Site icon Techprincess

Il down dei social e lo psicodramma globale

Il down dei social e lo psicodramma globale thumbnail

facebook down panico

Non dite che non ve ne siete accorti, perché sareste i soli al mondo. Nella sera di lunedì 4 ottobre, precisamente dalle 17.40 e sino all’incirca all’una di notte (ore italiane), Facebook, Instagram e Whatsapp sono diventati inaccessibili in tutto il mondo.

Non ci soffermeremo oggi sui motivi di quanto accaduto, per i quali abbiamo già redatto diversi articoli. Né sulle conseguenze del down di Facebook e degli altri social di Zuckerberg. Che, ricordiamolo al volo, hanno causato un crollo delle azioni e una perdita di qualcosa come 6 miliardi di dollari. Si tratta del più grave problema dal 2019, quando la piattaforma era rimasta inaccessibile per oltre 24 ore.

Oggi parleremo di noi. Sì, del contraccolpo che il down di Facebook ha causato non ai dipendenti dell’azienda di Menlo Park, ai programmatori o a chi trae un qualche profitto dai social media. Ma agli utenti medi, che adoperano i social quasi esclusivamente per motivi di svago.

Confessiamocelo a bassa voce: ci sono successe due cose. Siamo entrati in panico, e subito dopo abbiamo provato una sensazione di imbarazzo per il nostro stesso disagio.

E così, disagiati al quadrato, siamo rimasti appiccicati ai motori di ricerca a carpire notizie sul ripristino dei social. Perché? Cosa ci è successo?

Un mito da sfatare: si stava meglio quando si stava offline

Prima, bisogna fornire un dato incontrovertibile. I social sono ormai entrati in modo radicale e irreversibile nelle nostre vite. Lo dimostra il fatto che, durante il down di Facebook, Whatsapp e Instagram, ben pochi di noi si sono messi a dipingere, raccogliere margherite o leggere le poesie di Eugenio Montale.

Gli utenti si sono semmai riversati in massa su Telegram e Twitter. Dove (e il dato psicologico non è da sottovalutare) si sono scatenati con sfottò e memi all’indirizzo delle piattaforme del gruppo Facebook. Alla faccia della solidarietà, verrebbe da dire: ci si è comportati come tanti naufraghi che riescono ad approdare sulla terraferma e spernacchiano chi ancora sta annaspando in alto mare.

Ma proprio chi ha affollato i social non toccati dal blackout ha dimostrato ancor più impietosamente come la nostra vita sia ormai legata a filo doppio a questi ambigui strumenti.

La parola all’esperto

A ciascuno è bastato l’esempio di se stesso, per capire come anche poche ore senza social ci abbiano fatto sentire monchi di un mezzo di comunicazione ed espressione che, se pure non lo riteniamo centrale nelle nostre vite, è come un file rouge che le attraversa in filigrana.

Tuttavia spetta agli esperti sistematizzare e dare una cornice teorica a ciò che noi abbiamo registrato come sensazione. Dice, per esempio, lo psicologo Giuseppe Iannone: “Quello che è successo ci ha restituito in misura fedele quanto i social siano diventati compagni quotidiani da cui fatichiamo a separarci, persino per poche ore”.

Anche alla luce della dipendenza dai social mostrata durante il down di Facebook, continua Iannone, si dovrebbe fare in modo che “parte della ricerca in psicologia si orienti verso questi nuovi fenomeni e che si avviino studi per investigare il ruolo che i social hanno sulla nostra psiche”.

Iannone indica poi alcune delle cause dell’abuso di Facebook, Instagram e WhatsApp: “Il primo motivo è per cercare di attivarsi e sconfiggere la noia. Il secondo invece è per rilassarsi. I social diventano così una sorta di ansiolitico digitale”.

La dipendenza dai social: non solo motivi psicologici

La nostra sovraesposizione ai social, di cui c’eravamo già ampiamente accorti durante i mesi del primo lockdown, ha certamente le concause psicologiche espresse da Giuseppe Iannone.

Ma esiste ormai una cospicua bibliografia che segnala come la Rete e i social media abbiano riscritto i paradigmi della socialità, della comunicazione e anche della fruizione del mondo (si pensi, ad esempio, alla possibilità sempre più ampia della fruizione virtuale dell’arte).

Guai a cadere nella trappola moralistica di istituire una classifica: era meglio prima, è meglio oggi.

Di certo, però, la sensazione provata da molti durante il down di Facebook – anche chi si riteneva esente da tale rischio – è stata quella di una dipendenza. Ossia di un’incapacità di far fronte a una mancanza.

Qui allora sì che bisognerebbe farsi qualche domanda: è davvero questo il modo di comunicare, e di ricevere informazioni dal mondo, che desidero?

Sempre Iannone vede i social come “una sorta di abbuffata bulimica di informazioni che spesso facciamo fatica a digerire e processiamo solo a livello superficiale”.

Facebook: l'inchiesta finale
  • Frenkel, Sheera (Autore)

Come uscirne?

Iannone parla poi dei social media come di “una specie di tv degli anni 2000 in cui più che attori siamo diventati spettatori. La proporzione tra tempo utilizzato per produrre contenuti (come postare foto o creare post) è decisamente inferiore al tempo che trascorriamo guardando foto e post di altre persone (che spesso neppure conosciamo).”

E allora, forse, lo stesso psicologo fornisce indirettamente una possibile via d’uscita. Che non è certo quella di demonizzare i social. Ma magari di pensarli come strumenti di fruizione passiva, accanto a cui è necessario – per continuare a rivestire il ruolo di cittadini attivi, a cui tutti noi siamo chiamati – affiancare movimenti da noi stessi verso il mondo e non viceversa.

Ma per farlo, arrendiamoci, dobbiamo spegnere i social. E scoprire cosa ci aspetta là fuori.

Exit mobile version