Spegnere la luce ogni volta che si esce da una stanza e fare lo stesso col motore dell’automobile quando dobbiamo sostare per qualche minuto. Queste e altre buone norme ci permettono di offrire il nostro piccolo contributo quotidiano al taglio dei consumi e soprattutto dell’inquinamento.
Pochi però sono coloro che si accorgono di quanto siamo circondati dalla tecnologia, e di quanto ciò gravi sul benessere ambientale a diversi livelli. Intanto, va da sé, perché gli oggetti tecnologici (e ultimamente il cosiddetto Internet delle cose) mettono sul mercato prodotti dalla vita media sempre più breve.
Ma nei rifiuti tecnologici sono incluse anche le batterie che alimentano molti di questi dispositivi. È l’aspetto su cui si è concentrato uno studio di EnAbles, progetto finanziato dall’Unione Europea.
Il dato principale, più che eloquente, ci dice che ogni giorno buttiamo nel cestino della spazzatura qualcosa come 78 milioni di batterie. E continueremo a farlo almeno sino al 2025.
Indaghiamo più nel dettaglio la ricerca di EnAbles, e scopriamo quali sono le proposte per rallentare gli sconcertanti numeri dei rifiuti tecnologici.
La ricerca di EnAbles
Come abbiamo detto, EnAbles è un progetto voluto dall’Ue e coordinato dal Tyndall National Institute, un centro di ricerca europeo su hardware e sistemi ICT integrati. Tra gli 11 partner ci sono anche il Politecnico di Torino e le Università di Perugia e di Bologna.
Lo studio ci dice che i rifiuti tecnologici, o più nello specifico le batterie, continueranno a tenere questo ritmo almeno sino al 2025, se non si arriverà quanto prima a un duplice risultato: quello di diminuire i consumi di energia dei dispositivi e quello, ancora più ovvio, di aumentare la durata delle stesse batterie.
I rifiuti tecnologici e l’Internet delle cose
I ricercatori concordano nell’individuare nel boom dell’Internet delle cose una delle principali cause del consumo così frenetico delle batterie.
Ricordiamo che con Internet delle cose (in sigla IoT, Internet of Things) si intendono tutti quegli oggetti di uso quotidiano collegati tra loro e alla Rete. Gli esempi sarebbero moltissimi: dai grandi e piccoli elettrodomestici ai mezzi di trasporto.
L’IoT inizia a concretizzarsi tra il 2008 e il 2009, quando a essere connessi non sono solo più computer, tablet e smartphone, ma anche lavatrici, frigoriferi, automobili e altri elementi della nostra quotidianità. È un passaggio verso l’Internet of Everything, che prevede la connessione perpetua di persone e cose. E il cui habitat naturale saranno le smart city.
Ma questa connessione continua, se da un lato porta il grande vantaggio della comodità, dall’altro ha un imponente costo energetico. La stima è che nel 2025 si arriverà a quasi 1 trilione (ovvero, tenetevi forte, un miliardo di miliardi) di oggetti connessi a Internet, tra automobili e treni, elettrodomestici e device, telecamere intelligenti e gadget indossabili.
Il problema delle batterie
Andando al cuore della questione, quella dei rifiuti tecnologici, l’Internet delle cose porta in sé un problema: quello del divario tra la durata media di un dispositivo, che è di circa 10 anni, e le batterie che lo alimenta, che in genere si esauriscono ben prima dei 24 mesi.
I ricercatori di EnAbles individuano due svantaggi legati a questa differenza di tempi: economici e ambientali.
La frenetica produzione di batterie è aggravata da un altro problema, quello per cui oggi meno del 40% delle batterie utilizzate dagli oggetti dell’IoT viene riciclato in modo corretto.
Ci sono, infine, casi limite, in cui la sostituzione della batteria rende complicato o limita l’utilizzo stesso di determinati strumenti. Pensiamo ad esempio a dispositivi medici impiantabili come il pacemaker o le pompe per il rilascio di insulina.
Le proposte del team di EnAbles
La prima parziale ricetta per migliorare l’ambito dei rifiuti tecnologici potrebbe essere quella di affidarsi all’energia verde. In questo senso Mike Hayes, coordinatore di EnAbles, fa un esempio eclatante. Dice Hayes: “Con un pannello solare grande la metà di una carta di credito si potrebbe alimentare indefinitamente un sensore di temperatura e umidità in un ufficio”.
Più in generale, il compito di EnAbles è duplice. Da una parte c’è l’ambito della ricerca, come afferma Claudio Gerbaldi, docente di Chimica al Politecnico di Torino. “L’idea è quella di realizzare una rete infrastrutturale europea in modo da dare accesso gratuito a simulazioni, dati, attrezzature e studi. Consentendo ai soggetti interessati come le aziende di avere a disposizione risorse e strutture, messe in comune, per portare avanti attività di ricerca e innovazione”.
Dall’altra c’è la sensibilizzazione. EnAbles ha coinvolto 500 stakeholder (termine che indica chiunque sia in qualche modo interessato a un progetto) di 38 Paesi e più di 130 esperti in una serie di webinar e seminari. Perché, come spiega sempre Mike Hayes, “bisogna rivoluzionare il modo in cui progettiamo, produciamo, usiamo e smaltiamo gli oggetti”. E la sostenibilità dell’IoT “dev’essere raggiunta in maniera collaborativa e intrecciando le discipline”.
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