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“Junk – Armadi pieni” è la docuserie sul fast fashion che stavamo aspettando

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Junk – Armadi pieni, coprodotta da Will Media e Sky Italia, è la docuserie che vede Matteo Ward protagonista di un viaggio incredibile nel mondo del fast fashion, obbligando lo spettatore, puntata dopo puntata, a una seria riflessione sulla moda e sull’impatto ambientale che questo settore ha sul nostro pianeta.

Junk – Armadi pieni è una presa di coscienza sulla salute della Terra e dei suoi abitanti

Matteo Ward accompagna lo spettatore per 6 episodi in giro per il globo, alla ricerca di vere e proprie discariche a cielo aperto dove quotidianamente si riversano tonnellate di vestiti dismessi o merce invenduta, ma non solo.

La docuserie è anche una denuncia nei confronti di quelle aziende che producono incuranti del danno ambientale che provocano, dove “business is business” e i soldi hanno la precedenza sulla salute degli individui (impiegati inclusi) e dell’ecosistema che le circonda.

Il viaggio di Matteo è tanto tortuoso quanto bello, la dimostrazione di come in pochi episodi sia possibile confezionare un prodotto capace di far sorgere nello spettatore una moltitudine di domande relative al fast fashion, ma anche sentire le voci di chi di abiti usati o invenduti vive.

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Junk, attorno al mondo

Il primo episodio è ambientato in un lembo di terra molto lontano dall’Italia, situato dall’altra parte del mondo: il Cile.

Il Paese sudamericano è infatti la prima tappa di Matteo, più precisamente il deserto di Acatama, situato nella periferia di Alto Hispicio. Qui è situata una grande (e illegale) discarica al cielo aperto di abiti, indipendentemente dal loro essere usati o di nuova fattura.

È impressionante vedere intere montagne di vestiti ricoprire lembi di terra, i cittadini raccoglierli per sistemarli e rivenderli al mercato locale. Si rimane attoniti di fronte a un paesaggio che mai avremmo immaginato di poter vedere, in una chiara e per nulla muta denuncia dei danni causati dal fast fashion e dal consumismo soprattutto occidentale.

In molti si recano alla discarica per raccogliere gli abiti, tentare di guadagnare qualche centesimo dalla loro vendita. Sanno che è sbagliato, ma è l’unico modo, in una zona così povera, per dare da mangiare ai propri figli.

Ma il deserto di Acatama è solo il primo dei rimanenti cinque nodi. La seconda puntata porta Matteo in un altro continente, l’Africa. Se in Cile, infatti, esiste una enorme discarica di vestiti, in Ghana non è poi così diverso, con migliaia di persone impiegate in un sistema identico a quello della nazione sudamericana.

Ciò che per noi può sembrare vecchio, fuori moda, o dismesso, per loro è invece oro, una fonte di guadagno unica nel suo genere, ma non solo. In Ghana non esistono solo discariche di vestiti, che si estendono anche lungo la costa venendo inghiottite e rigettate dal mare, ma luoghi dove è possibile trovare vecchi computer e dispositivi elettronici da cui le persone recuperano rame, ferro e altre componenti utili per la rivendita.

Sogni o pura utopia?

Matteo Ward incontra anche un gruppo di bambini che sogna di potersi trasferire in Europa, lontano da quei rottami e dagli stracci, da un mondo che noi abbiamo contribuito a inquinare, senza sapere che ciò che sognano altri non è che un’utopia.

E quando lo spettatore arriva a pensare che sì, può bastare, il fast fashion è uno dei mali del mondo moderno, ecco che Junk mostra un altro lato della moda e del consumismo, quello nascosto, forse più buio: lo sfruttamento della manodopera e l’inquinamento ambientale.

Sia chiaro, non che le discariche non siano inquinanti. I tessuti con cui sono creati gli abiti “fast” sono tutt’altro che naturali e le sostanze che rilasciano danneggiano l’ecosistema e le persone. Ma ciò che accade nelle fabbriche, quello che devono subire i dipendenti e i cittadini che si vedono costretti a rinunciare alle proprie terre è più di un pugno in pieno volto.

Il lato oscuro del fast fashion

Matteo vola in Bangladesh, in Indonesia e in India. Un triangolo dove i diritti dei lavoratori non esistono, dove 10 anni fa centinaia di operaie sono morte nel crollo di una fabbrica, dove il cotone naturale è stato rimpiazzato dal BT Cotton e dove le aziende espropriano i terreni, disboscano le foreste e inquinano falde.

A pagarne il prezzo non è solo l’uomo, ma anche gli animali. Per esempio gli oranghi rischiano di non avere più una casa, avvicinandosi sempre di più ai centri abitati dove vengono scacciati, malmenati e talvolta uccisi.

Storie, volti e vicende che senza Junk non avremmo mai conosciuto o che forse avremmo preferito ignorare, specie se parliamo dell’ultimo episodio. Il sesto viaggio di Matteo, infatti, non lo vede impiegato a prendere un aereo e raggiungere un continente lontano.

No, l’ultimo episodio di Junk è purtroppo ambientato in Italia, nella sua Vicenza. Una provincia diventata zona rossa a causa dell’avvelenamento causato da un composto utilizzato nell’industria manifatturiera: il PFAS.

Centinaia di casi di avvelenamento che solo negli ultimi anni ha visto il sorgere di processi per danni arrecati alla popolazione. Danni che i PFAS hanno causato anche negli Stati Uniti e che adesso stanno causano in Paesi poveri dove è più facile delocalizzare e sfuggire alle regole.

Ma di chi è la colpa di questo proliferare di aziende inquinanti? C’è qualcuno che sta cercando di fare realmente qualcosa per sensibilizzare le persone?

Ecco cosa possiamo fare

Matteo nel suo lungo viaggio ha incontrato e intervistato le persone più disparate. E in Cile così come in Africa e in Asia la risposta alle sue domande è sempre e stata una sola: sono soprattutto i governi i principali complici dell’inquinamento prodotto dal fast fashion e dall’industria della moda.

Eppure, come singoli cittadini di un mondo sempre più in declino, possiamo cercare di fare un minimo la nostra parte, ma come? Di primo acchito è naturale pensare di boicottare del tutto il mondo del fast fashion, decidere di non acquistare più capi prodotti in Bangladesh, in India o da catene solite sfruttare i lavoratori di questi Paesi o le limitate risorse del pianeta. Nulla di più sbagliato.

Se c’è una cosa che insegna Junk è che la soluzione non è mai il proibizionismo, per quanto sia naturale e umano pensarlo. Tutt’al più c’è bisogno di una presa di coscienza globale, portare sotto agli occhi di tutti i problemi causati dall’azienda della moda e dal consumismo. In una società sempre più capitalista e orientata al guadagno stiamo seriamente perdendo di vista che questo è l’unico pianeta che abbiamo a disposizione, che inquinarlo, deforestarlo e privarlo di risorse e salute colpirà in un primo momento le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, per poi allargarsi anche a noi come uno tsunami incontrollato.

Good Clothes Fair Pay

Di solito è di fronte alla disperazione che esce fuori il meglio delle persone: per quanto l’80% del tempo di visione si è spinti a pensare che la moda sia un’industria subdola e negativa, la docuserie porta all’attenzione dello spettatore anche esempi virtuosi di riciclo e moda solidale e sostenibile.

In Cile, in Ghana e negli altri Paesi visitati da Matteo Ward, esistono associazioni che raccolgono e riciclano gli abiti usati creando nuovi filati o vestiti nuovi. Alcuni vengono donati ai più bisognosi, altri rivenduti.

E per gli operai costretti a paghe misere e turni massacranti? Anche qui Junk – Armadi pieni non è da meno: l’episodio ambientato in Bangladesh termina con la pubblicizzazione di una campagna volta al miglioramento dei salari.

Il nome di questa iniziativa, nata da un gruppo di cittadini europei, è Good Clothes Fair Pay. L’obiettivo della campagna è il raggiungimento del milione di firme per poter sottoporre il caso alla Commissione Europea, affinché si possa legiferare per stipendi equi in favore di questa categoria.

In questo modo i marchi che vorranno commerciare in UE, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno sede in territorio europeo, dovranno adattarsi a orari e paghe dignitose per i propri operai. Ogni cittadino europeo può iniziare a fare la sua parte firmando l’iniziativa, disponibile a questo link.

Cosa lascia Junk – Armadi pieni

Sicuramente amarezza per un tema che dovrebbe essere quotidianamente affrontato dai mass media, rendendo così consapevoli i consumatori di ciò che effettivamente acquistano e di quanto l’epoca del consumismo incontrollato stia avvelenando noi stessi e la Terra.

Lascia anche un senso di ingiustizia per quelle popolazioni sfruttate senza pietà, che vedono giorno dopo giorno un’industria approdare sul proprio territorio espropriando terreni e foreste, condannando centina di innocenti – animali inclusi – a dover fuggire via da una realtà non più loro.

Ma a Junk – Armadi pieni bisogna essere grati anche per la consapevolezza di quello che è il fast fashion, il mondo della moda e di quello che potrebbe diventare se sostenessimo le campagne come Good Clothes Fair Pay, se acquistassimo da marchi ecosostenibili e se iniziassimo a nostra volta a non accumulare compulsivamente abiti.

Perché se decine di industriali e governi possono decidere di inquinare e aggirare le regole, decine di migliaia di persone possono decidere di invertire questo trend, riprendere a voler bene al nostro pianeta e battersi affinché ci sia davvero dignità per ogni persona e per ogni luogo, in tutto il mondo.

Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API

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