Negli ultimi tre mesi, i marchi di fast fashion Pretty Little Thing, Shein e Zara hanno lanciato piattaforme di resale nel tentativo di trarre vantaggio dall’economia circolare. Un’iniziativa che può anche risultare un’alternativa sostenibile all’acquisto di nuovi prodotti, ma che non convince affatto gli esperti del settore. I colossi del fast fashion, infatti, non sembrano in grado di sostenere la sfida della sostenibilità. E ora cercheremo di capire il perchè.
Fast fashion e resale: un binomio possibile?
Per quanto possa sembrare insolito, i marchi più rappresentativi del fast fashion hanno scelto di rivoluzionare la propria strategia di vendita e aprirsi al resale. Una decisione che fa storcere il naso agli esperti di sostenibilità. A insospettirli è, anzitutto, la strategia di comunicazione utilizzata dai brand per promuovere le iniziative di resale. Zara, ad esempio, riferisce che la piattaforma Zara Pre-Owned – che sarà lanciata il 13 Novembre nel Regno Unito – è una soluzione utile per i consumatori di prendere “decisioni più sostenibili“, e per l’azienda di muoversi verso un “modello più sostenibile“. PLT, invece, afferma di sperare di educare i propri clienti a fare “scelte migliori” e rendere la rivendita “più attraente“, ma senza fare grandi promesse di sostenibilità. Con Shein Exchange, infine, il colosso cinese dichiara di voler “fornire una destinazione ai clienti Shein per diventare partecipanti attivi alla circolarità“.
Promesse importanti, che gli esperti sembrano convinti che i marchi del fast fashion non possano mantenere. E non sembra essere solo questo il problema. “Quando induci le persone a credere che un prodotto possa essere riciclato o avere una seconda vita, come nel caso di queste piattaforme di rivendita, le persone finiscono per consumare ancora di più il bene primario, perché è visto come un acquisto senza conseguenze“, afferma l’esperta Maxine Bédat. In fondo, la sostenibilità in sè per sè non sembra interessare i brand del settore. Shein, ad esempio, ha apertamente dichiarato di volersi lanciare nel resale per controllare le vendite second hand, dato che “la rivendita minaccia di cannibalizzare la vendita di nuovi articoli“. Secondo Depop, infatti, 9 acquisti su 10 all’interno dell’App impediscono l’acquisto di un capo nuovo di zecca.
Insomma, il mercato del resale comincia ad avere il suo peso. Secondo un recente rapporto di Vestiaire Collective e Boston Consulting Group, ora vale circa 100/120 miliardi di dollari, ossia tre volte di più rispetto al 2019. E si prevede che crescerà di un ulteriore 127% entro il 2026. Pertanto, non c’è da stupirsi che molti brand di moda – inclusi Balenciaga e Isabel Marant – abbiano scelto di lanciarsi nel resale. L’idea è quella di fidelizzare i consumatori attenti alla sostenibilità, offrire opzioni a basso prezzo per acquisire nuovi clienti, e continuare a trarre profitto dai prodotti molto tempo dopo che hanno lasciato il reparto di produzione. Ma non è tutto oro quello che luccica. Anche il resale ha i suoi lati oscuri.
L’ultimo rapporto di The RealReal ha mostrato che i consumatori usano il resale come sostituto del fast fashion. Acquistano e vendono ad alta velocità, senza cambiare la quantità di prodotti che muovono. E anzi, l’ingresso dei marchi del fast fashion nell’economia circolare non fa altro che preoccupare ulteriormente gli esperti. Secondo il loro parere, i brand del fast fashion non dovrebbero utilizzare la rivendita per fare affermazioni sulla sostenibilità, a meno che non stiano lavorando anche verso un modello di decrescita. “Se stanno lanciando una piattaforma di rivendita senza ridurre la loro produzione complessiva, questo è un campanello d’allarme“. Chiosa Brett Staniland, influencer della moda sostenibile.
Il pericolo del greenwashing
“Oggi ci sono così tanti vestiti usa e getta, progettati per essere indossati una o due volte. Se questi marchi credessero davvero nella rivendita, migliorerebbero la qualità dei loro vestiti. Altrimenti, è solo greenwashing“. Così Maria Chenoweth, CEO di Traid, commenta l’ingresso dei marchi del fast fashion nel resale. Dal canto loro, i brand di settore hanno anche cercato di difendersi dalle accuse di greenwashing. “L’intero settore della moda, non solo il fast fashion, ha un impatto sull’ambiente. Il fast fashion è un obiettivo facile e le cifre imprecise vengono spesso lanciate con facilità“, riferisce un portavoce di PLT. Shein, invece, si è difesa affermando che la piattaforma Exchange promuove i vantaggi ambientali dell’acquisto di abbigliamento usato rispetto ai nuovi articoli. Eppure, la questione del greenwashing si fa sempre più delicata, tanto da aver attirato l’attenzione delle autorità di regolamentazione.
“Le aziende devono garantire che tutte le affermazioni che fanno sui vantaggi ambientali della rivendita siano chiare, autentiche e supportate da prove“, afferma Cecilia Parker Aranha, direttore della protezione dei consumatori presso la CMA. “La nostra indagine sul settore moda è in corso. Se sospettiamo che un’azienda abbia infranto la legge fuorviando i clienti sulle sue credenziali ecologiche, agiremo“. In questo contesto si inserisce anche la strategia della UE per i tessili sostenibili e circolari. Introdotta ad Aprile, proponeva una serie di misure per regolamentare la moda da qui al 2030, coprendo non solo la produzione e il consumo, ma anche la distruzione dei prodotti. Una situazione generale che potrebbe aver messo alle strette i marchi del fast fashion, spingendoli verso il resale. Anche se questi continuano a dichiarare che la sostenibilità è il solo obiettivo delle loro iniziative. Ma sarà davvero così? Soltanto il futuro potrà confermarcelo.
Ultimo aggiornamento 2024-10-05 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API
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