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L’indie da scoprire – Dear Esther

Il tempo trascorso da oggi alla Landmark Edition non è sicuramente tanto quanto quello della primissima edizione di Dear Esther, giunto quasi al suo decimo anniversario. Un walking simulator, sebbene sia una descrizione davvero riduttiva, che a una prima occhiata sembra chiederci semplicemente di attraversare un livello dopo l’altro rimanendo in ascolto della narrazione del protagonista. Ma quale dovrebbe essere il valore aggiunto di questo titolo, se il suo contenuto fosse ridotto solo a questo? Dopo la sua uscita nel lontano, “lontanissimo” 14 febbraio 2012, è tempo di ripercorrere il cammino difficile che possiamo percorrere in Dear Esther, titolo sviluppato da The Chinese Room e di cui, come accennavamo sopra, è stata anche lanciata la sopracitata Landmark Edition nel 2017.

Vediamo insieme perché ancora oggi valga la pena giocare a questo titolo nel nostro speciale “L’indie da scoprire”, rispolverando un titolo che potrebbe quasi non essere considerato un videogioco, per via del linguaggio artistico con cui si esprime. Un gioco che si avvicina per certi versi all’esperienza vissuta in Gone Home o drammaticamente introspettiva come in GRIS.

Dear Esther, tra lettere e emozioni

Questo titolo, che come anticipavamo sarebbe riduttivo paragonare a un classico walking simulator o un puzzle game, si basa sulla narrazione del protagonista. Questi ci legge delle lettere indirizzate a tale Esther, giustificando così il titolo che risulta dunque essere l’incipit delle varie corrispondenze scritte. Il nostro scopo primigenio è quello di esplorare l’isola su cui ci troviamo, in un ambiente cupo e tempestoso. Nel mentre, rimaniamo in ascolto di un doppiaggio e una interpretazione decisamente ben riuscita nella versione originale inglese. Difficile però è capire in quale direzione ci sta convogliando il gioco: dove dobbiamo andare e perché? E soprattutto chi sono Esther, Paul, Jacobson e Donnelly?

Nemmeno le lettere che ci vengono lette ci consentono di delineare un orizzonte specifico, almeno in apparenza. Dunque orientarsi in questa isola che dobbiamo perlustrare diventa difficile, ma i nodi vengono al pettine man mano che avanza il nostro incedere. Procediamo allora su questa isola, ben concepita e realizzata in diverse mappe distinte che ci presentano una certa varietà di esterni, abitazioni e grotte.

Paesaggi emotivamente espressivi

Il lavoro svolto in Dear Esther, da un punto di vista artistico, è decisamente dettato dalla cura per i particolari e dalla volontà di suscitare emozioni nel giocatore. La qualità delle immagini è eccellente, e giocare a questo titolo è davvero un’esperienza che ci assorbe. Possiamo nettamente percepire il senso di solitudine che conduce il protagonista sulla strada del suo destino, ammirando l’ambiente desolato e a tratti malinconico che ci circonda. La sensazione di vuoto e vacuo, accanto al delirante rapporto del protagonista con l’isola, accompagnano invece il giocatore lungo una narrazione che trova la quadratura del cerchio solo alla chiusura.

Se il ventaglio di azioni in questo gioco è decisamente ridotto, tra camminare e guardarci intorno, possiamo però farci maggiormente coinvolgere dagli effetti e dalle musiche. Il comparto sonoro serve a rimarcare i vari passaggi del nostro cammino, mentre il protagonista riflette sull’esistenza sua, dell’isola e dei suoi abitanti.

Perché giocare ancora oggi a Dear Esther

In definitiva, Dear Esther non è sicuramente un’esperienza che possiamo definire allegra o divertente. Potremmo anzi sostenere che sia sì angosciante ma anche avvincente, nel suo modo un po’ ombroso di presentarsi. È un viaggio sicuramente estetico e interiore della storia di un condannato che ci offre una prospettiva personale sul senso della vita e dell’esistenza. Non possiamo avvicinarci con l’idea di stare per giocare a un classico esplorativo di un’isola, mentre ascoltiamo la lettura delle lettere scritte a tale Esther. Dobbiamo farlo per assaporare il gusto artistico con cui è stata resa la desolazione di un luogo, tanto dannato quanto il protagonista, e il dolore di quest’ultimo. Quasi una storia che ricorda in parte quella del dottor Frankenstein e del suo mostro.

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Francesca Sirtori

Indielover, scrivo da anni della passione di una vita. A dispetto di tutti. Non fatevi ingannare dal faccino. Datemi un argomento e ne scriverò, come da un pezzo di plastilina si ottiene una creazione sempre perfezionabile. Sed non satiata.

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