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The Social Dilemma: se non paghi il prodotto, il prodotto sei tu

Il documentario Netflix di Jeff Orlowski ci avverte dei rischi che corriamo sui social

Un’infinita possibilità di connessione e uno sconfinato accesso all’informazione ci rendono soggetti liberi? Quest’interrogativo è il punto di partenza della ricerca di Byung-Chul Han, filosofo e autore di saggi sulla globalizzazione e sui cambiamenti della società attraverso la digitalizzazione, ed è il punto di arrivo di un nuovo progetto documentaristico targato Netflix, The Social Dilemma, diretto da Jeff Orlowski. Quello che questo documentario prova ad analizzare è come il nostro cervello viene manipolato. Nello specifico, la manipolazione avviene tramite algoritmi progettati per attirare la nostra attenzione e innestarci idee distorte sul mondo e su noi stessi. I social network, nella narrazione di The Social Dilemma, non sono spazi di comunicazione, non sono mezzi espressivi; sono centri di rieducazione, scatole chiuse in cui viene proposto il riflesso di ciò che già si pensa. Sono rassicuranti, narcotici. In questo senso non producono complessità, ma costringono alla mediocrità. 

Partiamo dal presupposto che i social network non sono il male assoluto. Il motto aziendale di Google, non a caso, è stato Don’t be evil, ovvero non essere cattivo. Una scelta narrativa dell’azienda statunitense per forgiare eticamente il proprio lavoro e rispettare i dati degli utenti attraverso un codice di condotta piuttosto integerrimo. Il problema, il dilemma per l’appunto, nasce da una precisa dicotomia antropologica – e di conseguenza tecnologica – che si dipana all’interno di questi mondi virtuali.

The Social Dilemma: Don’t be evil

Il mezzo (digitale) ha un enorme potenziale emancipativo. Sui social network non ci sono (grossi) divieti e nessuno ci obbliga al silenzio, anzi tutto il contrario. Il mezzo stesso ci invita invece a comunicare, a esprimere opinioni, a raccontare la nostra vita, continuamente. Quindi da un lato gli utenti sono partecipi (non proprietari) di uno spazio narrativo in esplorazione, personale e collettivo (non privato), che è inevitabilmente seducente, un luogo che si abita relativamente da poco ma che è diventato fin a subito familiare, vicino.

L’altro aspetto dicotomico è la condivisione, spontanea e incosciente, delle proprie informazioni, dei dati, che sono profilati, analizzati, studiati, mercificati. Secondo il sociologo Evgeny Morozov, e autore del saggio L’ingenuità della rete,  ogni volta che condividiamo dati personali su un social network aumentiamo la probabilità che qualcuno possa usarli per scoprire chi siamo. E sapere chi siamo è un passo nella direzione del controllo delle nostre azioni. Molte delle funzioni che rendono i social network così facili da usare rendono più facile rintracciare le identità che stanno dietro gli indirizzi e-mail. O addirittura ricostruire le attività degli utenti su vari altri siti.

L’utente è succube di un meccanismo da cui è costantemente stimolato e che ha il solo scopo di trattenerlo in un un gioco di ruolo: se non si conoscono le regole non si è mai un giocatore, ma un giocato. Come accade in Matrix, l’essere umano subisce una trasformazione, diventando un accumulatore di dissuasioni. L’uomo si trasforma in una pila, una fonte di energia da adoperare per gli scopi più diversificati.

Il documentario Netflix di Jeff Orlowski

The Social DilemmaJaron Lanier, informatico e saggista, autore del libro “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”, all’interno di The Social Dilemma tenta di analizzare come gli algoritmi dei social media siano adattivi, che significa che apportano continuamente piccoli cambiamenti per cercare di ottenere risultati migliori. Un algoritmo non è altro che un sistema di calcolo, un procedimento schematico per risolvere problemi, che spesso non viene adoperato per il nostro benessere: per esempio, un algoritmo può essere costruito per seguire le abitudini delle persone, studiare un meccanismo che sta dietro un movimento o un’azione. In questo caso il potenziale dell’algoritmo è al servizio della previsione dei movimenti online delle persone. L’algoritmo li studia, li analizza e quindi può teoricamente direzionarne un comportamento. 

Essere adattivi significa, secondo Lanier, che gli algoritmi sono più ingaggianti e quindi più redditizi. I primi a sfruttare online questa intersezione, tra matematica e cervello umano, sono gli inventori delle macchine digitali e automatiche. Come quelle usate per i giochi d’azzardo, come le slot machine, il videopoker e i siti per il gioco online. Questa evidenza veicola, in maniera molto chiara, come i social network siano simili al tiro di una slot machine, aggiornare il feed è come giocare d’azzardo, come ne Il Giocatore di Dostoevskij, il tempo è annichilito dal gioco e il gioco è indeterminato.

Ridisegnare un nuovo sistema digitale

Non è un caso che l’assuefazione e la gratificazione siano parte essenziale e preponderante dell’esperienza online. Sean Parker, inventore di Napster e fra i primi collaboratori di Mark Zuckerberg, ha affermato: «C’era bisogno di dare una piccola dose di dopamina ogni tanto, per esempio se qualcuno metteva un like alla tua foto o al tuo post. È un loop di feedback e validazione sociale esattamente quello che un hacker come me cerca, perché si sta sfruttando una vulnerabilità della psicologia umana. E noi, gli inventori, i creatori di questa cosa – cioè io, Mark (Zuckerberg), e Kevin Systrom su Instagram, insomma tutti noi – lo comprendevamo pienamente. E l’abbiamo fatto lo stesso».

La dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto nel senso del piacere ed è ritenuto centrale nel meccanismo che crea una modifica del comportamento in risposta all’ottenimento di ricompense, afferma Lanier. Ogni clic, ogni scorrimento, ogni like, vengono osservati, letti, interpretati, confrontati con quelli di altre persone, e reintrodotti in un sistema progettato per tenere connessi gli utenti il più tempo possibile. Le parole di Edward Tufte, statistico statunitense, sono molto esemplificative: «Ci sono solo due industrie che chiamano ‘users’ i loro clienti: il mercato delle droghe illegali e quello dei software».

The Social Dilemma e i rischi che corriamo sui social

The Social DilemmaIl documentario di Jeff Orlowski tenta di realizzare un discorso quantomeno sensazionalista possibile e di produrre delle domande, di dar spazio ad un dibattito. Quale può essere la soluzione a queste evidenze? Può esistere un modo di rimanere autonomi e autodeterminati in una realtà dove si è sorvegliati, sollecitati e manipolati? O la soluzione è, inevitabilmente, cancellare tutti gli account e abbandonare i social network, come asserisce lo scrittore statunitense? Quel che Lanier sentenzia è che la soluzione, alternativa alla cancellazione, è quella di trovare nuovi modi per interagire con questi strumenti, ridimensionarli, imparare a usarli di meno e in modo più consapevole, sensibilizzare e creare coscienza, obbligando così le imprese virtuali e le social media company a ridisegnare un nuovo sistema digitale, che veda l’etica applicata seriamente al marketing. 

Per esempio, secondo lo scrittore, l’idea di pagare un canone mensile per usare i social può essere una valida alternativa. Come accade per le piattaforme streaming, come Netflix, anche le social media company potrebbero essere spesate direttamente dagli utenti. Sarebbe sicuramente più appropriato rispetto ad oggi che invece sono sostenute da terze parti ignote. A quelle condizioni saranno a servizio non più di aziende esterne ma degli utenti. Forse la direzione più giusta non è abbandonare i social ma imparare a starci in un altro modo, ripensare a un nuovo modo di stare insieme, trovare un nuovo modo di stare online, essere pionieri di un territorio virtuale che abbiamo cominciato ad abitare da poco.

La nostra idea, come sito d’informazione tecnologica, nato per divulgare ma soprattutto capire la tecnologia nella sua dimensione quotidiana, è che i social network devono attraversare un processo di comprensione. La fattualità ci porta a osservare quanto moltissime persone, ancora oggi, non ne comprendano i limiti, né la struttura, né i meccanismi che sottendono. Manca un’istruzione digitale di base che porti a considerare i social come spazi narrativi potentissimi, e non solo come luoghi di indottrinamento e di brainwashing. L’autonomia, la capacità di pensiero autodeterminato e la preparazione essenziale delle logiche virtuali possono condurre verso un uso più consapevole dei social network.

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Lucia Tedesco

Giornalista, femminista, critica cinematografica e soprattutto direttrice di TechPrincess, con passione ed entusiasmo. È la storia, non chi la racconta.

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Un commento

  1. Negli ultimi mesi ho cancellato il mio abbonamento a Netflix e il mio account Twitter, credo che questo ultimo periodo di fanta-pandemia abbia accelerato un processo di consapevolezza, che seppur in divenire, sarebbe stato molto più lento.

    Se non dovessi lavorare su Instagram e Fb li avrei già abbandonati da tempo. Una cosa è sicura, mia figlia avrà un’educazione alternativa, a costo di sfidare l’accettazione sociale, anch’essa frutto di manipolazione.

    Citazione ottima quella di Edward Tufte, approfondirò.

    Elisa

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