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Case italiane scomparse: De Tomaso, il sogno dell’argentino Alejandro | Auto for Dummies

Partito dall’Argentina verso l’Italia per coronare il proprio sogno di costruire automobili con il suo nome. Arrivato a Modena, trovando fortuna creando automobili sportive uniche e speciali. Pensate che stia parlando di Horacio Pagani, il fondatore dell’omonima Casa automobilistica italiana? Beh, no. Prima del mitico Horacio, negli anni ’60, un altro argentino cercò fortuna in Italia nel mondo dell’automobile: Alejandro de Tomaso. Un personaggio vulcanico, esplosivo, istrionico. Un imprenditore imprevedibile che per quasi 40 anni diede vita ad una Casa folle e istronica come lui, la De Tomaso. Bentornati ad Auto for Dummies, e oggi continiuamo il nostro viaggio tra le Case italiane scomparse con la seconda protagonista, l’italo-argentina De Tomaso. Pronti? Allacciate le cinture: oggi ci divertiamo.

Chi è Alejandro de Tomaso?

Partiamo subito col capire la genesi di questa incredibile storia industriale parlando del protagonista della scalata della De Tomaso, il fondatore Alejandro. Come vedrete, la storia del dirigente italo-argentino è davvero pazzesca, e meriterebbe da sola una puntata dedicata. Oggi però parliamo della sua creatura, nata quasi per caso dopo una vita agiata in Argentina.

Alejandro de Tomaso nasce infatti a Buenos Aires il 10 luglio 1929, figlio dell’italo-argentino Antonio de Tomaso, nato a Napoli ma ormai stabilitosi in Sud America. Qui, la famiglia de Tomaso era una delle più importanti del Paese: il padre era stato Ministro dell’Agricoltura negli anni ’30 del Novecento, mentre sua madre apparteneva ad una delle famiglie più potenti dell’agricoltura argentina. La famiglia possedeva la Estancia de Tomaso, una fattoria di oltre 120.000 ettari, e il giovane Alejandro si dilettava tra la politica e le corse automobilistiche. Cominciò a correre in giovane età con una Bugatti Type 35, ottenendo buoni risultati, ma in pochi anni tutto il mondo di de Tomaso cambiò.

Nel 1946 venne eletto come Presidente della Repubblica Argentina il Generale Juan Peròn, che da quel momento instaurò un regime totalitario insieme alla moglie Evita. L’instaurazione del regime peronista fu una vera disfatta per la famiglia de Tomaso, che perse tutto il suo prestigio e le sue ricchezze. Dopo aver partecipato alle rivolte antiperoniste e al tentato golpe contro Peron, de Tomaso fu prima incarcerato e poi decise di scappare, lasciando in Argentina la sua prima moglie e i suoi tre figli.

De Tomaso lasciò tutto in Argentina, per arrivare in Italia con poco o nulla in tasca e tentare la fortuna nel mondo che più amava: l’automobile. La sua esperienza nel mondo dei motori, e la popolarità dei piloti argentini grazie alle gesta di Fangio e Gonzàlez, gli fecero ottenere un ruolo da pilota con Maserati nel 1955 e 1956, e poi con la O.S.C.A. dei Fratelli Maserati. Grazie all’amicizia nata con i fratelli Maserati, Alejandro fondò una piccola officina per elaborazioni di motori e di auto da corsa. Ma fu proprio in questo periodo di corse che la sua vita cambiò per sempre.

Da pilota a costruttore: l’inizio della Automobili De Tomaso e la Vallelunga

Nelle gare a cui prendeva parte c’era infatti sempre una ragazza americana, che correva con il nome di Isabelle, stabilitasi a Modena per correre. Innamoratosi della donna, de Tomaso scoprì che la donna (che poi sposò in seconde nozze) nascosta sotto quello pseudonimo era Elizabeth Haskell, sorella del presidente della Rowan Controller Industries, una enorme società americana produttrice di sistemi elettrici per automobili, collaboratrice di GM e Ford. La stessa Haskell poi ereditò dal nonno un numero considerevole di azioni di GM e Ford: grazie a lei, de Tomaso sfruttò un canale privilegiato con gli Stati Uniti, che fu fondamentale per la storia di De Tomaso. Nel 1959, ottenuto un sostanzioso appoggio dalla Rowan, Alejandro fondò a Modena la Automobili de Tomaso, che si occupava di produrre auto da corsa per diversi clienti.

Fu in questo momento che de Tomaso finalmente ebbe in ritorno un po’ di fortuna economica. E, con la ritrovata disponibilità, il sogno di De Tomaso cominciò a prendere forma. Dopo le auto da corsa, infatti, nel 1964 arrivò la prima automobile stradale della Casa italo-argentina, la De Tomaso Vallelunga. Chiamata così in onore della pista romana su cui De Tomaso provava le sue auto da corsa, la Vallelunga incarnava perfettamente le idee di de Tomaso riguardo ad un’auto col suo nome. In realtà, de Tomaso voleva vendere il progetto Vallelunga ad un’altra Casa, ma nessuno sembrò interessato, così la piccola Casa modenese di produrre la prima auto a marchio de Tomaso. A proposito: come logo, Alejandro scelse la T usata dal padre per il bestiame, su uno sfondo bianco e azzurro, come la bandiera della sua Argentina.

Da pilota da corsa, l’italo-argentino voleva che le sue automobili fossero il più sportive e veloci possibili, senza troppa attenzione a confort o lusso. Per questo, infatti, la Vallelunga era un’auto estremamente leggera e compatta, con carrozzeria completamente in vetroresina. Il telaio monotrave in alluminio, i freni a disco sulle quattro ruote e le sospensioni indipendenti, prese direttamente da una Formula 3 della Casa, fanno capire come non si trattava di Gran Turismo, ma di una vettura da corsa omologata per la strada. Il motore, il 1.6 4 cilindri da 104 CV della Ford Cortina, e la trazione erano posteriori. L’auto era difficilissima da guidare, adatta solo a mani esperte, ma molto veloce e performante grazie al peso di soli 800 kg, capace di oltre 215 km/h. La Casa riuscì a vendere solo 54 esemplari: non proprio un successo, ma il primo passo verso un futuro molto più da protagonista.

La P70, la collaborazione che non andò in porto con Shelby

Da quel piccolo 1.6 quattro cilindri derivato dalla Cortina e da quella piccola sportiva, de Tomaso capì che, con un po’ di fortuna e intraprendenza, poteva avere successo in questo mondo. La Casa modenese si mise subito al lavoro per un altro progetto, la P70. Si trattava di una vettura da corsa dotata di telaio monotrave in alluminio, con il motore come elemento strutturale del progetto, e dotata di alettone posteriore mobile. Un progetto molto innovativo, che convinse Ford e Peter Brock, dipendente della Shelby, a dare una possibilità a De Tomaso e provare a sostituire le vecchie Lang Cooper usate da Shelby con le nuove P70. Il progetto viaggiava bene: la P70 era stata progettata per usare motori Ford-Shelby V8 fino a 6,8 litri e oltre 500 CV.

Nel 1965, però, Carroll Shelby venne chiamato da Ford in persona per sviluppare la GT40, una storia che ben conosciamo grazie anche al film Le Mans ’66 – La grande sfida. Shelby allora, che non poteva sostenere due progetti simili, abbandonò De Tomaso al suo destino e lasciò il progetto P70. Alejandro a quel punto era furioso. Il vulcanico argentino era noto infatti per essere una testa calda, capace di maltrattare senza tanti riguardi chi lavorava con lui. Da quel momento, la competizione con Shelby fu enorme, e si palesò in toto nel 1967 con la nuova automobile stradale della casa, la mitica De Tomaso Mangusta.

Nasce la collaborazione con Ford: ecco la Mangusta, la prima muscle car italiana

E il nome indicava subito che Alejandro il torto subito non lo aveva ancora digerito. La mangusta, infatti, è l’unico mammifero in grado di lottare (e vincere) contro il cobra. Si, esatto, il Cobra, proprio come la sportiva scoperta di Shelby.

Una vera dichiarazione di guerra: la nostra Mangusta arriva per mangiare il vostro Cobra. La Casa italo-argentina decise di utilizzare per la sua Mangusta il telaio monotrave con motore semi-portante studiato per la P70. Si tratta di una soluzione davvero avveniristica per le automobili stradali di quegli anni, ancora embrionale persino in Formula 1. Le sospensioni indipendenti, i freni a disco sulle quattro ruote e cofano e portiere in alluminio completano una meccanica molto raffinata. Questa raffinatezza poi è vestita da una carrozzeria elegante e sportiva, disegnata dalla carrozzeria Ghia. Nello specifico, la matita è di un giovane designer che, negli anni, avrà un discreto successo: Giorgetto Giugiaro. Proprio il giovane Giorgetto regalò alla Mangusta una particolarità ancora oggi unica: il cofano motore “a farfalla”, con due mezzi sportelli ad apertura verticale per accedere al motore. Unici, come è unico e speciale il motore sotto al cofano.

Grazie alle conoscenze della moglie, infatti, Alejandro riuscì a mettere in piedi una collaborazione con Ford America per la fornitura di componenti meccaniche per le sue automobili. Da qui arriva la croce e delizia della storia De Tomaso: il motore Ford V8. Come tutti gli appassionati di auto sanno, i V8 americani, in particolare quelli Ford, sono molto potenti e vigorosi, e con un sound pazzesco. Grazie a loro, la Mangusta si fece subito conoscere come la prima muscle car italiana. Questo motore però aveva un enorme difetto: il peso. Realizzato interamente in ghisa, il V8 Ford era davvero pesantissimo, e pur essendo in grado di erogare ben 306 CV grazie alle cure De Tomaso, sbilanciava completamente l’auto.

Essendo infatti montato dietro, il V8 rendeva la Mangusta molto difficile da guidare, in grado di far male al primo errore del pilota. In De Tomaso provarono a risolvere il problema alleggerendo il motore con parti in magnesio, salvando però solo 25 kg. In più, provarono a posizionare più in basso il motore usando tre piccoli dischi frizione al posto di uno grande. Il risultato, però, era tutt’altro che ideale: 32% del peso davanti, ben il 68% dietro. La Mangusta era bellissima, ma difficile, difficilissima da guidare. Grazie alla potenza del suo motore, comunque, con un pilota dal gran manico al volante era in grado di dare del filo da torcere a tutte le rivali. De Tomaso produsse 401 esemplari della Mangusta dal 1967 al 1971, preparando il terreno per una nuova sportiva.

L’avventura (sfortunata) in Formula 1 con Williams e Ford: la 505 tra insuccessi e tragedie

Dopo il successo di vendite della Mangusta (ricordate che negli anni ’70 400 esemplari non erano male!), de Tomaso volse lo sguardo al suo amore mai sopito: la Formula 1. Dopo aver tentato infatti la strada della Classe Regina da pilota, ottenendo come miglior risultato un nono posto proprio in Argentina nel 1957, De Tomaso tornò in Formula 1 nel 1970 come costruttore.

La vettura, la De Tomaso 505, fu sviluppata e realizzata dal giovane ingegnere Gian Paolo Dallara e utilizzata da una giovane squadra emergente, la Williams. All’epoca, infatti, la Frank Williams Racing Cars aveva debuttato l’anno precedente in F1, ottenendo due podi con il pilota inglese Piers Courage. Questo successo inaspettato convinse de Tomaso a collaborare con Williams, realizzando la sua prima F1. La 505, dotata del classico motore Ford-Cosworth DFV 3.0 V8, era però poco competitiva. Il motore Cosworth era davvero poco potente, e l’auto non era facile da mettere a punto. La livrea, però, rossa con la striscia con i colori della bandiera argentina al centro, era davvero stupenda.

I risultati tardarono ad arrivare, con l’auto che ottenne tanti ritiri e solo due piazzamenti finali, ma la tragedia arrivò al Gran Premio d’Olanda del ’70. Al ventiduesimo giro, la vettura di Courage ruppe una sospensione su un cordolo. Di conseguenza, il britannico perse il controllo dell’auto, che si ribaltò e prese fuoco, uccidendo sul colpo il pilota Williams. Dopo questa tragedia, che scosse Sir Frank Williams per tutta la sua quarantennale carriera in Formula 1, e i risultati tutt’altro che felici ottenuti durante la stagione, Williams chiuse la collaborazione dopo un solo anno, decretando la fine dell’avventura della Casa modenese in F1.

La Pantera, il modello più venduto e amato della Casa, tra America e Italia

Se in Formula 1 le cose non andarono come sperato, nel mondo delle vetture stradali tutto stava per cambiare. Dopo la promettente Mangusta, De Tomaso si fece notare in giro per il mondo per la sua capacità di creare quasi da zero un’ottima vettura, seppur con i suoi difetti. Ricordate la collaborazione con Ford? Ecco, ora torna di enorme attualità. Nel 1969, infatti, Ford stava vincendo, anzi, dominando le gare di durata con la mitica GT40. La Casa di Dearborn era allora desiderosa di capitalizzare su questi successi nel motorsport con un’auto sportiva capace di rivaleggiare con Ferrari e Maserati, e con l’americanissima Corvette.

Lee Iacocca, altro incredibile personaggio, decise di dare fiducia al suo amico Alejandro de Tomaso, che stava studiando in quegli anni una sostituta della Mangusta. Così De Tomaso mise al lavoro Gian Paolo Dallara, passato in De Tomaso per lavorare al progetto di Formula 1, per creare una sportiva in collaborazione con Ford. I requisiti erano: una linea da vera sportiva italiana, degli interni completi di climatizzatore e accessori da Ford di serie e, ovviamente, il V8 Cleveland sotto al cofano.

Dallara scelse di realizzare un’auto con telaio monoscocca, abbandonando il monotrave della Mangusta. Una soluzione meno raffinata, ma più economica, perfetta per la supercar Ford. La linea venne affidata a Tom Tjaarda della Ghia, dal 1967 controllata da De Tomaso, che creò un’automobile bellissima. Sportiva, elegante ma minacciosa, la Pantera dava ragione al suo nome, e fu pronta alla produzione nel 1971. Dotata del 5,7 V8 Cleveland con carburatore quadricorpo Holley da ben 330 CV, la De Tomaso Pantera era una supercar decisamente più semplice da guidare rispetto alla Mangusta, ma ancora molto cattiva e arrogante per via del suo V8 centrale.

Il suo motore la rese famosa come la mezza supercar: fatta in Italia a mano, ma con un rozzo motore americano. In realtà questa sua natura di sportiva accessibile fu la sua fortuna. Grazie ad un prezzo vantaggioso, all’affidabilità del motore e alla sua bellezza, Pantera fu venduta in numeri davvero eccellenti. Volendo essere onesti, però, una enorme fetta del successo della Pantera è da attribuire al cruciale accordo che De Tomaso siglò con Iacocca. Il manager americano si impegnò a vendere la Pantera presso la rete di concessionari ufficiale americana Lincoln-Mercury, marchi della galassia Ford. C’è di più: ogni concessionario Lincoln d’America dovette infatti acquistare almeno una Ford-De Tomaso Pantera all’anno. Già solo questo stratagemma portò alla vendita sicura di circa 1.000 esemplari all’anno fino al 1975.

Fu proprio in quell’anno che Ford decise di uscire dalla Joint Venture, continuando a fornire i motori a De Tomaso, ma smettendo di vendere le Pantera nei suoi concessionari. Da quell’anno, infatti, la produzione scese a poche centinaia all’anno. De Tomaso, rimasta sola, si occupò di affinare la Pantera con motori più potenti, interni più curati e estetica più appariscente. Nel 1991, dopo 20 anni esatti dal lancio, De Tomaso affidò a Marcello Gandini il compito di effettuare un restyling della Pantera, dando vita alla Pantera SI, prodotta dal 1991 al 1993. Negli oltre 22 anni di carriera, Pantera ha totalizzato 7.258 esemplari prodotti, di cui ben 6.380 venduti in Nord America tra il ’71 e il ’75. L’80% della produzione di Pantera è quindi rimasto negli States, per il primo (e unico) esempio di Supercar italo-americana di successo.

Il sogno di De Tomaso di creare un impero: l’acquisizione di Maserati, Benelli, Moto Guzzi,…

Mentre De Tomaso faceva faville con la mitica Pantera, però, il sogno di De Tomaso continuava imperterrito. La personalità del vulcanico Alejandro gli imponeva di puntare sempre più in alto. Un aneddoto di Marcello Gandini raccontato durante l’intervista con Davide Cironi fa capire tutto di questo incredibile argentino. “Quando arrivò a Modena, chiese quale fosse l’albergo più bello della città. Alla risposta: “Il Canalgrande”, De Tomaso rimase lì per un mese intero. Dopo un mese gli fu presentato il conto, che lui ovviamente non era in grado di pagare, e lo cacciarono fuori. La prima cosa che ha fatto appena avuti un po’ di soldi è stato… comprare l’albergo.”

Dopo aver coronato il sogno di vedere le sue auto vendute in America e in Europa, de Tomaso non smise di sognare in grande. I suoi più stretti collaboratori dicevano che fosse in grado di vedere tanto potenziale in tutte quelle Case in difficoltà, e che ritenesse di essere in grado di riportarle in auge. Fu così che, appoggiato enormemente dal Governo Italiano che aveva tutto l’interesse a preservare le aziende e i posti di lavoro, cominciò ad acquistare Case automobilistiche e motociclistiche. Perse Ghia e Vignale, acquisite da Ford durante i contrasti avuti nel periodo della Pantera tra il 1971 e il 1973, De Tomaso cominciò a collaborare con l’ente pubblico GEPI.

La GEPI era conosciuta come il rottamaio delle aziende: se una società finiva per essere controllata dalla GEPI, allora la fine era vicina. L’azienda statale però trovò in de Tomaso una persona capace di dare nuova linfa alle Case controllate. La prima azienda a finire nel neonato Gruppo De Tomaso fu la leggendaria Maserati, nel 1976. All’epoca, la Casa del Tridente era in costante perdita, e il suo proprietario, Citroen, non era più disposta a pagare per salvarla. Fu così che De Tomaso entrò in possesso di Maserati, un ritorno alle origini per Alejandro che proprio per Maserati iniziò a correre in Europa.

Il primo modello realizzato da Maserati sotto il controllo De Tomaso fu la Kyalami, una grossa coupè sportiva esatta copia della splendida Longchamp, modello De Tomaso di berlina sportiva con estetica molto ispirata alla Jaguar XJ. Dopo i primi timidi successi, GEPI diede in gestione a De Tomaso anche due Case motociclistiche, Benelli e Moto Guzzi. L’impero De Tomaso cominciò così a prendere forma, e arrivarono anche i primi successi, ottenuti tutti con la stessa strategia.

De Tomaso infatti puntò tanto su tutti i marchi che possedette, con un piano semplice ma rischioso. De Tomaso diede un moderato quantitativo di risorse alle Case, che avevano un unico compito: realizzare un modello innovativo e rivoluzionario nel più breve tempo possibile. Nacquero così due modelli emblematici di questo stile imprenditoriale, la Maserati Biturbo e la Benelli Sei. La prima fu la prima automobile di serie dotata di motore con doppio turbo, mentre la seconda fu la prima moto moderna di serie con motore a sei cilindri in linea. Entrambe avevano prestazioni eccellenti, una tecnica innovativa e un prezzo molto concorrenziale. In questo modo, tantissimi clienti furono tentati e convinti dalle nuove proposte.

Il prezzo basso, però, veniva ottenuto tramite il taglio alla ricerca e sviluppo e agli strettissimi tempi di messa a punto. I clienti, in pratica, erano dei veri e propri tester, chiamati a provare le novità dell’azienda. Questa soluzione si rivelava ottima a breve termine, ma controproducente a lungo termine, in quanto i prodotti venivano bollati come “di scarsa qualità” e “non completi”.

L’approdo tra le piccole: ecco l’acquisizione di Innocenti e l’arrivo della Mini De Tomaso

Un altro esempio della collaborazione tra De Tomaso e GEPI fu la Innocenti, Casa italiana di cui presto parleremo. Per non spoilerare le prossime puntata di Auto for Dummies, citeremo solo brevemente questo altro esperimento De Tomaso. Dopo la gestione inglese di Innocenti da parte di Leyland volgeva ad un catastrofico finale. La British Leyland, infatti, finì in amministrazione controllata in Inghilterra nel 1975, salvata solo con la nazionalizzazione dell’azienda. Questo significava liquidare in fretta la Innocenti, che rimase di colpo senza guida.

Nel 1976, dopo grandi discussioni e alterchi tra Governo, sindacati e operai, Innocenti passa nelle mani di GEPI e De Tomaso. Qui, de Tomaso ha un’intuizione. Innocenti abbandonò le auto prodotte su licenza inglesi come la Regent (copia della Allegro) e la MINI originale, puntando sulla sola Innocenti Nuova MINI. Questa, realizzata sul pianale della MINI inglese ma completamente rinnovata in quanto a estetica e interni da Bertone, fu la base di partenza per la nuova Innocenti.

Dopo aver iniziato a costruire di nuovo la MINI con meccanica inglese, de Tomaso siglò un accordo con la giapponese Daihatsu. All’epoca, infatti, le Case giapponesi non erano ancora diffuse e famose in Europa, ma il loro livello di tecnologia e affidabilità era già eccellente. Dal 1982, le sospensioni furono completamente riviste con tecnologia italiana, e i motori adottati furono dei 2 e 3 cilindri Daihatsu. Piccolissimi, con cilindrate da 400 a 993 cm3, i motori giapponesi erano parchi e affidabilissimi.

Ma ormai lo abbiamo capito: non sarebbe una vera opera di Alejandro senza un po’ di pazzia. E infatti, nacque presto la Innocenti MINI De Tomaso, la versione sportiva della piccola MINI Innocenti. Dotata dei loghi della Casa italo-argentina un po’ ovunque, la MINI De Tomaso era una vera piccola peste. Dotata prima del 1275 inglese da 75 CV e poi del mitico 1.0 tre cilindri Turbo da 71 CV montato sulla MINI De Tomaso Turbo, le piccole pepate italo-argentine erano davvero uniche e particolari. La piccola De Tomaso Turbo aveva anche un incredibile primato: fu l’auto di serie con il motore turbo più piccolo del mondo.

Dal 1993 alla morte di Alejandro alla vigilia del SUV russo con UAZ: l’inizio del declino

Il 1993 fu un anno fondamentale per la storia di De Tomaso e del fondatore Alejandro. La Pantera cessò la produzione, e Innocenti e Maserati furono cedute a FIAT, che poi puntò sulla prima e mandò nel dimenticatoio la seconda. FIAT cominciò a entrare in Maserati e Innocenti nel 1990, acquisendo il 49% delle due aziende, ma solo 4 anni dopo acquisì le due Case. Anche Benelli e Moto Guzzi passarono di mano, lasciando il Gruppo De Tomaso con la sola Casa modenese in mano. Perchè questa razionalizzazione? Semplice: il 23 gennaio 1993 Alejandro de Tomaso, nella sua camera nell’Hotel Canalgrande, fu colpito da un’ischemia cerebrale.

Costretto su una sedia a rotelle, nonostante i problemi de Tomaso non abbandonò mai la sua creatura. Proprio nel 1993 venne lanciata l’ultima De Tomaso, la Guarà. Dotata di un moderno 4.0 V8 BMW, la Guarà era un’auto all’avanguardia, sportiva e raffinata, ma andò in contro a pochissimo successo, con circa 50 esemplari prodotti. De Tomaso provò anche a tornare indietro nel tempo montando un ben 4.6 V8 Ford, ma il successo fu limitatissimo.

De Tomaso però era pronto a tornare, più forte di prima. All’inizio del 2000, infatti, Alejandro notò come nessuno in Italia stesse producendo dei fuoristrada lussuosi, i SUV che cominciavano ad andare di moda. L’italo-argentino così decise di accordarsi con UAZ, la mitica Casa russa, per costruire il primo SUV italiano sulla base del UAZ Simbir. Dotato di trazione 4×4 e motori diesel IVECO, nel 2002 De Tomaso siglò l’accordo insieme al Presidente della Repubblica Silvio Berlusconi e il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin.

Era ormai tutto pronto, anche la fabbrica per la produzione a Cutro, in Calabria. Il fato però ha deciso diversamente: il 21 maggio 2003 si spense, all’età di 75 anni nella sua Modena, Alejandro de Tomaso. L’azienda poi passò sotto il controllo del figlio Santiago e della moglie, Isabelle Heskell, ma ebbe vita breve. Nel 2004, l’azienda andò in liquidazione, lasciando vuoto anche lo stabilimento di Modena, che solo nel 2020 è stato abbattuto e riqualificato.

Il rilancio e il definitivo fallimento: oggi di De Tomaso resta solo lo stabilimento abbandonato a Torino. E in America?

Una piccola speranza arrivò nel 2009, quando l’imprenditore piemontese Gian Mario Rossignolo si assicurò i diritti del marchio De Tomaso. Il progetto era ambizioso: il ritorno della De Tomaso era affidato ad una berlina di lusso, la Deauville, presentata al Salone di Monaco Top Marques nel 2011. La nuova De Tomaso si stabilì nella fabbrica ex-Pininfarina di Grugliasco, alle porte di Torino, e si mostrò decisa anche a rilevare lo stabilimento FIAT di Termini Imerese, in provincia di Palermo.

La nuova Casa costruì anche un altro stabilimento a Guasticce, in provincia di Livorno, e a Ginevra presentò l‘SLC, Sport Luxury Crossover, il SUV tanto desiderato da Alejandro. Tutto sembrava procedere a gonfie vele, ma poi, il botto. Dopo alcuni ritardi nell’inizio della produzione, Rossignolo dichiarò all’inizio del 2012 di aver ceduto il marchio De Tomaso ad un’azienda cinese, e a metà 2012 Rossignolo dichiarò bancarotta.

Gian Mario Rossignolo e il figlio Gianluca sono stati poi condannati nel 2019 dal Tribunale di Torino per bancarotta fraudolenta, ma da quel 2012 di De Tomaso non è più rimasto nulla, solo lo stabilimento abbandonato di Via Battista Pininfarina a Grugliasco… fino a pochi mesi fa. La speranza infatti è rinata nel 2020, con il lancio della De Tomaso P72, vettura realizzata dalla nuova Casa italo-argentina.

Il brand infatti è passato di mano nel 2019 ed è ora controllato dalla società di Hong Kong Ideal Team Ventures, la stessa che comprò la fallimentare Gumpert. Basata sulla Apollo Intensa Emozione, la P72 è una Gran Turismo dotata di un’estetica pazzesca e di un telaio monoscocca in fibra di carbonio. Il motore? Non può che essere un Ford 5.0 V8 della famiglia Coyote con compressore volumetrico, capace di 720 CV e 820 Nm di coppia. La produzione sarà di soli 72 esemplari, e l’assemblaggio avverrà in America, dove ora la nuova De Tomaso avrà sede.

Quale sarà la prossima protagonista di questo viaggio nell’automobile italiana?

Si tratta quindi di un vero ritorno al passato per la De Tomaso, che dopo aver trovato la sua maggior fortuna negli Stati Uniti ci ritorna, per ritrovare se stessa e il suo futuro. Grazie al suo istrionico fondatore, a vetture incredibili e ad una storia burrascosa ed emozionante, De Tomaso è uno dei marchi italiani più particolari e sconosciuti degli ultimi anni. Al contrario di Autobianchi e della prossima protagonista, la Casa italo-argentina potrebbe risorgere, e portare al mondo modelli nuovi e incredibili.

Curiosi di vedere cos’ha in serbo il destino per De Tomaso? Non possiamo fare altro che aspettare e vedere. Per quanto riguarda il nostro viaggio nel passato, l’appuntamento è di nuovo per venerdì prossimo quando conosceremo un’altra Casa italiana storica. Quale sarà? Lo avete già capito? Avete qualche suggerimento per le prossime puntate? Fateci sapere tutto qui sotto nei commenti: è il vostro momento. Per ora vi saluto e vi do appuntamento a venerdì prossimo, per una nuova puntata di Auto for Dummies. Dove? Ma sempre qui, su techprincess. Ciaoo!

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Giulio Verdiraimo

Ho 22 anni, studio Ingegneria e sono malato di auto. Di ogni tipo, forma, dimensione. Basta che abbia quattro ruote e riesce ad emozionarmi, meglio se analogiche! Al contempo, amo molto la tecnologia, la musica rock e i viaggi, soprattutto culinari!

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