerra è chiamato a mettersi sulle tracce della figlia del Presidente, fuggita insieme al leader rivoluzionario Cuervo Jones proprio a Los Angeles, separata dal resto del continente da una grande muraglia. La giovane porta inoltre con sé un potentissimo telecomando, capace di rendere inutilizzabile tutta la tecnologia del pianeta. Diffidente sulla missione e sui soggetti coinvolti, Snake viene forzato ad accettare: nel suo sangue è stato infatti iniettato un virus letale, il cui antidoto sarà attivato solo al momento della restituzione del telecomando e della figlia del Presidente.
Snake si dirige quindi sull’isola di Los Angeles, dove trova l’aiuto di soggetti bizzarri come “Mappa delle stelle” Eddie (Steve Buscemi) e la musulmana Taslima (Valeria Golino).
Fuga da Los Angeles e i sinistri collegamenti con il nostro presente
Fuga da Los Angeles prosegue il cammino iniziato con 1997: Fuga da New York, presentandoci nuovamente un antieroe scontroso e solitario, agente estraneo nella dura lotta fra contendenti diversi, che simbolicamente rappresentano vizi e storture della società. Il quadro tratteggiato è raggelante. John Carpenter ne ha per tutti: in ordine sparso, troviamo un Presidente americano col culto della propria personalità e mosso da anacronistiche e persecutorie linee guida morali (una visione oltremodo premonitoria), un sedicente rivoluzionario a metà fra Che Guevara e un membro di una gang criminale, più interessato ai propri affari che al sovvertimento dello status quo, un’esiliata musulmana («Improvvisamente è diventato un crimine», dice lei) e lo spettro di un possibile catastrofico conflitto mondiale.
Una visione già sufficientemente funerea e futuribile, ulteriormente arricchita dalla collocazione spaziale in una Los Angeles fatiscente, ben lontana dalla terra dei sogni scelta dall’industria dell’intrattenimento come propria base.
L’insegna di Hollywood bruciata, gli Studios sommersi, Beverly Hills trasformata in un territorio buio ed estremamente pericoloso, Disneyland (negata a Carpenter per le riprese) ridotta a un cumulo di macerie. Chirurghi plastici (fra di loro il sempre irresistibile Bruce Campbell) in cerca di organi umani e diventati fari di una società marcia e corrotta, dove un bell’aspetto posticcio è l’unica via per l’accettazione sociale. Un mondo distorto, la cui natura è ben sintetizzata dal comandante Malloy di Stacy Keach: «Gli Stati Uniti sono una nazione di non fumatori. Non si fuma, non si beve, niente droga, niente donne, tranne per chi ha moglie ovviamente, niente armi, niente parole oscene e niente di immorale». Secca e lungimirante la risposta di Snake: «Un Paese libero».
Il testamento artistico di John Carpenter
La feroce satira sociale e anti-hollywoodiana coinvolge anche i personaggi secondari, come l’arrivista “Mappa delle stelle” e il surfista interpretato da Peter Fonda, calzante e ficcante collegamento con Easy Rider – Libertà e paura, emblema della mancata rivoluzione sociale e culturale del Sessantotto. John Carpenter ricalca il canovaccio del precedente capitolo, arricchendolo con momenti ancora più bizzarri come la sfida di Snake coi tiri a canestro, l’atterraggio in deltaplano del protagonista e l’esilarante scena del surf sulle onde, presa da molti come esempio del fallimento tecnico di Fuga da Los Angeles (nonché del supposto “salto dello squalo” del regista) ma in realtà perfettamente coerente con l’atmosfera artificiosa e parodistica da lui voluta. Da rimarcare inoltre la coraggiosa scelta del cineasta, che un anno prima di Jackie Brown riporta in scena Pam Grier per il ruolo della persona transgender Hershe Las Palmas, molto importante nell’atto conclusivo di Fuga da Los Angeles.
Anche se con il precedente Il seme della follia John Carpenter ha chiuso la sua Trilogia dell’Apocalisse e idealmente anche il cerchio della sua riflessione sulla società attraverso l’orrore, è con Fuga da Los Angeles che il cineasta scioglie ancora di più le briglie, portando a livelli estremi se non paradossali il suo sguardo pessimista sul mondo e sul futuro. Non c’è infatti bisogno di spingersi troppo oltre con la fantasia per decifrare i messaggi lasciati dal regista, come la sfiducia nella tecnologia e in particolare nel cyber-spazio, visto dalla figlia del Presidente Utopia (nomen omen) come un’illusoria possibilità di riscatto; un puritanesimo di ritorno capace di appiattire e radicalizzare la società invece di spingerla in direzione di un’esistenza più pacifica e serena; l’impoverimento dello stesso cinema, sempre più animato da logiche commerciali e spettacolari e sempre più lontano dal suo ruolo di grillo parlante culturale e sociale.
Il western e Fuga da Los Angeles
A dare continuità con 1997: Fuga da New York è soprattutto lo scenario fosco e notturno di una metropoli desolata, insieme all’irresistibile tentazione che attraversa tutto il cinema di John Carpenter, cioè la contaminazione fra western e altri generi esplorati dal maestro. In una celebre intervista in cui difende a spada tratta Fuga da Los Angeles, definendolo addirittura 10 volte meglio del predecessore, lo stesso regista paragona i due film alle pietre miliari del genere Un dollaro d’onore ed El Dorado di Howard Hawks, fondamentali fonti di ispirazione per il percorso di Snake Plissken (nuovamente Jena nell’adattamento italiano). Il western è richiamato non solo dalla figura solitaria di Snake e dalle numerose sparatorie, ma anche dal commento sonoro, ancora una volta opera di John Carpenter e di Shirley Walker.
A fare da contraltare ai temi più suggestivi e alle tipiche sonorità ipnotiche di Carpenter sono alcuni pezzi apertamente metal, che definiscono il viaggio di uno Snake ancora più duro e letale. Encomiabile in questo senso il lavoro di Kurt Russell, capace non solo di indossare gli stessi costumi di 15 anni prima con disinvoltura e naturalezza, ma anche di donare nuovamente al suo personaggio la sua caratteristica aura da lupo solitario, messa continuamente alla prova da incontri stravaganti e da numerosi duelli fisici e verbali. Mai come in questo caso, Kurt Russell incarna il Rambo di John Carpenter, inaridito dalla vita e dal mondo circostante e deciso a rispondere con rabbia e sprezzo del pericolo a ogni sollecitazione esterna. Ma non ci può essere Carpenter senza la politica, e l’epilogo di Fuga da Los Angeles conferma questa regola.
Il finale di Fuga da Los Angeles
Al termine della sua missione e sopravvissuto a un virus rivelatosi inesistente (idea per il finale del primo capitolo riciclata per il sequel), Snake si trova nuovamente a confrontarsi con le sorti del pianeta. In questo caso però la sua importanza è ancora maggiore, dal momento che la sua scelta sull’utilizzo del telecomando è in grado di generare conseguenze catastrofiche per una fetta più o meno ampia dell’umanità.
«Più le cose cambiano, più restano le stesse», dice Snake, quasi parafrasando il celeberrimo «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» de Il Gattopardo. All’incarnazione del lato più cupo e pessimista di Carpenter non resta quindi che la scelta più apocalittica: spegnere il mondo e resettarlo, nella speranza che stavolta l’umanità prenda una strada migliore. Ed è proprio lo sguardo beffardo di questo killer travestito da eroe, intento a fumare una sigaretta targata American Spirit (altro nome emblematico) a chiudere Fuga da Los Angeles. «Benvenuti nel regno della razza umana», dice. L’ultimo gesto anarchico e sovversivo di un personaggio e di un regista unici e inimitabili, capaci di prevedere gli errori del genere umano e di essere anche a decenni di distanza dei fari in un mondo sempre più simile alla distopia immaginata da Carpenter.
Il filo nascosto nasce con l’intento di ripercorrere la storia del cinema nel modo più libero e semplice possibile. Ogni settimana un film diverso di qualsiasi genere, epoca e nazionalità, collegato al precedente da un dettaglio. Tematiche, anno di distribuzione, regista, protagonista, ambientazione: l’unico limite è la fantasia, il faro che ci guida è l’amore per il cinema. I film si parlano, noi ascoltiamo i loro dialoghi.
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