«Mi sembrava di avere le idee così chiare. Volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere. Mi pareva di avere qualcosa di così semplice, così semplice da dire, un film che potesse essere utile un po’ a tutti, che aiutasse a seppellire per sempre tutto quello che di morto ci portiamo dentro. E invece io sono il primo a non avere il coraggio di seppellire proprio niente». È proprio Guido Anselmi, palese alter ego dello stesso Federico Fellini, a esplicitare in un dialogo chiave di 8½ la genesi e l’intento di uno dei lavori più conosciuti e apprezzati del regista riminese, nonché memorabile e sincera riflessione sull’atto creativo.
Un’opera che si apre con un incubo nel quale il protagonista è letteralmente soffocato da un traffico opprimente e angosciante, che più di 50 anni dopo ha ispirato l’incipit di La La Land di Damien Chazelle, a cui abbiamo dedicato il precedente appuntamento con la nostra rubrica cinematografica Il filo nascosto. Il rumore dei clacson, il chiassoso vociare delle persone ammassate negli autobus e gli sguardi smarriti e in certi casi giudicanti puntati su Guido diventano per il protagonista una spinta a librarsi letteralmente in aria, salvo poi essere nuovamente riacciuffato e riportato a terra attraverso un improvvisato lazo. Una metafora perfetta dell’artista e in particolare del regista, costantemente in bilico fra la propria ispirazione e i continui richiami ai doveri e alla praticità.
8½: la danza della vita nella sincera e disarmante autoanalisi di Federico Fellini
Ci troviamo nel 1963. Guido Anselmi è un affermato regista quarantatreenne (proprio come Fellini all’epoca) che si trova nella situazione più scomoda per un cineasta di successo: deve portare avanti il suo nuovo film, ma non ha letteralmente idea di quale film fare. Guido ha tante idee e diverse suggestioni che arrivano dalla sua infanzia e dalla sua passione per le donne, ma l’idea portante su cui imperniare il suo prossimo lavoro è svanita nel nulla, ammesso che ci sia mai stata. Un vero e proprio blocco creativo che va di pari passo con la profonda crisi esistenziale dello stesso regista, che nonostante l’ancora giovane età si dedica già ai bilanci. Bilanci su una carriera all’apice, e perciò mai così vicina a una fragorosa caduta, ma soprattutto bilanci su un’esistenza fatta di bugie, inaffidabilità, fantasie e un passato da cui è impossibile separarsi.
Il travaglio di Guido è indistinguibile da quello dello stesso Fellini, che si approccia a 8½ dopo aver diretto sei film interi e tre in collaborazione con altri autori. Il suo ottavo film e mezzo è però ben lontano dalla realizzazione, come quello di Guido. Con l’amico Ennio Flaiano, Fellini parla di un vago progetto in cui mescolare idee, ricordi e sogni, ma l’autore lo invita a desistere: com’è possibile tradurre in film la fantasiosa mente di un uomo?
Proprio quando Fellini è sul punto di ammettere che l’idea che aveva in testa è ormai irrimediabilmente svanita, viene chiamato da un capo macchina di Cinecittà, che lo invita a una festa di compleanno improvvisata su un set. Un momento simile a quello dell’epifania finale di Guido in 8½, che per Fellini diventa la scintilla creativa per il suo sospirato progetto: un film su un regista che non sa più che film realizzare.
8½: Fellini e le donne
«Beh? Che ci prepara di bello, un altro film senza speranza?», si sente chiedere Guido al risveglio dal suo incubo. Di speranza ce n’era in effetti poca nello struggente finale de La dolce vita, il precedente film di Fellini che si concludeva con un emblematico addio del protagonista alla purezza giovanile e con uno scambio di sguardi all’insegna della malinconia e dell’incomunicabilità. In 8½, Fellini dialoga proprio con quello straordinario epilogo: il Maestro compie infatti un passo indietro, allontanandosi dalla menzognera vita mondana romana per abbracciare un racconto più intimo, in cui ricordi, ossessioni, fantasie e miserie umane si fondono in un continuo flusso di coscienza, popolato da personaggi sghembi e bizzarri, capaci di rappresentare diverse sfaccettature dell’umanità.
Nonostante le suggestioni di Laurence Olivier e Charlie Chaplin, a portare avanti questa riflessione non poteva che essere Marcello Mastroianni, che per l’occasione si trasforma letteralmente in Fellini, compiendo un formidabile lavoro di immedesimazione (riscontrabile nei gesti, nelle movenze e nell’inflessione della voce) affiancato dalla sua caratteristica capacità di introspezione, fondamentale per un racconto interamente basato sui pensieri, sui desideri e sulle paure del protagonista.
Accanto a lui, attrici formidabili come Anouk Aimée, nei panni della delusa e sconfortata moglie di Guido, Claudia Cardinale nel ruolo di una sua eterea omonima, simbolo per eccellenza della purezza, Sandra Milo che interpreta l’amante Carla (personaggio dai chiari spunti autobiografici), l’icona dell’horror italiano Barbara Steele (impegnata in un ballo che anni più tardi ispirerà Quentin Tarantino per quello fra John Travolta e Uma Thurman in Pulp Fiction) e Rossella Falk nella parte della disillusa e rassegnata sorella di Guido.
Un’opera funerea e decadente
Anticipando i temi de La città delle donne (dove non a caso il protagonista è di nuovo Marcello Mastroianni nella parte di Snàporaz, soprannome attribuito a Guido in 8½), Fellini si circonda di presenze femminili, tratteggiando senza alcun tipo di filtro la sua irreprimibile attrazione per l’altro sesso. In una sequenza che oggi si attirerebbe numerose critiche, il regista immagina addirittura un vero e proprio harem, all’interno del quale convivono ballerine, amanti vere o immaginate, le educatrici che lo coccolavano da bambino e la moglie Luisa (modellata ovviamente sulle sembianze e sul carattere di Giulietta Masina dalla strepitosa Anouk Aimée), che nei sogni di Guido accetta rassegnata la sua atavica infedeltà. Fellini si spinge oltre, aggiungendo una regola ferrea nell’harem del protagonista, che stabilisce che al superamento di una specifica età le ospiti della struttura salgano al piano superiore, continuando così a vivere di soli ricordi.
Una sincerità ai limiti della sfrontatezza, una fanciullezza di spirito e di sguardo disarmante, che abbraccia tante altre sfumature della vita di Guido e di Fellini. Nell’inesauribile andirivieni di emozioni alla base di 8½, emerge infatti anche l’educazione cattolica e repressiva ricevuta da Fellini, sintetizzata dal segmento con protagonista la Saraghina: prostituta che, dietro un compenso in saraghi, si cimenta in danze sensuali per la gioia dei ragazzi del posto, portando però il piccolo Guido a una severa punizione, con tanto di gogna pubblica scolastica. Ma c’è spazio anche per una visita al cimitero, dove il protagonista fa i conti col passato e coi propri genitori, utilizzando il mondo della fantasia per dire parole mai dette e per trovare un inaspettato punto di incontro fra vita e morte. Uno dei momenti più cupi di un’opera funerea, che fino alla celebrazione finale della vita è attraversata da un’atmosfera lugubre e decadente.
8½: l’intellettuale e Fellini
Fra riflessioni sulla fede («Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?», dice il Cardinale) e sulla politica («In fondo cosa vuol dire destra? Cosa vuol dire sinistra? Lei è talmente ottimista da credere che in questo mondo confuso e caotico ci sia della gente dalle idee così chiare da tenersi tutto a destra o tutto a sinistra»), Fellini trova spazio per un cinico e a tratti detestabile grillo parlante, ovvero l’indimenticabile intellettuale Carini (Jean Rougeul), che accompagna il tormento artistico e interiore di Guido rappresentando la critica più bieca e disfattista. Un personaggio respingente ed evidentemente inviso allo stesso Fellini (in una fantasia di Guido finisce impiccato in una sala cinematografica), a cui il regista mette però in bocca alcune delle riflessioni più illuminanti di 8½, nonché le critiche più frequenti al suo cinema.
«E le capricciose apparizioni di questa ragazza della fonte cosa vorrebbero significare? Un’offerta di purezza, di calore al suo protagonista? Di tutti i simboli che abbondano nella sua storia, questo è il peggiore», dice l’intellettuale a proposito della ragazza della fonte interpretata da Claudia Cardinale, ribadendo poi il concetto con «No, se lei vuole davvero fare qualcosa di polemico sulla coscienza cattolica in Italia, ebbene, caro amico, in questo caso, mi creda, è assolutamente necessario anzitutto un livello culturale molto più elevato e poi una logica di una lucidità inesorabile. Mi perdoni ma la sua tenera ignoranza è del tutto negativa. I suoi piccoli ricordi bagnati di nostalgia, le sue vocazioni inoffensive e in fondo emotive, sono le azioni di un complice».
“Non ho proprio niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso”
Le accuse che l’intellettuale rivolge a Guido non sono solamente stilettate a parte della critica dell’epoca, ma rientrano in un discorso più ampio, con cui Fellini mette letteralmente alla berlina se stesso, in una delle più schiette e sentite autocritiche mai viste sul grande schermo. «Mi fa impazzire! Parla come se dicesse la verità, fa l’onesto. Ma guardalo, ha ragione lui! Ma come fai a vivere in questo modo? Non è mica giusto mentire sempre così, non far capire mai agli altri ciò che è vero e ciò che è falso. Possibile che è tutto uguale per te? Tutto?», gli urla la tradita Luisa, a cui fa eco la sorella Rossella: «Ma sono proprio quei tipi lì che hanno più facilità ad essere buone compagne di uomini deboli, abulici, senza chiarezza…».
Con 8½, Fellini dialoga con il suo inconscio, mettendo in scena una sorta di liberatoria seduta di autoanalisi, ricca di ombre ma anche di dirompenti slanci vitali. È lo stesso Guido a ribadire la legittimità dell’ispirazione artistica libera da compromessi narrativi o contenutistici («A che punto avrò sbagliato strada? Non ho proprio niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso»), il suo dolceamaro approccio alla vita («Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita da capo? Di scegliere una cosa, una cosa sola e di essere fedele a quella?», e ancora: «Questo vuole prendere tutto, arraffare tutto, non sa rinunciare a niente; cambia strada ogni giorno perché ha paura di perdere quella giusta e sta morendo, come dissanguato») e la sua personale concezione di felicità («Mie care, la felicità consiste nel poter dire la verità senza far mai soffrire nessuno»).
8½: non solo Fellini
Per dare vita a questa prodigiosa e ambiziosa opera, Fellini ricorre a una formidabile squadra di sceneggiatori (Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi), alle suggestive musiche di Nino Rota (dominanti soprattutto nel finale), alla scenografia e ai costumi di Piero Gherardi (premiati con l’Oscar), alla fotografia di Gianni Di Venanzo (autore di un bianco e nero a tratti abbagliante, volto a esaltare ancora di più alcune sequenze oniriche) e soprattutto al suo estro visivo e narrativo, che gli permette di trasformare in un racconto unitario e coerente l’assoluta incoerenza che alberga nelle mente di Guido/Federico, nonché di trasmettere tutta la potenza umana e artistica del percorso di rinascita interiore del protagonista. Un cammino che passa inevitabilmente per Claudia e, di riflesso, dalla purezza da lei rappresentata.
«Della storia che mi hai raccontato non ho capito quasi niente. Ma scusa, un tipo così, come tu l’hai descritto, che non vuol bene a nessuno, non fa mica tanta pena sai? In fondo è colpa sua. Che cosa pretende dagli altri?», dice lei, aggiungendo: «Io non capisco: incontra una ragazza che lo può far rinascere, che gli ridà vita e lui la rifiuta?». Guido si rifugia ancora una volta nella menzogna (“Perché non ci crede più“, “Perché non è vero che una donna possa cambiare un uomo“, “Perché soprattutto non mi va di raccontare un’altra storia bugiarda“, dice di volta in volta, sentendosi immancabilmente rispondere “Perché non sa voler bene“), per poi prendere atto dello stato reale delle cose («Non c’è la parte nel film. Non c’è neanche il film. Non c’è niente di niente da nessuna parte»).
Siamo la somma delle nostre esperienze
In un crescendo di emozioni e sofferenza, saliamo insieme a Guido al patibolo, che per un artista non può che essere la presa di coscienza del fallimento, simboleggiata in questo caso dall’armatura su cui si sarebbe dovuta costruire l’astronave simbolo di un film che non verrà mai realizzato, scheletro della defunta ispirazione del protagonista. A Guido non resta che la fuga, ancora una volta immaginata, da una conferenza stampa mortificante, piena di umiliazioni e di domande senza risposta, a cui segue la fantasia di un suicidio, simbolo di una vita e di una carriera al capolinea.
Mentre gli addetti ai lavori cominciano a smontare il set, Guido ha il confronto definitivo e decisivo con l’intellettuale, che senza giri di parole gli dice «Lei vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo sciancato si lascia dietro la sua impronta deforme? Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori. E a lei che cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vaghi ricordi, o i volti delle persone che non ha saputo amare mai?».
Toccato il fondo, Guido si rende conto di un concetto che ha sempre saputo, e che tocca tutti noi: nel bene e nel male, siamo la somma delle nostre esperienze, delle persone con cui le abbiamo vissute e dei sogni e della passione che abbiamo profuso in quella folle e bizzarra danza che è la vita. Guido non ha più bisogno né di risposte né di ispirazione, perché tutto ciò che gli serve è stato sempre davanti ai suoi occhi.
Un’onesta ammissione di colpa
«Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo… Com’è giusto accettarvi, amarvi… e com’è semplice. Luisa, mi sento come liberato: tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire. Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso, ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere, e non mi fa più paura.
Dire la verità: quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. È una festa la vita, viviamola insieme. Non so dirti altro Luisa, né a te né agli altri. Accettami così come sono se puoi, è l’unico modo per tentare di trovarci».
La più onesta e disarmante ammissione di colpa possibile, la resa della logica e della coerenza a un fantasioso realismo, che non è altro che la nostra vita. Nella stessa atmosfera circense che l’ha cresciuto e ispirato, Fellini conclude il suo manifesto artistico con un gioioso girotondo collettivo, unica beffarda risposta possibile al caos della nostra esistenza.
Io l’ho capito, sai, cosa vuoi dire: vuoi dire che non puoi fare a meno di noi.
Il filo nascosto nasce con l’intento di ripercorrere la storia del cinema nel modo più libero e semplice possibile. Ogni settimana un film diverso di qualsiasi genere, epoca e nazionalità, collegato al precedente da un dettaglio. Tematiche, anno di distribuzione, regista, protagonista, ambientazione: l’unico limite è la fantasia, il faro che ci guida è l’amore per il cinema. I film si parlano, noi ascoltiamo i loro dialoghi.
Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API