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Monkey Island 2 compie 30 anni ed è ancora la migliore avventura grafica di sempre

Monkey Island 2 è arrivato nei negozi di videogiochi di tutto il mondo nel dicembre del 1991.

Mentre siamo letteralmente circondati da giochi Tripla A sempre più realistici e complessi, con la realtà aumentata e le tante applicazioni del metaverso che si fanno progressivamente strada nelle nostre vite, è impressionante tornare con la mente a quella che oggi può sembrare l’età della pietra dell’arte videoludica, quando al centro delle nostre avventure c’erano personaggi e scenari tratteggiati attraverso veri e propri capolavori di pixel art. Opere di ingegno e di fantasia che sfidavano continuamente il concetto di sospensione dell’incredulità, con corpi e fondali formati da pixel visibili ad occhio nudo ma sufficienti per immergerci con il cuore e con la fantasia in altri suggestivi e fantastici mondi. La nostra macchina del tempo oggi si ferma esattamente a 30 anni fa, quando negli scaffali dei negozi di videogame di tutto il mondo è arrivato Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge: tuttora la migliore avventura grafica di sempre.

Prima di concentrarci sull’analisi di questa pietra miliare dei videogame e della narrazione e sulle avventure dell’iconico Guybrush Threepwood, è opportuno fare un passo indietro per delineare il contesto in cui il geniale Ron Gilbert ha dato vita alla serie di Monkey Island. Fino agli anni ’80 inoltrati, le avventure grafiche erano fondamentalmente testuali (un esempio su tutti è la serie di Zork): le interazioni dei protagonisti delle storie con il paesaggio circostante e con i personaggi non giocanti erano garantite da una serie di verbi (solitamente all’imperativo) digitati dal giocatore attraverso una semplice interfaccia a riga di comando. Una limitazione tecnica neanche immaginabile per la mentalità con cui ci si approccia oggi ai videogame, che tuttavia non impediva ai pionieri delle avventure grafiche di cimentarsi in veri e propri inni all’immaginazione, che ancora oggi fanno parte dell’immaginario geek.

Il boom della Lucas Arts

Monkey Island 2

Proprio come era successo con Star Wars per il cinema commerciale, a cambiare tutto è di nuovo George Lucas attraverso la sua Lucasfilm Games, diventata poi LucasArts. Sfruttando il successo del film Labyrinth – Dove tutto è possibile, questa neonata ma ambiziosa casa di produzione videoludica consegna ai videogiocatori di tutto il mondo Labyrinth, avventura grafica per Apple II e Commodore 64 che costituisce un ideale ponte fra cinema e videogame e fra avventure testuali e tutto ciò che verrà dopo. A fare la differenza è un piccolo ma sostanziale dettaglio: nella seconda parte del gioco viene introdotto un sistema grazie a cui è possibile selezionare le azioni possibili attraverso la tastiera (il mouse non era ancora disponibile su tutti i computer) e fare così avanzare il racconto.

Tutto cambia l’anno successivo, quando viene distribuito Maniac Mansion, prima creatura del papà di Monkey Island Ron Gilbert, che introduce nel settore una fondamentale novità: il motore grafico SCUMM, che permette ai giocatori di fare “punta e clicca” (frase diventata poi l’emblema di un intero filone di giochi), cioè selezionare azioni, oggetti e personaggi con un’apposita griglia cliccabile col mouse. Questa innovazione permette ai giochi di progredire e di dare vita a enigmi più complessi e fantasiosi, che sono accompagnati da un’altra caratteristica rarissima per i giochi dell’epoca, cioè l’ironia.

Comincia un’epoca d’oro delle avventure grafiche: nel giro di pochi anni, arrivano Zak McKracken and the Alien Mindbenders, Loom, Sam & Max Hit the Road, Indiana Jones e l’ultima crociata, Indiana Jones e il destino di Atlantide, Day of the Tentacle e ovviamente i primi due insuperabili capitoli di Monkey Island. Opere che non si limitano a intrattenere, ma instaurano col giocatore un rapporto diretto, con continui sfondamenti della quarta parete, situazioni fra il paradossale e il grottesco e dialoghi esilaranti.

The Secret of Monkey Island e Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge

Monkey Island 2

«Mi chiamo Guybrush Threepwood e voglio diventare un pirata». In The Secret of Monkey Island, del 1990, si presenta così al pubblico uno dei personaggi più memorabili della storia del videogame. Un vero e proprio antieroe, che già il suo nome dipinge come una persona qualunque, priva di particolari qualità. Guybrush infatti non è altro che la fusione del vocabolo inglese Guy (ragazzo) con l’estensione dei file generati dall’editor grafico Deluxe Paint (.brush). Un tizio qualsiasi che, nell’età dell’oro della pirateria, si reca sulla fittizia isola di Mêlée Island, nei Caraibi, per realizzare il suo strampalato sogno: diventare un temibile pirata.

Con l’aiuto di Tim Schafer e Dave Grossman, Ron Gilbert fonde la sua passione per l’attrazione di Disneyland Pirates of the Caribbean (che è anche la base dell’omonima serie cinematografica) con la grande tradizione dei racconti pirateschi, miscelandoli all’interno di un cocktail fatto di oggetti stravaganti (il celebre pollo di gomma con la carrucola in mezzo), esplicite parodie del filone (i duelli a insulti), tradizione vudù (ben rappresentata dalla misteriosa Voodoo Lady) e un dissacrante umorismo, che si prende continuamente gioco dello spettatore e dello stesso protagonista, irresistibile cocktail di inettitudine, superficialità e furbizia.

Accanto a lui, l’immancabile villain (il pirata fantasma LeChuck) e l’evoluzione della classica principessa da salvare, cioè la governatrice Elaine Marley, più simile all’irruenza e alla spavalderia di Leia Organa che alla Peach di Super Mario. Il risultato è un clamoroso successo di pubblico e critica, che porta a sviluppare nel giro di un solo anno il sequel Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge, straordinario canto del cigno di un intero team creativo, che Ron Gilbert lascia subito dopo per concentrarsi su progetti più personali, lasciando un vuoto incolmabile.

Monkey Island 2 e L’impero colpisce ancora

Monkey Island 2

Non è un atto di lesa maestà definire Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge come l’Impero colpisce ancora delle avventure di Guybrush Threepwood. Un’operazione editorialmente sopraffina, che conserva lo spirito del capitolo precedente approfondendo le tematiche, l’universo e i personaggi che ruotano intorno al protagonista. Il paragone con il secondo capitolo della saga di Star Wars non è solamente una naturale associazione fra i sequel di due franchise appartenenti alla stessa persona. Forte del successo del predecessore, Ron Gilbert e il suo team osano sotto molti punti di vista, mettendo in scena un racconto più complesso dal punto di vista narrativo (si veda l’apertura in medias res che dà il via a un flashback e il finale aperto, su cui torneremo), con tinte più cupe e macabre e maggiormente incentrato sulle dinamiche familiari, che deflagrano nell’ultima parte.

Dopo l’incipit che ci mostra Guybrush intento a raccontare gli eventi degli ultimi giorni alla ritrovata Elaine, seguito da un classico ritrovo davanti al fuoco in cui il protagonista si bea delle sue gesta, ritroviamo il nostro antieroe a Scabb Island, descritta come «una cooperativa anarchica di pirati, tagliagole e altri criminali; un riparo per mascalzoni e ribelli». Le ricchezze da lui accumulate dopo la sua epica vittoria nei confronti di LeChuck durano però poco, dal momento che Guybrush trova sulla sua strada il temibile Largo LaGrande, braccio destro del celeberrimo pirata fantasma che ha imposto su tutta l’isola un embargo che impedisce a chiunque di spostarsi al di fuori di essa.

Con l’intera popolazione soggiogata da questo personaggio, la soluzione al problema è ancora nel vudù: con il prezioso supporto della conservatissima Voodoo Lady, Guybrush comincia a reperire gli ingredienti per una bambola vudù con cui sconfiggere il terrore di Scabb Island.

Un mondo in continua evoluzione

Se gli enigmi del primo capitolo della serie apparivano insuperabili dal punto di vista della fantasia, quelli di Monkey Island 2 riescono addirittura a spostare un po’ più in là l’asticella della difficoltà. Accompagnati dalle strepitose musiche del confermatissimo Michael Z. Land, girovaghiamo fra paludi e cimiteri, fra monocoli da sottrarre ai legittimi proprietari e discussioni assurde con un falegname (Quanto legno potrebbe rodere un roditore se un roditore potesse rodere il legno?). Il momento dell’agognata sconfitta di Largo coincide però con una vera e propria ripartenza del racconto, dal momento che, in maniera analoga a L’Impero colpisce ancora, colui che credevamo fosse il principale villain si rivela invece il secondo nella linea di comando, a cui serviamo involontariamente sul piatto d’argento un ingrediente per resuscitare l’antagonista principale, cioè il redivivo LeChuck.

Monkey Island 2 rilancia: due nuove isole da esplorare (Booty Island e Phatt Island), una gara di sputi da vincere (ovviamente con l’inganno), un tesoro da recuperare in fondo al mare e l’immancabile tesoro da recuperare, cioè Big Whoop, che la leggenda vuole si trovi nell’isola di Dinky Island, rintracciabile solo attraverso i 4 pezzi di un’antica mappa. Non manca davvero nessuno stereotipo piratesco (c’è anche una gara di bevute), ma è tutto messo in scena con una derisoria ironia tale da rendere un racconto puramente derivativo un’opera totalmente originale, nonostante le ripetute citazioni a Indiana Jones (i serpenti, il cane col nome del protagonista, la frusta in vendita nel negozio di antiquariato), Casablanca (il dialogo fra Guybrush ed Elaine nel momento in cui si ritrovano) e ovviamente Star Wars.

Gli enigmi di Monkey Island 2

Monkey Island 2

L’evoluzione dell’universo di Monkey Island 2 aumenta esponenzialmente anche la difficoltà del gioco. Oggi possiamo ottenere con una manciata di click la soluzione dell’intero racconto, ma chi ha giocato a questa pietra miliare delle avventure grafiche negli anni ’90 ricorderà con un misto di tenerezza e vergogna i pomeriggi e le nottate passate alla ricerca di una soluzione agli svariati rompicapi partoriti da Gilbert, con gli aiuti che si limitavano al passaparola e alle riviste del settore. Una difficoltà intrinseca del gioco che trascende la sua stessa natura (“Non si può morire in un gioco della LucasArts“, ci ricorda Guybrush) e su cui ironizzano gli stessi autori, regalandoci uno spassoso dialogo fra lo stesso spaesato protagonista e la Hot Line della casa di produzione, a base di gag sui primi due capitoli di Monkey Island.

Una miscela perfetta di design del mondo di gioco, rispetto per il giocatore, fantasia sfrenata e sconfinato umorismo, che né i remake recenti (le cosiddette Special Edition), né i poco ispirati sequel sono riusciti a replicare. Colpa certamente della progressiva fuga di cervelli dalla Lucas Arts, ma anche di un pubblico che nel corso del tempo ha radicalmente modificato le proprie abitudini, spostandosi verso titoli dalla prodigiosa resa grafica ma non altrettanto attenti alla scrittura e all’ironia.

Senza nulla togliere ai vari The Last of Us e Uncharted, a loro volta prodigi dell’arte videoludica, è difficile scacciare la malinconia da parte dei gamer più stagionati nei confronti di un’epoca che ci ha regalato altri titoli che vale la pena citare, come Simon the Sorcerer, Gabriel Knight, Broken Sword, Myst o Grim Fandango. Baluardi di un mondo che non c’è più, che possiamo solamente rispolverare con ScummVM o altre piattaforme analoghe.

Il finale di Monkey Island 2 (attenzione agli spoiler!)

Ciò che fa definitivamente spiccare il volo a Monkey Island 2 sugli altri titoli sopracitati è sicuramente il suo indimenticabile epilogo, su cui vale la pena soffermarsi, avvisando degli spoiler in arrivo anche a 30 anni di distanza.

Nella quarta e ultima parte di Monkey Island 2, Guybrush arriva finalmente su Dinky Island, la cui ricerca funge da MacGuffin del racconto. Qui finisce in un tunnel corredato da strani oggetti, attraverso il quale è possibile addirittura tornare sulla Mêlée Island del primo capitolo. È il momento della resa dei conti con LeChuck, che si risolve sostanzialmente in un reciproco attacco a suon di bambole vudù. Ma la forza del finale di Monkey Island 2 risiede altrove.

Con le ennesime citazioni de L’Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi (assistiamo a una riedizione di due celebri dialoghi di Luke Skwalker e Darth Vader), Guybrush scopre che LeChuck è suo fratello. L’atmosfera si fa sempre più malinconica, se non addirittura lugubre, quando vediamo gli scheletri dei genitori dei protagonisti, già apparsi poco prima in sogno a Threepwood.

Proprio quando Guybrush sta per tributare un atto di pietà al fratello morente, irrompe in scena un inserviente di un parco di divertimenti. In un cortocircuito temporale e narrativo, l’uomo riconsegna ai genitori Guybrush e LeChuck, che ora sono tornati bambini. Il padre e la madre dei fratelli ritrovano così i figli all’interno del parco, che si chiama proprio Big Whoop. Anche se i creatori lasciano aperta la porta a molteplici interpretazioni con i dettagli degli occhi spiritati del piccolo LeChuck e con Elaine che aspetta il ritorno di Guybrush, il senso di tutto questo è abbastanza chiaro: tutti gli eventi dei primi due capitoli di Monkey Island sono frutto dell’immaginazione del protagonista, perso all’interno di un parco di divertimenti.

Il segreto di Monkey Island

Monkey Island 2

Un finale in bilico fra immaginazione e realtà, che strizza l’occhio a quello di C’era una volta in America di Sergio Leone (con tutte le differenze del caso) e che chiarisce al tempo stesso il senso di quest’opera.

Monkey Island nasce da un parco di divertimenti e si conclude (escludendo i già citati sequel) all’interno di un parco di divertimenti. Il più volte citato segreto di Monkey Island in fondo non è altro che questo: un gioco che ci riconnette alla parte più infantile e spensierata della nostra vita, diventando di fatto un inno all’avventura e all’immaginazione più sfrenata.

Se mai ci sarà un tipo di gioco che colmerà il divario tra videogame e narrazione, è molto probabile che sarà l’avventura grafica. Ci saranno meno soluzioni di enigmi e più storie, sarà questo il futuro. Non possiamo dimenticare che siamo qui per intrattenere e, per la maggior parte delle persone, l’intrattenimento non consiste in notti e fine settimana pieni di frustrazione. L’americano medio passa la maggior parte della giornata sentendosi un fallimento in ufficio, l’ultima cosa che vuole è tornare a casa e sentirsi un fallito mentre cerca di rilassarsi e divertirsi.

Ron Gilbert, il creatore di Monkey Island

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Marco Paiano

Tutto quello che ho imparato nella vita l'ho imparato da Star Wars, Monkey Island e Il grande Lebowski. Lo metto in pratica su Tech Princess.

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Commenti

  1. Splendida recensione retrospettiva. Sono un grande fan di monkey 2 da quando è uscito, avevo 12 anni e mia mamma mi ha dovuto fare un costume di carnevale da Threepwood, quell’anno. Ho adorato anche il primo gioco, naturalmente.

    Importante è il ragionamento di Gilbert, naturalmente! Ma come può l’avventura grafica colmare il divario tra interazione e narrazione, quindi far fare al videogaming quel salto di qualità che lo porti al livello intellettuale narrativo di un romanzo, se poi non deve essere impegnativo? Se non è impegnativo, non è interattivo, è se non è interattivo, il videogaming muore perché prevale la cinematografia passiva. Spero che riesca, il videogaming, comunque a ottenere questo salto di qualità grazie anche a un ritorno a volere più interattività grazie alla riscoperta del genere “avventura” punta e click.

    È chiaro infatti che il modo per cui i videogiochi possono essere presi più seriamente di oggi (perché al momento sono considerati alla pari di fumo allucinogeno, grazie alla loro sbagliata evoluzione degli ultimi 20 circa anni) è proprio l’aumento di profondità di interazione nel mondo simulato, e questo si ha aumentando “i verbi” coi quali si agisce. Al momento questi, nei giochi odierni “superevoluti”, sono come quelli nelle arcade di 30 anni fa:

    salta – spara

  2. Gioco bellissimo con un musica che fa parte della storia dei videogames. Lo giocai su Amiga, bellissimo anche se il top era giocarlo su PC in vga con scheda audio soundblaster o Roland. Comunque il mio preferito resta senza dubbio Zak Mackraken, semplicemente meraviglioso e subito dopo viene Maniac Mansion. La serie monkey a mio avviso supera solo la serie indiana jones.

  3. Recensione stupenda. Ogni tanto lo rigioco ancora ed è sempre un piacere. Sarà che i giochi moderni come detto da voi lasciano poco all’immaginazione, ma non c’è nulla che attiri. Può anche essere solamente un fatto nostalgico. Ricordi di un tempo che purtroppo non tornerà più
    Grazie comunque della splendida recensione

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