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Iran: riconoscimento facciale per intercettare le donne che non portano il velo

Lo strumento usato per la repressione delle dissidenti

Inevitabilmente, il riconoscimento facciale è uno dei più discussi approdi della tecnologia.

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Si colloca infatti, per la sua stessa natura, in quel sottilissimo crinale tra lecito e illecito. Potrebbe certamente avere utilizzi virtuosi, e snellirebbe una serie di operazioni. Ma va da sé che si tratta di uno strumento che in un certo senso è fin troppo facile da adoperare in modo perverso e illegale. Identificando, schedando e poi procedendo ad azioni per controllare, quando non per reprimere.

L’esempio dell’Unione Europea

Inutile dire che un uso capillare del riconoscimento facciale aprirebbe a scenari di ispirazione orwelliana.

L’Unione europea, ad esempio, in questo senso ha preparato una proposta di legge per istituire un piano di cooperazione tra le varie polizie dei Paesi membri. Che, per identificare chi abbia commesso un reato, potranno accedere agli archivi antropometrici degli altri Paesi dell’Unione.

Si tratterebbe di un sistema automatizzato di intelligenza artificiale che ha già ricevuto durissime proteste da parte di associazioni che difendono la privacy dei cittadini. Tra i punti contestati, la mancata chiarezza sulle tipologie di reato per cui si renderebbe necessario lo scambio dei dati antropometrici tra le varie nazioni.

Ma il rischio sottinteso è che si crei una vastissima rete di videosorveglianza, con dubbi sia sulle modalità di archiviazione dei dati sia sull’utilizzo che si potrebbe fare dello strumento.

riconoscimento facciale privacy

Il riconoscimento facciale in Iran

E questo sta capitando in Europa, dove tutto sommato le più elementari libertà sono (o dovrebbero essere) garantite a tutti i cittadini.

Qualcosa di molto più grave sta accadendo in Iran, dove il riconoscimento facciale viene utilizzato per intercettare le donne che contravvengono alle leggi sull’hijab. Insomma: la videosorveglianza è uno strumento per reprimere le donne, manifestanti o meno, che scelgono di non indossare il velo.

Ne aveva già parlato lo scorso settembre Mohammad-Saleh Hashemi-Golpayegani, niente meno che Segretario del Dipartimento iraniano per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio. Hashemi-Golpayegani aveva detto che “la tecnologia ora ci consente di abbinare le immagini alle foto sulle carte d’identità nazionali, permettendo di identificare movimenti inappropriati e insoliti, tra cui la mancata osservanza delle leggi sull’hijab.”

Il sospetto degli attivisti è che nelle ultime settimane questo strumento repressivo sia utilizzato in modo sempre più indiscriminato.

Le leggi sull’hijab

L’hijab, il velo islamico che copre il volto delle donne, è obbligatorio dal 1979. Le sanzioni per chi trasgredisce sono pesanti, e se reiterate possono portare a lunghi periodi di detenzione in carcere.

A capo della rigida teocrazia iraniana è la Guida Suprema (la massima carica religiosa del Paese) Ali Khamenei. E il decreto firmato dal presidente Ebrahim Raisi il 15 agosto scorso ha reso ancor più stringenti le regole. È ad esempio sufficiente pubblicare in Rete una foto senza hijab per venire deprivati di alcuni diritti per un periodo tra i sei mesi e un anno.

Ricordiamo le clamorose proteste a seguito dell’uccisione, avvenuta il 16 settembre 2021, di Mahsa Amini, ventiduenne rea di non avere indossato in modo corretto lo hijab.

Nelle manifestazioni che si sono susseguite, si sono contati qualcosa come circa 19.000 arresti e poco meno di 500 morti.

Secondo gli attivisti il sistema di sorveglianza digitale è nato in Iran nel 2015. E il governo controlla i social. Social che, durante le proteste dopo la morte di Mahsa Amini, sono stati momentaneamente oscurati.

Il caso della Russia

Non solo in Iran il riconoscimento facciale è adoperato per reprimere il dissenso.

Come abbiamo scritto in un altro articolo, in Russia c’è un fittissimo sistema di videosorveglianza, che nella sola Mosca conta oltre 175.000 videocamere. Nato allo scopo ufficiale di snellire l’accesso alla metropolitana della capitale, è ormai utilizzato per identificare gli oppositori del regime di Mosca.

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Limiti etici e tecnologici

Al di là del sacrosanto dibattito sui limiti etici del riconoscimento facciale, un ulteriore discorso da non sottovalutare è quello sui limiti tecnologici dello strumento.

Quale il suo grado di affidabilità? Nullo, se dovessimo chiederlo a Randall Reid, ventottenne che lo scorso novembre è stato arrestato in Georgia dopo essere stato individuato da un software di riconoscimento facciale.

L’accusa è stata quella di aver rubato a New Orleans borse di Chanel e Louis Vuitton per un valore di 10.000 dollari.

Peccato che si sia trattato di un errore del software biometrico, e che l’uomo non abbia mai messo piede nei luoghi del reato.

Con un problema in più: Randall Reid è nero, e i software di riconoscimento facciale commettono errori soprattutto verso i gruppi sociali più vulnerabili o emarginati.

E così, ecco che limiti tecnologici ed etici combaciano.

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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