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Recensione Mega Man 11 – Storia di un umanoide in lotta continua

Cominciava nel 1987 una lunga battagli tra numerosi robot e un umanoide dai superpoteri, in costante attrito con il nemico numero uno, Dr Wily. Questi non è altri che l’artefice di tutte le malefatte e i soprusi che un essere dalla fisionomia adolescenziale deve affrontare, passando da un episodio all’altro, da una console all’altra, fino a fare il suo ingresso nel nuovo millennio. Arriviamo al 2018 con una storia dal contenuto di nuovo non troppo profondo o complesso, fino ad arrivare a Mega Man 11, l’ultimo episodio lanciato da Capcom in uscita il 2 Ottobre su PlayStation 4, Xbox One, Steam e Nintendo Switch.

Annunciato proprio lo scorso anno in occasione del trentesimo anniversario del franchise, ancora una volta vediamo scendere in campo i personaggi che conosciamo da tempo, in una scenetta iniziale il cui stile strizza l’occhio alla produzione anime e manga, sia per grafica che per sceneggiatura, introducendoci in medias res senza troppi giri di parole, dunque senza nemmeno un vero e proprio antefatto solido da cui partire per contestualizzare la vicenda. Sin dalle prime scene, vediamo comparire sullo schermo i personaggi arcinoti del Dr Light ancora alle prese con il Double Gear System dell’antagonista, sempre più potente e spietato. Così lo scienziato e i suoi assistenti rimettono tutto nelle mani del nostro eroe di blu mascherato, Mega Man, affinché possa fermare i progetti del perfido assistente, distruggendo robot e nemici senza sosta.

Di robot e di meccaniche

Ma come si sviluppa la storia? Snodandosi tra otto livelli a scelta libera, senza dover seguire uno schema prestabilito, il titolo ci pone di fronte a diversi scenari, non con differenze sostanziali tra loro. Ognuno di questi ci apre un percorso tipicamente platform, in 2.5D, dove le mosse che dovremo compiere ricalcano la traccia lasciata da qualsiasi gioco appartenente a questo genere: saltare, sparare a nemici, macchine robotiche e ostacoli per arrivare (più o meno) integri a fine livello, dove ci attende il Robot Master del caso. Potremo raccogliere potenziamenti e aumentare le nostre abilità per diventare sempre più macchine, sempre meno umani.

Proprio l’incremento di abilità ci permette di vivere in modo coinvolgente il gameplay in toto, un entusiasmo però frenato dall‘effettiva problematicità delle meccaniche di gioco, che ci pongono di fronte a una risposta non pronta e immediata dei comandi. Non solo vedremo dei movimenti talvolta lenti, poco naturali e non sempre fluidi, ma anche un’eredità del passato videoludico nella transizione da un frame all’altro: il blocco del movimento dei personaggi. Se da una parte ci risulta comodo, affinché l’azione non continui mentre non abbiamo ancora una piena visuale di quanto accade nella sequenza successiva, dall’altra l’effetto di straniamento rispetto ai titoli contemporanei potrebbe sfociare in un tocco che solo i giocatori d’antan possono riconoscere e, probabilmente, apprezzare un po’ di più.

Inoltre le azioni sono a scatti, poco plastiche, cosicché il personaggio rimanga immobilizzato in scivolata, qualora dovesse incontrare un ostacolo, incastrandovisi facilmente.  Non è agile, non si muove con facilità, faticando anche a schivare i nemici. Un’impostazione tecnica a nostro vantaggio sta nella totale personalizzazione dei comandi dal menu principale, anche se noteremo la pecca di non poter assegnare ogni tasto del controller a un’azione, essendo queste numericamente maggiori.

Il gameplay dunque non si mostra particolarmente stupefacente, trascinando con sé parecchi relitti narrativi del passato, ormai diventati una sorta di zavorra che manda a fondo facilmente la giocabilità di un titolo non più considerabile al passo con i tempi. Risulta quindi legnoso nei comandi e nei movimenti e anacronistico nella resa grafica, non tanto per una scelta volontaria di stile e narrazione dal sapore amarcord, ma per il mantenimento di una coerenza con i titoli precedenti che difficilmente trova ancora ampia corrispondenza da parte del grande pubblico. Un attrito amplificato dalla longevità piuttosto breve del titolo e dalla difficoltà nient’affatto complessa, nonostante i quattro distinti livelli .

Pane, bit e (poca) fantasia

Ci possiamo rifare gli occhi almeno da un punto di vista grafico? Più o meno: se la fase tutorial presenta un’interfaccia in stile particolarmente retrò, il resto della storia sfila di fronte ai nostri occhi tra forme ben disegnate, seppure semplici e poco dettagliate, oltre a una creatività che lascia un po’ a desiderare per via di robot, nemici e ostacoli abbastanza simili tra loro da un livello all’altro. Infine notiamo colori fluo molto vivaci i cui natali si ritrovano chiaramente nello stesso portato culturale del Sol Levante che ha dato origine alla storia. Il chiaro gusto semplice, senza pretese e dal deciso calco d’altri tempi viene ribadito anche nella colonna sonora, dalla sinfonia a 16 bit o quasi, senza particolari variazioni sul tema e senza effetti particolari, rimanendo piuttosto sottotono e senza regalarci pezzi dall’insperata memorabilità.

In definitiva, Mega Man 11 si mostra come una ripetizione di quanto già visto in passato, non solo raffrontando questo titolo con la serie a cui appartiene, ma anche con il genere di riferimento. Abbiamo di fronte una manciata di personaggi senza personalità particolarmente tratteggiata, ponendoli come semplici pedine sulla scacchiera di gioco in modo da giustificare il motore propulsore di questa storia. Il fil rouge narrativo è praticamente assente, non abbiamo particolari obiettivi che facciano nascere in noi la brama di raggiungere l’obiettivo finale con tutte le nostre forze.

Abbiamo quindi di fronte a noi un titolo un po’ acerbo, senza lasciare il segno nell’esperienza di un giocatore che cerca qualcosina di poco più elevato di un semplice titolo action senza capo né coda, probabilmente apprezzabile da chi ha conosciuto i primissimi titoli di un franchise rimasto attaccato alla gonna di mamma Capcom che non ha avuto il coraggio di farlo crescere e fortificarsi, lasciandolo a uno stadio del tutto ingenuo e piuttosto inconsistente.

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