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L’intelligenza artificiale può prevedere l’Alzheimer con 7 anni di anticipo

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Il recentissimo boom dell’intelligenza artificiale, specie nella declinazione dell’IA generativa, ci lascia ammirati e allo stesso tempo ci spaventa.

Ci si domanda fin dove potranno spingersi i software che producono testi e immagini, e ci si interroga sui rischi di queste nuove tecnologie. Al punto che l’Europa si sta dotando del primo regolamento al mondo pensato proprio per normare l’intelligenza artificiale: si tratta dell’AI Act, che nella giornata di mercoledì 13 marzo ha ricevuto il via libera dal Parlamento europeo.

Timori (spesso ragionevoli) sul rischio di un uso perverso o antidemocratico dell’IA, ci fanno perdere di vista i suoi numerosi utilizzi virtuosi, ad esempio in campo medico.

Ce lo ricorda uno studio di un team di ricercatori americani, secondo cui l’intelligenza artificiale è in grado di prevedere l’Alzheimer con un anticipo sino a 7 anni.

L’intelligenza artificiale e l’Alzheimer

Lo studio che rivela come, utilizzando l’intelligenza artificiale, è possibile prevedere l’Alzheimer con largo anticipo, è stato condotto da un team congiunto dell’Università della California di San Francisco (UCSF) e dell’Università di Stanford. È stato pubblicato lo scorso 21 febbraio sulla rivista Nature Aging.

Si tratta di una ricerca basata su un campione assai vasto. I ricercatori hanno applicato un metodo di apprendimento automatico a più di 5 milioni di cartelle cliniche. L’obiettivo era quello di far riconoscere all’IA un nesso tra l’Alzheimer e altre condizioni di salute.

Come spiega l’articolo pubblicato su ScienceAlert il 14 marzo, nonostante qualche margine di errore, “l’intelligenza artificiale è stata in grado di prevedere con precisione la malattia nel 72% dei casi, anticipandola anche di sette anni in alcuni pazienti.”

Il metodo

È stata sfruttata la capacità predittiva dell’IA, che combinando analisi di diversi tipi di rischio è riuscita a calcolare la probabilità di sviluppare l’Alzheimer.

Alcune condizioni possono incidere notevolmente sul rischio di sviluppare l’Alzheimer: tra queste, la pressione sanguigna alta, il colesterolo alto, la carenza di vitamina D e la depressione.

La disfunzione erettile e l’ingrossamento della prostata sono risultati fattori significativi negli uomini, così come l’osteoporosi è risultata significativa per le donne.

Il team di ricerca ha anche indagato la biologia alla base di alcuni dei collegamenti identificati. Scoprendo un legame tra osteoporosi, Alzheimer nelle donne e una variante del gene MS4A6A.

Le dichiarazioni

L’ingegnere biomedico Alice Tang, dell’Università della California di San Francisco, ha detto: “Questo è un primo passo verso l’utilizzo dell’IA sui dati clinici di routine, non solo per identificare il rischio il prima possibile, ma anche per comprendere la biologia che lo sottende.”

E Marina Sirota, scienziata computazionale della salute nella stessa Università: “Questo è un ottimo esempio di come possiamo sfruttare i dati dei pazienti con l’apprendimento automatico per prevedere quali pazienti hanno maggiori probabilità di sviluppare l’Alzheimer e comprendere anche le ragioni alla base di ciò.”

Lo studio dell’Università di Bari

La coincidenza è davvero curiosa. Nello stesso giorno in cui ScienceAlert ha pubblicato lo studio delle due università americane, l’Università di Bari (UniBa) ha pubblicato sul proprio sito l’esito di uno studio analogo, comparso in prima battuta su Scientific Reports lo scorso 4 marzo.

Leggiamo che alcuni ricercatori di UniBa hanno un creato un modello di Intelligenza Artificiale multimodale a supporto della diagnosi del morbo di Alzheimer che utilizza due tecniche di neuroimaging, la risonanza magnetica (MRI) e la tomografia a emissione di positroni (PET) dell’amiloide.

“Ricerche precedenti si sono concentrate su approcci unimodali, che utilizzano cioè una sola tecnica di imaging per la diagnosi. Le tecniche multimodali, invece, sono ancora poco esplorate, con pochi studi volti a massimizzare le prestazioni dei modelli di IA utilizzando una combinazione di più tipologie di imaging.”

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Elevate percentuali di accuratezza

Il metodo utilizzato dal gruppo di ricercatori dell’Università di Bari guidato dalla professoressa Giovanna Castellano ha utilizzato MRI e PET sia 2D che 3D, in modalità unimodale e multimodale.

Quando il team ha utilizzato le due tecniche di neuroimaging simultaneamente in 3D, l’accuratezza nell’identificare la malattia è arrivata al 95%.

Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API

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