Un cielo plumbeo si staglia al di sopra di una sognante piscina azzurra nella quale un uomo nuota noncurante della tempesta all’orizzonte. C’è della malinconia in questo contrasto emotivo reso eterno dalla spettacolare foto di Martin Parr, prestata ai Blur per la copertina di The Ballad of Darren, il nuovo album della band di Colchester di cui vi parleremo in questa nostra recensione.
The Ballad of Darren – La recensione del nuovo album dei Blur
Malinconia dicevamo. La stessa che sembra pervadere la voce di Damon Albarn fin dalla prima traccia: The Ballad. Le armonie vocali in stile Beach Boys riescono solo in parte a smorzare la tristezza di Damon che canta di un amore perso per sempre: “I just looked into my life and all I saw was that you’re not coming back”, e allora eccola: “the ballad comes for you”. Come a dire che io non potrò più esserci, ma la mia musica si.
La seconda traccia è St. Charles Square, pubblicata come primo singolo sul finire di giugno. Si cambia registro, il riff di chitarra in stereofonia a sinistra ricorda inevitabilmente l’intro di Country House. E poi schitarrate senza un domani, una risata macabra di Damon e vai con la più sincera e lapidaria delle ammissioni di colpevolezza: “I fu*ked up”. C’è palesemente qualcosa di David Bowie nelle linee melodiche tremolanti pervase da quel senso di disperazione e abbandono: “don’t leave me baby, don’t leave me completely”.
Non bisogna attendere troppo prima di imbattersi la prima perla di The Ballad of Darren. In effetti basta arrivare al terzo pezzo. Barbaric ci ripresenta le melodie pop che ci avevano fatto innamorare dei Blur più di 25 anni fa, scandite da una drum machine e permeate da un nuovo senso di rassegnazione, quella di quando hai 55 anni, ti guardi indietro e non rivedi tutti quelli che erano con te all’inizio. Scomparsi come quei sentimenti che credevi non sarebbero andati via mai. Ed è barbarico.
La batteria che apre di Russian Strings ricorda inevitabilmente gli ultimi lavori degli Arctic Monkeys, e non è un caso. A firmare la produzione The Ballad of Darren è infatti James Ford, a cui dobbiamo non solo la spettacolare evoluzione sonora degli ultimi due dischi dei Monkeys, ma anche dell’ultimo lavoro dei Depeche Mode, Memento Mori. Se per l’Argentina dell’86 era stata la mano de dios, qui è stata la mano di James.
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Leonard Cohen. Quando si parla di belle canzoni spunta sempre fuori il nome di Leonard Cohen. C’era una stanza d’albergo a Montreal che affacciava su un enorme murales dedicato al leggendario cantautore scomparso nel 2016. È lì che Damon ha preso ispirazione per The Everglades (For Leonard). Una lettera d’amore all’uomo che viveva a 100 baci di profondità, certo, ma anche una riflessione sull’ineluttabilità della vita. “Sono molti i fantasmi che vivono nella mia mente. Molte le strade che vorrei aver preso. Molte volte ho pensato di rompere. Perché in natura sembra esserci una via oltre le curve. Ci sono canzoni da suonare. Ci sarà grazia per tutti. E arriveranno giorni più tranquilli. E non avremo bisogno di chiedere”. Asciugatevi le lacrime, Damon l’ha fatto di nuovo.
Con The Narcisist salgono i bpm e si palesa anche un senso di ottimismo che per ora era stato assente da The Ballad of Darren. Il punto focale è ancora una volta l’irresistibile melodia, complice anche un arrangiamento curato fin nei minimi dettagli. Nella sognante Goodbye Albert c’è anche spazio per qualche falsetto, ma è nei ritornelli che ritornano gli echi dell’ultimo Bowie, quello solenne di Blackstar, quello eterno di Lazzarus. Dopo un’altra lenta ballata ricca di cori e batteria in marcetta (Faraway Island) e una più sostenuta Avalon, The Ballad of Darren si chiude in bellezza con un’altra perla.
The Heights è una masterclass di composizione e arrangiamento. In principio non fu la luce, ma una chitarra acustica e un tema di chitarra elettrica. Gli ingredienti basici di Tender che ritornano per fornire a Damon lo spazio sulla quale disegnare un’altra melodia leggendaria. Senza avere il tempo di rendercene conto ci ritroviamo avvolti dai cori e l’ingresso della batteria fornisce ad Alex James la scusa per regalarci una delle sue linee di basso con compressione a manetta. E poi i violini. Quando finalmente hai realizzato dove sei e cosa sta accadendo scompare tutto: riecco solo la voce. E poi di nuovo la magia. Signori: gli anni passano, i Blur no.
Anche il testo è qualcosa di straordinario. Damon canta a qualcuno che c’è sempre stato nell’ultima fila, promettendogli che un giorno saranno di nuovo insieme in prima fila. Probabilmente un commovente omaggio a Craig Duffy, storico manager dei Blur tragicamente scomparso in un incidente stradale.
“I’ll see you in the heights one day, I’ll get there too. I’ll be standing in the front row. Next to you”
Virtualmente c’è ancora spazio per The Rabbi e The Swan, contenute come bonus track nella Deluxe Edition. Due brani che riassumono le due anime di The Ballad of Darren: più andante la prima, più malinconica la seconda. A nostro avviso The Rabbi avrebbe potuto tranquillamente rientrare nella tracklist ufficiale che nessuno si sarebbe offeso.
Tirando le somme: non è effetto nostalgia, questa è poesia
Ci sono poche band al mondo che possono permettersi di pubblicare soli due album in 20 anni e restare ugualmente rilevanti. I Blur sono tra queste. Sia chiaro, il quartetto che più di tutti ha rappresentato la middle class inglese nei ‘90, ponendosi in antitesi alla classe operaia di due fratelli di Manchester, non è stato di certo con le mani in mano per tutto questo tempo. Demon Albarn – a mani basse tra i geni musicali degli ultimi 30 anni – ha continuato a sfornare perle coi Gorillaz, Graham Coxon ha collaborato coi Duran Duran e Dave Rowntree, dopo aver perso una significativa quantità di capelli, si è dato alla politica. E Alex James? Beh Alex è stato per lo più impegnato a vendere formaggio, ma i bassisti sono fatti così. Peraltro Alex è tra i più attivi sui social, dove ci racconta quotidianamente la nuova vita in tour del gruppo.
Vale anche la pena di spiegare che il Darren citato nel titolo è Darren Evans, detto Smoggy. Ricordate quando i Blur a Sanremo suonarono Charmless Man in playback con tanto di cartonato di Graham? Beh al bassoplayback c’era Smoggy, che sostituì Alex James bloccato in aereoporto. Smoggy è la guardia del corpo di Damon, che 25 anni prima strappò al cantante la promessa di finire la canzone The Ballad.
In effetti, a voler riassumere questa recensione, The Ballad of Darren è essenzialmente questo: un disco sulla maturità. Una riflessione sul tempo che passa, sulle scelte sbagliate, sulle amicizie e sugli inevitabili addii. Il tutto impreziosito da una produzione raffinatissima di James Ford e da una copertina spettacolare di Martin Parr. L’uomo nella foto, a proposito, è Ian Galt, un dentista che a causa di un grave incidente aveva perso l’uso delle gambe, a detta dei medici in modo irreversibile. Non sarà così. Parr lo immortala mentre fa riabilitazione in piscina e il messaggio è chiaro: non lasciare che il passato spenga le luci del futuro. È un caso che sia finita sulla copertina di un disco così?
In effetti, seppur a tratti, The Ballad of Darren si apre a qualche timido spiraglio di speranza, ma la grande verità è che con l’ottimismo non si scrivono canzoni belle ma, come diceva qualcuno, consolatorie. E Damon Albarn dev’essere un gran pessimista.
Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API