fbpx
AttualitàCultura

Sempre più brand lasciano la Russia: è vero impegno o social washing?

I marchi coinvolti e i dubbi di parte dell’opinione pubblica

Già dalle ore subito successive all’alba del 24 febbraio scorso, quando l’esercito russo ha invaso l’Ucraina, è scattata (quasi) unanime la condanna a Mosca.

E, assieme alla condanna, sono arrivate le sanzioni. Quelle di Unione Europea, Stati Uniti e altri Paesi. Ma anche quelle di un numero sempre crescente di aziende, a partire da alcuni colossi del settore tech, allo scopo di isolare Putin dal punto di vista economico e culturale.

L’azione, che all’apparenza non può che essere vista come meritoria, ha come altra faccia della medaglia la solidarietà alla popolazione ucraina. A quella in fuga o a quella rimasta nei territori sotto assedio.

E così, oggi, sembra davvero che tutto l’Occidente produttivo abbia voltato le spalle a Mosca: l’industria dei chip, i social media, i produttori di videogiochi, universo del cinema, della musica…

L’emotività e la semplificazione

Stiamo conoscendo la guerra tra Russia e Ucraina anche se non soprattutto attraverso i social. E questa si sta annunciando come una novità rivoluzionaria nell’ambito della comunicazione. Ma nuovo è anche il modo in cui assorbiamo le notizie: immagini, video e micronarrazioni si insinuano nella nostra emotività, spesso restando a un livello prerazionale.

Una delle conseguenze è quella di ignorare la complessità dei fenomeni, e fermarsi a una conoscenza superficiale, quasi da tifosi.

Il risultato? Nella fattispecie, il rischio di una chiusura a priori verso tutto ciò che proviene dalla Russia. Come se ci fosse una coincidenza tra le idee di Putin e quelle di tutti gli abitanti del suo Paese.

Questo atteggiamento ha portato ad alcuni errori grossolani e a scelte più che opinabili. Ricordiamo l’ormai arcinota sospensione del corso su Dostoevskij voluta dalla Bicocca di Milano.

ucraina

La sincerità dei gesti

Allo stesso modo, ogni cittadino (italiano o meno) che legga di quella o quell’altra multinazionale che ha bloccato l’esportazione di prodotti e servizi a Mosca, plaude all’iniziativa. E si sente confortato, e percepisce come più sensata – magari – la propria donazione di qualche euro alla popolazione ucraina.

Tuttavia, non per il gusto della dietrologia ma per quello di un approccio meno emotivo alla questione, una parte della stampa e dell’opinione pubblica sta insinuando qualche dubbio sulla coerenza dell’atteggiamento di alcune aziende. Introducendo il concetto di social washing. Scopriamo di cosa si tratta.

Il social washing

Con social washing si intende ciò che la locuzione inglese sintetizza già con grande efficacia.

E cioè una strategia aziendale che prevede di dar luogo a una serie di iniziative di responsabilità sociale, spesso solo di facciata, allo scopo di migliorare la propria immagine. In modo simile si adopera il termine greenwashing, per indicare l’interesse non proprio genuino verso le tematiche ambientali, sempre con l’obiettivo di mostrare un’immagine immacolata di sé.

Il social washing e la guerra in Ucraina

Un collegamento tra il social washing e la guerra in Ucraina viene ad esempio istituito da Factanza. Nata come pagina Instagram di informazione indipendente (che attualmente può contare quasi su 400.000 follower), Factanza oggi ha anche un sito articolato seguitissimo dai giovani. I motivi? Intanto perché sono giovani anche le fondatrici, Bianca Arrighini e Livia Viganò, due ventiquattrenni italiane laureate in Economia aziendale e management all’Università Bocconi. E poi perché Factanza ha capito, proprio come i giovani ucraini che stanno mostrando la guerra al mondo, il potere dei social, che sanno informare in modo più diretto e dirompente rispetto ai canali tradizionali.

Ecco che proprio la pagina Instagram di Factanza insinua il dubbio: ciò che stanno facendo molte aziende in Russia è un vero gesto di censura economica e morale, o è social washing?

La questione dei diritti umani

Factanza si pone, e ci pone, una domanda. Le aziende che hanno sospeso le vendite in Russia, per protesta contro la violazione dei diritti umani da parte di Putin, non è che per caso hanno a loro volta violato gli stessi diritti che oggi mostrano di difendere agli occhi del mondo intero?

Scrive la redazione di Factanza: “Inditex, che include brand tra cui Zara, Bershka, Stradivarius e Oysho, sta sospendendo le vendite in tutti gli store in Russia, che sono più di 500. […] Il problema di alcuni brand, in particolare le catene di fast fashion, è il fatto che la loro produzione sia impregnata di diritti umani violati. Ma mostrano ai consumatori di impegnarsi comunque nella causa che sta loro a cuore. Il brand quindi, riconosce l’importanza dei diritti umani per l’immagine che deve rappresentare nei confronti dei potenziali clienti, mettendo in secondo piano le azioni alla base del proprio profitto.

Mostrare interesse per i diritti umani ora che il riflettore mondiale è puntato su questa crisi rappresenta una grande ingiustizia per coloro che affrontano discriminazioni, rischi e mancate tutele ogni giorno da parte delle aziende. Le condizioni misere dei lavoratori sono state osservate più volte nel corso degli anni, insieme agli altri danni causati da questo settore. Mostrarsi interessati per i diritti ha senso nel momento in cui la politica dell’azienda è coerente: le persone vanno tutelate a prescindere dal luogo in cui si trovano.”

Le sanzioni

Ci sono poi colossi del tech, da Amazon a Google, da Facebook ad Apple, che stanno sanzionando la Russia limitando o sospendendo l’invio di prodotti e l’accesso ai servizi.

Ma sono le stesse aziende che, come abbiamo testimoniato in svariati articoli, sono più volte state multate dalle autorità nazionali e internazionali per violazione dei dati sulla privacy, e altri motivi ancora più gravi.

Lo scandalo dei Facebook Papers, ad esempio, ha scoperchiato non solo strategie di manipolazione degli utenti più giovani. Ma anche l’appoggio a regimi autoritari, tacitando le proteste dei dissidenti. E proprio il social del gruppo Meta, oggi, è tra i capofila della protesta tech contro il regime autoritario di Vladimir Putin.

L’incoerenza fa quanto meno meditare.

Da non perdere questa settimana su Techprincess

✒️ La nostra imperdibile newsletter Caffellattech! Iscriviti qui 
 
🎧 Ma lo sai che anche Fjona ha la sua newsletter?! Iscriviti a SuggeriPODCAST!
 
📺 Trovi Fjona anche su RAI Play con Touch - Impronta digitale!
 
💌 Risolviamo i tuoi problemi di cuore con B1NARY
 
🎧 Ascolta il nostro imperdibile podcast Le vie del Tech
 
💸E trovi un po' di offerte interessanti su Telegram!

Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

Ti potrebbero interessare anche:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button