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Lost in Translation di Sofia Coppola – Il filo nascosto

Per il nuovo appuntamento con Il filo nascosto, parliamo ancora di Sofia Coppola e del suo Lost in Translation.

La solitudine è una condizione ambigua e sfuggente, dalle svariate conseguenze negative, ma capace paradossalmente anche di aprire porte apparentemente destinate a rimanere chiuse per sempre. Proprio sull’incontro di due differenti solitudini nasce Lost in Translation – L’amore tradotto, opera seconda di Sofia Coppola in grado di spingersi ben oltre alle suggestioni amorose evocate dal discutibile sottotitolo italiano, abbracciando temi come la crisi di mezza età, la difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo e soprattutto la sensazione di sentirsi costantemente stranieri in un mondo che viaggia costantemente in direzione opposta alla nostra.

Dopo aver dedicato a Il giardino delle vergini suicide il precedente appuntamento con la nostra rubrica cinematografica Il filo nascosto, parliamo dunque del successivo lavoro della cineasta statunitense, capace di fare spiccare definitivamente il volo alla sua notevole carriera. Un’opera leggera e allo stesso tempo vibrante, che si regge sia sul lavoro della figlia d’arte (premiato con l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2004), sia sul fondamentale contributo dei protagonisti Bill Murray e Scarlett Johansson, autori di due memorabili prove attoriali.

Lost in Translation: l’incontro di due anime perse in una Tokyo dolce e malinconica

In una Tokyo caotica e alienante, si incontrano casualmente due statunitensi. Il primo è Bob (Bill Murray), attore di mezza età e in declino che si ritrova nella capitale nipponica per girare uno spot pubblicitario lautamente retribuito. L’altra è la giovane Charlotte (Scarlett Johansson), che invece si trova in Giappone per accompagnare il marito John (Giovanni Ribisi), fotografo di fama internazionale. Entrambi si ritrovano costretti a passare molto tempo in albergo, vittime della solitudine, di una malinconia esistenziale e del disagio scaturito da una città e una cultura molto distanti dalla loro personalità. Complice la comune insonnia, Bob e Charlotte iniziano un rapporto sempre più intenso e sfumato, che li porta a conoscere Tokyo sotto un’altra luce e a vivere un sentimento che si avvicina molto all’amore.

Con Lost in Translation, Sofia Coppola continua il discorso iniziato con il già citato Il giardino delle vergini suicide, esplorando nuovamente gli anfratti più cupi e reconditi dell’animo umano. Mentre l’opera prima della regista era dominata dalla disperazione e da macabre suggestioni, Lost in Translation riesce al contrario a essere anche un’atipica e bizzarra celebrazione della vita, affidata a due personaggi estremamente diversi ma complementari e a una città in grado di esacerbare il loro disagio e allo stesso tempo di spingerli a uscire dalle rispettive comfort zone, aprendosi ai lati più comici e paradossali dell’esistenza.

Le formidabili prove di Bill Murray e Scarlett Johansson

Lost in Translation

Lost in Translation è la perfetta sintesi del pregevole lavoro di Sofia Coppola. Il titolo esprime il disagio provato dai protagonisti e in particolare da Bob, che per i suoi limiti linguistici è incapace di comprendere persino le indicazioni del regista a proposito dello spot di cui è protagonista, ma più in generale è il calzante sunto di questa particolare storia d’amore, trainata da sguardi, gesti ed emozioni incomunicabili attraverso le semplici parole. Mentre i colori al neon di Tokyo duellano con l’oscurità della notte nella metropoli, Bob e Charlotte con il passare del tempo diventano l’uno per l’altra un indispensabile raggio di luce, con cui affrontare le rispettive crisi esistenziali.

Bill Murray regala una delle migliori performance della sua straordinaria carriera, tratteggiando in perfetto equilibrio fra malinconia e ironia un personaggio indimenticabile, annoiato da una vita fatta di noiosa routine familiare e viaggi ai quattro angoli del globo con cui monetizzare la sua calante fama di attore, ma scosso improvvisamente dalla dolcezza e dalla genuinità della sua più giovane connazionale. Proprio quest’ultima è la pietra angolare dell’altrettanto prodigiosa carriera di Scarlett Johansson, qui alle prese con un personaggio a metà fra Lolita e una diva del cinema muto. Il loro non è solo un bisogno di amore, ma è soprattutto necessità di essere compresi, in un mondo che spesso è davvero difficile da tradurre.

L’unione di due solitudini

La mera trama di Lost in Translation è esile al punto da poter essere racchiusa in una sceneggiatura di appena 70 pagine, in cui Sofia Coppola ha riversato idee, emozioni e sensazioni. A fare la differenza è proprio lo stile di narrazione della regista, che a partire da quest’opera diventa unico e inconfondibile. Uno stile fatto di sguardi tristi e nostalgici, rivolti verso un orizzonte indeterminato; di silenzi loquaci, capaci di raccontare l’intero mondo che li circonda; di momenti semplici e gioiosi, come l’omaggio a La dolce vita di Federico Fellini o la serata karaoke con tanto di iconica parrucca rosa per Charlotte; di gesti emblematici, come i piedi di lei che cercano il corpo di lui, che a sua volta ricambia con una tenera carezza.

Una crisi di mezza età e un matrimonio sbagliato e infelice vengono così cancellati da una serata al night, da scampoli di vita, da momenti di puro infantilismo e da un rapporto difficile da incasellare, troppo simbiotico per limitarsi all’amicizia ma allo stesso tempo non abbastanza dirompente per sfociare apertamente nella passione e nell’amore. Un fragile e sottile equilibrio su cui Sofia Coppola danza con grazia e caparbietà, disegnando una parabola esistenziale e sentimentale incompiuta e inespressa, e proprio per questa indelebilmente scolpita nell’immaginario collettivo cinefilo.

La realtà dietro Lost in Translation

Certo, lo sguardo di Lost in Translation su Tokyo è scopertamente occidentale, al limite del macchiettistico. I giapponesi sono rappresentati soprattutto attraverso le loro bizzarrie, con stereotipi come il karaoke e attraverso le loro fiorenti industrie dell’elettronica e della cultura pop. Un altro smarrimento all’interno di una impossibile traduzione, che acuisce le emozioni suscitate dal racconto, incastonato in un non tempo e in un non luogo posticcio e artefatto, ma paradossalmente vero e tangibile.

Un risultato reso possibile anche dalle esperienze personali di Sofia Coppola, che ha visitato diverse volte Tokyo vivendo e in certi casi subendo il suo incrocio di culture diametralmente opposte. Non è inoltre da escludere che nella stesura del racconto la regista abbia attinto anche dal suo rapporto con il primo marito, ovvero il celebre regista Spike Jonze da cui si è separata proprio nel 2003 in cui ha visto la luce Lost in Translation. In uno di quegli straordinari incroci fra realtà e fantasia che solo il cinema sa regalare, 10 anni più tardi quest’ultimo ha affidato proprio a Scarlett Johansson la voce di Samantha, assistente virtuale di cui si innamora perdutamente Joaquin Phoenix in Her.

La genesi di Lost in Translation

Lost in Translation

Altrettanto memorabile è il lungo lavoro ai fianchi con cui la regista è riuscita a coinvolgere Bill Murray nel progetto. Per sua stessa ammissione, Sofia Coppola ha scritto Lost in Translation pensando al protagonista di Ricomincio da capo, e con ogni probabilità non avrebbe realizzato il film senza la sua presenza nel cast. A causa della nota voluta irreperibilità di Bill Murray, la regista ha inviato per mesi lettere e messaggi telefonici, coinvolgendo addirittura Wes Anderson e Al Pacino nella sua disperata ricerca di un contatto con l’attore.

Quando finalmente i due si sono incontrati in un ristorante, è immediatamente scattata la scintilla, dando vita a un sodalizio artistico ininterrotto e proficuo per entrambi. La sorprendente compatibilità fra due personalità agli antipodi ricorda curiosamente quella di Bob e Charlotte, ed è probabilmente alla base della scena più celebre di Lost in Translation, ovvero quella inaudibile frase sussurrata da Bill Murray all’orecchio di Scarlett Johansson nello struggente epilogo del racconto.

Il finale di Lost in Translation

Lost in Translation

Dopo un saluto freddo e anonimo, anticipatore del ritorno di entrambi alle rispettive vite, Bob scorge l’inconfondibile chioma di Charlotte in mezzo alla folla della metropoli e si precipita verso di lei. Quello che segue non è altro che un attimo, ma un attimo capace di racchiudere un’intera vita. Non ci è dato sapere cosa dice Bob a Charlotte, ma il tenero bacio che ne segue e il radioso sorriso con cui i due si allontanano è il perfetto sigillo su una storia d’amore destinata a svanire fra le strade di Tokyo, ma a rimanere scolpita nel cuore dei protagonisti e degli spettatori.

Lost in Translation

«Non partire, resta qui con me. Mettiamo su un complesso jazz».

Il filo nascosto nasce con l’intento di ripercorrere la storia del cinema nel modo più libero e semplice possibile. Ogni settimana un film diverso di qualsiasi genere, epoca e nazionalità, collegato al precedente da un dettaglio. Tematiche, anno di distribuzione, regista, protagonista, ambientazione: l’unico limite è la fantasia, il faro che ci guida è l’amore per il cinema. I film si parlano, noi ascoltiamo i loro dialoghi.

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Marco Paiano

Tutto quello che ho imparato nella vita l'ho imparato da Star Wars, Monkey Island e Il grande Lebowski. Lo metto in pratica su Tech Princess.

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