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L’emoji col pollice in su vale come firma. Clamorosa sentenza in Canada

Un messaggio con faccina è stato vincolante

Simpatiche, le emoji. Le utilizzano specialmente i giovani, per dare sfumature di un certo tipo alle proprie frasi.

Ma non è vero, suvvia: le adoperiamo volentieri anche noi. Sono una specie di scorciatoia. La lingua avrebbe in sé ogni possibilità espressiva, certo. Ma per chi non è avvezzo a utilizzarla con finezza, o ha poco tempo, ecco che le emoji servono, ad esempio, a dare una connotazione ironica a quanto appena scritto, attenuando magari la serietà o l’ufficialità di certe dichiarazioni.

Anche molti tra i puristi della lingua, nelle comunicazioni più intime, hanno ceduto a queste appendici linguistiche, che ci fanno sentire più alla moda (ma crediamo che oggi si dovrebbe dire smart).

Insomma: le emoticon ci piacciono perché sono simboli colorati, buffi, nati per caso e diventati sempre più simbolo di una comunicazione rapida e disimpegnata. Tuttavia non sono nulla di serio, sia ben inteso.

Ne siamo proprio sicuri?

emoji

L’emoji con pollice in su vale come firma

La decisione di un giudice canadese sembra andare in direzione contraria, e creare un precedente clamoroso che riguarda l’emoji col pollice in su.

Un precedente che, dal punto di vista dell’impatto culturale, potrebbe essere molto meno trascurabile di quanto si creda. Ne parleremo tra poco. Prima, però, veniamo alla notizia.

Cos’è accaduto

Il signor Chris Achter, agricoltore canadese, in futuro rileggerà dieci volte i suoi messaggi, prima di inviarli. E si guarderà bene dall’aggiungervi facce e altri simboli, anche se i messaggini fossero indirizzati ai suoi familiari.

Questo perché una svagata emoji col pollice in su gli è, lo si può davvero dire, costata cara.

Achter, agricoltore della provincia canadese di Saskatchewan, nel 2021 ha ricevuto come messaggino sullo smartphone una proposta per la fornitura di 87 tonnellate di lino, da consegnare entro il mese di novembre a una cooperativa cerealicola locale. E in calce alla proposta campeggiava la frase: “Si prega di confermare”.

La sua risposta estemporanea qual è stata? Indovinato: un’emoji col pollice in su. Che tutti noi tradurremmo come: “D’accordo, proposta ricevuta”. Peccato che quel pollice levato sia stato il motivo del contendere, e si sia ritorto contro l’agricoltore.

La doppia interpretazione dell’emoji col pollice in su

Il problema è nato quando l’azienda non si è vista recapitare la merce entro la data stabilita.

Dopo che la cooperativa cerealicola ha chiesto spiegazioni a Chris Achter, si è palesato il motivo del mancato accordo. Se l’emoji col pollice in su per Achter era soltanto un informale modo per confermare la presa visione della proposta commerciale, la cooperativa l’ha interpretata come un’accettazione della medesima.

La sentenza

La curiosa vicenda è finita in tribunale. E due anni più tardi, precisamente lo scorso 8 giugno, ecco l’inattesa decisione del giudice Timothy Keene, che ha dato ragione all’azienda.

E la sentenza suona come una beffa: “La Corte riconosce che non è un modo tradizionale di firmare, ma in queste circostanze resta valido.”

Adesso Achter dovrà pagare alla cooperativa un risarcimento di 61.000 dollari canadesi (pari a circa 42.000 euro).

Curioso far notare che due elementi si sono rivelati dirimenti per la redazione di questa sentenza clamorosa. Il primo è di carattere generale: il giudice Keene ha dichiarato che “la Corte non può, né dovrebbe, tentare di arginare la tecnologia.” Il secondo riguarda nello specifico le abitudini di Chris Achter, che in altre occasioni è stato solito rispondere a simili proposte di fornitura in modo rapido e informale, e poi rispettare i tempi di consegna.

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L’emoji ai tempi della Pec

Bizzarra e spiazzante, la decisione del giudice canadese.

Ma come? Oggi che le misure di sicurezza in rete sono sempre più raffinate, che tutte le grandi e piccole aziende devono dotarsi di Pec, e che abbiamo sviluppato quasi un’ossessione per la privacy, è sufficiente un’emoji col pollice in su per confermare l’accettazione di un contratto?

Al di là della palese contraddittorietà di quanto accaduto, e di tutte le possibili interpretazioni che il fatto può suscitare, una cosa è certa. La sentenza canadese ha sdoganato il mondo delle comunicazioni rapide via messaggini, che fino a ieri – nel nostro immaginario – erano il regno dell’intimità e dell’informalità.

È come se la sentenza del giudice Timothy Keene confermasse il fatto che la nostra vita virtuale sta diventando sempre più… vera.

Quante volte anche individui dotati di una profonda conoscenza della propria lingua scrivono in fretta e furia alle persone care, e inviano senza rileggere?

Da oggi, forse, è bene cambiare abitudine.

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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