Il diritto di contare non è solo un film, ma un concetto chiave di tutta la pellicola. Non mi stancherò mai di ripeterlo: c’è davvero un gran bisogno di raccontare le storie del passato che hanno fatto emergere figure di persone normali, elevandole ad eroi. Eroi che di fatto non sono tali, ma dobbiamo renderli così, affinché possano ispirarci e guidarci oggi, in un mondo davvero disilluso e senza un percorso da seguire.
Il diritto di contare
Il film è basato sul romanzo di Margot Lee Shetterley, “The Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race”. Tutto è incentrato sulla storia delle tre protagoniste afro americane del reparto di calcolo nel campus aerospaziale della NASA, Langley.
Il talento, la capacità e il bisogno di riscatto sociale hanno posto le basi per rivoluzionare gli studi della NASA e vincere la corsa allo spazio contro l’Unione Sovietica, in un clima di guerra fredda. In questo scenario in realtà emergono ambizioni, rassegnazioni, delusioni e sogni non solo delle tre donne, ma di tutta la comunità afroamericana e della figura di donna in generale.
- Editore: HarperCollins Italia
- Autore: Margot Lee Shetterly , Cristina Ingiardi
- Collana: Tascabili
Il contesto storico
Anno 1961, Stati Uniti d’America. Tre donne afroamericane Kathrine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, sono madri, compagne, amiche e lavoratrici in carriera. Gli ingredienti che ci vengono presentati bastano già a descrivere una immane e quasi insormontabile difficoltà di vivere la propria vita. Ci troviamo in un contesto storico dove la questione razziale è un tema scottante. Martin Luther King è in piena attività, e la memoria di Rosa Parks e del suo gesto è ancora viva e fresca.
Oltre alla questione razziale, già di per se ostacolo oneroso, sono tre protagoniste femminili a guidarci nelle loro vicende, e oltretutto in carriera. Anche in questo caso il contesto storico è vincolante, la figura di donna in carriera, intelligente e brillante, non è affatto ben vista dall’opinione comune, anche all’interno della comunità afroamericana, relegando la donna ad una funzione di allevatrice.
La trama
Il programma russo è un passo avanti rispetto agli studi negli USA, tanto è vero che il progetto sovietico Sputnik (1 e 2), nel 1957, conquista il successo determinando di fatto l’inizio della corsa allo spazio.
A Langley c’è fermento, non solo per lo smacco in termini di traguardi, ma anche perché il successo russo non può essere tollerato da un punto di vista politico. Il capo del pool di scienziati Al Harrison tenta di dare una scossa a tutto l’entourage per mandare un astronauta americano nello spazio, c’è pressione dall’alto e necessità di soluzioni.
C’è quindi bisogno di supporto sul fronte dei calcoli, ma c’è anche necessità di idee nuove per materiali e costruzioni, non manca inoltre il bisogno di implementare nuove tecnologie tra cui il funzionamento dell’IBM 7090.
Il programma Mercury, con i razzi Atlas e Redstone, ed il futuro astronauta John Glenn, dipendono dal successo dei test e delle sperimentazioni, altrimenti la corsa sarà persa.
Per questa serie di contesti le tre talentuose protagoniste si ritrovano coinvolte nei team. Kathrine, brillante genio matematico, entra a far parte della Space Task Force di Harrison; Mary, taluentosa ingegnere, viene integrata nel team di ricerca materiali ma deve scontrarsi con le norme legislative della Virginia, che di fatto impediscono ad una persona di colore di ottenere una laurea in ingegneria; Dorothy gestisce un team di oltre venti persone senza che le sia riconosciuto il ruolo di responsabile, e sarà la prima ad apprendere il Fortran per gestire la macchina di calcolo.
Le tre ragazze si districheranno tra la segregazione razziale sul posto di lavoro, lo stereotipo di donna all’interno della società e della comunità afroamericana, e il ruolo di madri per i propri figli. Tutto ciò mentre imperversa la guerra fredda su campo “spaziale” tra le due potenze mondiali USA e URSS.
Il diritto di contare tra segregazione razziale e i diritti della donna
Fortunatamente il film risulta avere una regia ed una scelta stilistica funzionale, atta a descrivere gli eventi in modo chiaro, facendo concentrare lo spettatore sul vero senso della trama: i diritti civili, sia della comunità afroamericana, sia della figura femminile.
Non ci sono grandi gesti eroici o sensazionalismi, ma piccole conquiste e collaborazioni tra esseri umani, colleghi o meno. La pellicola rappresenta tutto con serietà, naturalezza e leggerezza, non facendo mancare una vena ironica che stempera la pesantezza di argomenti che farebbero scoppiare in lacrime di rabbia. Si parla di diritti basilari che, seppur ad oggi ci risulti surreale che non fossero riconosciuti, all’epoca di fatto non esistevano. L’eco di questi fantasmi purtroppo riecheggia nella nostra società, frutto di un imprinting durato oltre cinquant’anni. A tratti si prova vergogna per noi stessi, per l’essere umano in quanto tale, proprio a causa di atteggiamenti e comportamenti scellerati.
Il diritto di contare: un messaggio da gridare forte ancora oggi
Nonostante lo spettatore in qualche modo si rassicuri, poiché gli eventi narrati sono risalenti al passato, in realtà non bisogna isolare o estraniarsi da questo contesto. E’ necessario che la storia di parità raziale e ancora più di parità di genere a cui aspira il messaggio del film, permei e venga ribadito sempre, non va dimenticato mai e deve entrare a far parte dell’educazione di ognuno di noi. Perché una donna, ha il diritto di valere (di contare appunto) al pari di un uomo, anche quando viene accusata di non saper educare i figli a causa dell’assenza per lavoro, quando viene accusata di non essere adeguata a compiti che “spettano ad un uomo”, quando il giudizio sociale la porta a temere di non potersi rifare una vita con un nuovo compagno, dopo la scomparsa del precedente. Una donna ha il diritto di valere, una comunità ha il diritto di essere considerata al pari di un’altra.
Un obiettivo raggiunto con sacrificio e determinazione, ed un concetto da difendere, ancor più se ci si trova dalla parte dell’inquisitore, nostro malgrado.
Il diritto di contare: film, libro e realtà, non proprio tutta la leggerezza della pellicola
In un articolo del Post sono riportati estratti di interviste fatte all’ autrice del libro, Shetterly, e all’eroina Kathrine Johnson. Alcuni degli aspetti della vicenda sono stati necessariamente rimodellati per essere romanzati e più godibili alla visione, altri addirittura totalmente inventati, ma il messaggio non cambia e sorprende cosa invece è accaduto veramente.
Il personaggio Al Harrison (Kevin Costner è inventato)
Il capo del gruppo di matematici in cui entra a lavorare Johnson è basato su tre diverse persone. C’era la volontà di inserire dei veri personaggi, ma non è stato possibile ottenere il permesso di usare i nomi reali. Lo stesso dicasi per i ricercatori Parsons e Dunst.
Il padre di Johnson si spostò davvero per far studiare i figli?
Sì, soprattutto perché quando la figlia aveva dieci anni, capì che era straordinariamente intelligente. Nella città in cui vivevano non avrebbe potuto continuare gli studi. Kathrine inoltre finì realmente gli studi in anticipo: la high school a 14 anni, ed il College a 18.
Era realmente presente la scritta “Colored Computers”?
Si. Le donne di colore lavoravo in un ufficio distaccato e del tutto simile a quello mostrato nel film. Il loro impiego era praticamente quello di computer umani. Veniva chiesto loro di fare, rifare e controllare calcoli di ogni tipo, anche con l’iniziale introduzione di computers, in modo che altri ingegneri e fisici potessero dedicarsi ad ulteriori ricerche.
La segregazione percepita da Johnson
“Non sentivo la segregazione alla NASA, perché tutti facevano ricerche. C’era da fare una missione e noi ci lavoravamo. Sapevo che la segregazione c’era, ma in quel contesto lavorativo non la sentivo”. Inoltre non è vero che quando Kathrine arrivo nell’ufficio del team di ricerca per la missione Mercury, fu scambiata per la donna delle pulizie.
Quelle corse in bagno
In realtà Johnson utilizzò per anni i bagni per bianchi, ad un certo punto qualcuno glielo fece notare, ma in assenza di scritte esplicite continuò ad usarli comunque senza proteste da parte delle donne bianche. Indovinate invece chi doveva correre? Jackson, la talentuosa ingegnere.
La prima donna di colore nel ruolo di responsabile
Si, Dorothy Vaughan fu la prima donna di colore impiegata nella figura di supervisore e responsabile. Ma ottenne molto prima l’accesso a quella posizione, nel 1948 alla NACA (che successivamente sarebbe diventata NASA).
Le donne non erano ammesse a quel tipo di riunioni?
Esatto, però fu più semplice del previsto. Johnson infatti chiese il permesso di poter partecipare, e le fu risposto “beh, di solito le donne non sono ammesse”. L’immancabile risposta dettata dall’emancipazione fu: “c’è una regola al riguardo?”. Le fu risposto di no, e il suo superiore la fece partecipare a quelle riunioni.
Mary Jackson fu la prima ingegnere donna della NASA
Si, e non solo la prima ingegnere donna afroamericana, ma proprio la prima donna ingegnere in assoluto alla NASA. E lo divenne anche grazie al consiglio del suo superiore.
L’astronauta John Glenn che si fidava solo della brillante matematica
Pochissimo prima del lancio nel febbraio 1962, Glenn chiese davvero che fosse Johnson a ricontrollare i dati di quella che, a tutti gli effetti, divenne la prima missione che mandò uno statunitense in orbita.
Johnson, Jackson e Vaughan: molto di più oltre il film
Vaughan divenne realmente una grande esperta di Fortran, si ritirò nel 1971. Jackson lavorò alla NASA fino al 1985, poi si dedicò al supporto delle donne e delle minoranze. Johnson calcolò davvero le traiettorie per le missioni Apollo 11 e Apollo 13. Nel 2015 Barack Obama le ha conferito la Medal of Freedom, la più alta onoreficienza civile degli Stati Uniti, inoltre un importante centro di ricerca della NASA è a lei intitolato.
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