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Old: com’è il nuovo film di M. Night Shyamalan con Gael García Bernal

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Old

Da qualche giorno è nelle sale italiane grazie a Universal Pictures Old, nuovo inquietante film di M. Night Shyamalan. Un’opera che arriva dopo Split e Glass, che hanno concluso la trilogia del regista indiano cominciata con Unbreakable – Il predestinato, e che ci riporta lo Shyamalan più rischioso, eccessivo e imperfetto, ma anche quello capace di costruire la tensione come pochissimi, compiendo al tempo stesso una sagace riflessione sul contemporaneo. Old è tratto dalla graphic novel Castello di sabbia di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters, ed è forte di un cast che comprende molti nomi cari al pubblico, come Gael García Bernal, Vicky Krieps, Rufus Sewell, Ken Leung, Thomasin McKenzie ed Eliza Scanlen.

Old: l’incubo hitchcockiano di Shyamalan

Il protagonista invisibile e silenzioso di Old è il tempo. Tempo che sull’isola tropicale in cui convergono tre famiglie in cerca di relax sembra scorrere molto più velocemente del normale, al punto che presto si cominciano a vedere nei protagonisti segni di crescita, invecchiamento e logorio fisico. Shyamalan spinge così all’estremo quella che è una vera e propria ossessione del contemporaneo: abbiamo opportunità, tecnologie e informazioni immensamente superiori rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, e nel vano tentativo di sfruttarle pienamente ci rendiamo conto che il tempo che abbiamo non è mai abbastanza. Quella che per noi è una semplice frustrazione è per i protagonisti di Old un incubo a occhi aperti, dal momento che un’ora sulla spiaggia equivale a diversi anni della vita di una persona.

Con un budget abbastanza risicato per una produzione del genere (si parla di circa 18 milioni di dollari), Shyamalan è costretto a cedere qualcosa dal punto di vista degli effetti speciali, mostrando la crescita da bambini a ragazzi con salti decisamente bruschi e conseguenti cambi di interpreti. Il cineasta indiano compensa però queste limitazioni con la sua maestria dietro alla macchina da presa, che ha davvero pochi eguali. In una delle sue opere più hitchcockiane, Shyamalan riesce a generare suspense in pieno giorno (come Alfred Hitchcock in Intrigo internazionale), spostando la macchina da presa con vorticosi movimenti circolari, quasi a imitare le lancette di un orologio lanciate alla massima velocità. Persino l’immancabile cameo del regista, che interpreta un personaggio intento a scrutare con un binocolo i visitatori della spiaggia, è una metafora del mestiere del regista, simile a quella alla base de La finestra sul cortile.

Fra violenza e ambientalismo

Come sempre, per Shyamalan la tensione è anche un meccanismo narrativo per parlare dei temi a lui più cari, come la famiglia, l’isolamento e l’ambiente. Fra scariche di violenza e morti spettacolari (una in particolare è fra le migliori sequenze horror degli ultimi anni), il regista indiano affronta tutte queste tematiche, evidenziando come in E venne il giorno gli effetti sulla psiche umana di una minaccia inspiegabile, portata da una natura che è al tempo stesso affascinante compagna di viaggio e pericolosa entità da temere e rispettare. Ancora una volta, la famiglia disfunzionale è invece teatro delle più brutali e dolorose deviazioni e dei più struggenti momenti sentimentali, che testimoniano l’abilità di Shyamalan nel mettere in scena i più disparati registri emotivi.

L’ambiziosa narrazione di Shyamalan funziona senza particolari intoppi, anche nel corso di un atto finale che nell’inseguimento del proverbiale colpo di scena del regista rischia di mettere troppa carne al fuoco, aprendo inquietanti squarci sull’industria farmaceutica e sui dilemmi etici che ne derivano. Resta però la sensazione di aver assistito a un’opera dalla forza e dalla carica sovversiva ben lontana dal piattume contenutistico a cui ci siamo assuefatti, capace di minare le nostre certezze e di lasciarci con più domande che risposte, caratteristica peculiare del grande cinema.

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