Incredibile a pensarci oggi – immersi come siamo nel modello discografico del 2023 – ma uno dei dischi più importanti della storia della musica non aveva neanche un singolo. Certo, Money uscì negli Stati Uniti, come fece anche Time (con Us and them come b-side), ma non furono mai davvero intesi come dei veri e propri singoli. Ma andiamo con ordine: è il 1° marzo 1973, esattamente 50 anni fa, e nei negozi di dischi compariva questa copertina nera con un prisma, nessuna scritta in evidenza: è The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. Diventerà il disco più rivoluzionario della storia della musica.
Che non si trattava di un disco qualunque fu chiaro subito, fin dalla conferenza stampa del 27 febbraio al London Planetarium, quando i giornalisti, invece della band, trovarono quattro cartonati a grandezza naturale, ognuno raffigurante un membro dei Pink Floyd. Quello di Waters era il più grande di tutti, sostengono i Watersiani.
Il disco della maturità (ma anche dell’unità)
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Nonostante The Dark Side of the Moon sia l’ottavo disco della band, che quindi era ben navigata, è forse il primo vero album dei Pink Floyd del secondo periodo. Il primo disco, insomma, nel quale il gruppo si è lasciato alle spalle l’eredità artistica di Syd Barrett – di cui ancora si avvertivano gli echi in Meddle e Obscured by Clouds – e ha preso in mano le redini del proprio destino. Potremmo azzardare a dire che è l’unico vero album della band in cui membri siano stati davvero uniti, come confermato dal perfetto equilibrio tra la musica e i testi. Da lì in poi lo strapotere accentratore di Roger Waters avrebbe preso il sopravvento, portando il gruppo verso la spettacolare egomania che esploderà in The Wall, prima di implodere in The Final Cut, che segnerà la fine definitiva di quella fase.
L’album viene registrato in due sessioni distinte presso gli iconici Abbey Road Studios di Londra. A seguire i Pink Floyd c’era ovviamente l’immancabile Alan Parson, che ebbe a disposizione carta bianca per sfruttare alcune delle più innovative tecniche di registrazione dell’epoca, a partire dal multitraccia.
Quando torna a casa da sua moglie, a registrazioni completate, Roger Waters mette sul piatto il vinile del master e scoppia in lacrime. Lui e i suoi soci avevano realizzato uno degli album più incredibili di sempre.
50 anni di The Dark Side of the Moon : le canzoni
Seguendo il tipico schema dei concept album, The Dark Side of the Moon va inteso come opera unica, il che spiega l’assenza di veri e propri singoli come enunciato sopra. Il disco parla di tutto: nascita, vita, paura del volo, paura della morte, avidità, guerra, follia e, in ultima analisi, della morte stessa. Tutte le canzoni sono collegate senza soluzione di continuità, portando l’ascoltatore attraverso un vero e proprio viaggio mistico. E quando questo è finito, tutto ricomincia. A rendere l’esperienza di ascolto più straniante ci sono le voci, frammenti di conversazione sapientemente ritagliati per apparire tanto affascinanti quanto inquietanti. Queste sono frutto di interviste di Roger Waters ai vari personaggi che gravitavano gli Abbey Road Studios. Waters si aggirava per lo studio con dei cartoncini rettangolari sulle quali erano scritte delle domande. Domande del tipo hai paura della morte?” o “quand’è l’ultima volta che hai litigato?”.
Il lato A
Col la grancassa di Nick Mason in Speak To Me, che simboleggia il battito del cuore di un feto, seguito da un urlo primordiale che rappresenta il pianto del neonato appena messo al mondo, The Dark Side of the Moon si apre rivelando al mondo la maestria compositiva dei Pink Floyd e il talento lirico di Waters. Breathe, in particolare, è caratterizzata da una linea di basso ipnotica in netto contrasto con le atmosfere oniriche create dalla slide guitar e dagli arpeggi di David Gilmour. Gli accordi del ritornello sono opera del tastierista Richard Wright, il quale prese ispirazione da Kind of Blue di Miles Davis.
Anche il testo di Waters riprende il tema della nascita e della gioventù (prima strofa), che velocemente diventa crescita (seconda strofa) e indissolubilmente convoglia nel diventare anziani e nella morte (finale). Nei primi due brani ogni membro della band aveva dato qualcosa al disco, una dinamica decisamente rara per la discografia dei Floyd.
Il disco prosegue con On the Run, traccia strumentale realizzata grazie all’uso di uno dei primi sequencer della storia (un EMS Synthi AKS, lo si intravede anche nella Director’s Cut del Live at Pompeii). La canzone rappresenta la paura di volare in aereo. Segue Time, che si apre con un grande e fragoroso festival di sveglie. Alan Parson in persona (anzi in parsona) si occupò di sincronizzarle, farle suonare insieme e registrarle in un vecchio negozio di antiquariato. Il testo parla dell’inesorabile trascorrere del tempo e riprende alcuni concetti di Breathe. Non a caso la parte finale del brano ritorna sul tema proprio di quest’ultima canzone. Questa sezione venne chiamata Breathe (Reprise).
Chiude il lato A una composizione spettacolare: The Great Gig in the Sky. Il delicato e solenne arpeggio di piano prosegue sontuoso mentre una voce afferma: “non ho paura della morte, perchè dovrei? Tutti devono andarsene prima o poi”. A parlare è Gerry Driscoll, un uomo irlandese che all’epoca era il portiere degli Abbey Road Studios. Driscoll rispondeva alla domanda/intervista di Waters che gli chiese se aveva paura della morte. Comincia a questo punto un incredibile e disperato assolo vocale femminile. La voce è quella di Clare Torry, all’epoca venticinquenne, alla quale Waters disse solo: “pensa alla morte e usa la voce come uno strumento”. La cantante, dopo diverse take (le cronache riferiscono che ne fece almeno una dozzina, uscì dalla sala in lacrime credendo di aver deluso le aspettative. Fuori c’erano i quattro Pink Floyd, ancora a bocca aperta.
Il lato B
Dopo la disperazione della morte, che ha chiuso il lato A, il lato B si apre con sonorità ben diverse. Si apre infatti con delle monete che cadono in un contenitore e dal suono di un registratore di cassa. I due suoni diversi battono un atipico tempo di 7/4. Comincia così Money, caratterizzata da uno dei giri di basso più iconici di sempre. La canzone parla dell’avidità dell’uomo nei confronti del denaro, descritto come la radice di tutti i mali. Mentre le note del basso saltellano sul finale del brano, si sentono voci indistinte. Una afferma: “avevo ragione”, mentre un’altra dice: “avevo assolutamente ragione”.
Le voci stavano in realtà rispondendo alla domanda “quand’è stata l’ultima volta che sei stato violento? Avevi ragione?”. Nei secondi finali una voce afferma: “non lo so, ero veramente ubriaco”. Waters rivelò che a pronunciare questa frase fu Henry McCullough, chitarrista della band di Paul McCartney, che si trovò per caso negli Studio (stava registrando per Sir Paul nella sala adiacente). Passato per un saluto, Waters decise di intervistarlo. McCullough aveva litigato violentemente con sua moglie la sera precedente, così alla domanda “avevi ragione?” rispose: “non lo so, ero veramente ubriaco”.
Se Money racconta l’avidità come male dell’uomo, in Us and them si tratta del male dell’umanità: la guerra. La composizione è frutto quasi interamente di Richard Wright, che aveva composto la parte armonica per la colonna sonora di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. Dal punto di vista armonico la canzone è una vera lezione di composizione, con le strofe in minore che scoppiano in un potentissimo ritornello in tonalità maggiore. “Noi e loro, dopotutto siamo tutti uomini”, canta la soave voce di David Gilmour, manifestando l’assurdità della guerra.
Dopo un caleidoscopico e acido brano strumentale (Any Colour You Like), si affronta il tema della follia nella spettacolare Brain Damage. Si tratta di una tematica cara ai Pink Floyd, che ritornerà in altre produzioni, data anche la condizione psicologica di chi la band l’aveva fondata: Syd Barrett. Brain Damage anche l’unico brano del disco in cui si cita il titolo nel testo. Nel caso specifico Gilmour canta: “And if the band you’re in starts playing different tune I’ll see you on the dark side of the moon”. Il riferimento è proprio ad un evento che ha visto protagonista Syd Barrett: quest’ultimo, anni prima, durante le prove con la band, in preda alla schizofrenia, cominciò a scordare la propria chitarra fino al punto che gli altri Floyd non riuscivano più a seguirlo musicalmente.
L’ultima canzone di The Dark Side of the Moon è Eclipse, che è una sorta di riassunto di tutto ciò che compone la vita umana. “Tutto – recita il testo – è in armonia sotto al sole. Ma il sole è eclissato dalla luna”. Il disco si chiude con la voce ancora di Gerry Driscoll che rivela: “non esiste nessun lato oscuro della luna, questa infatti è tutta oscura”. Eclipse si ricollega, senza soluzione di continuità e solo virtualmente (dato che sarebbe impossibile cambiare lato senza perdere la continuità), al primo brano del disco, Speak to me.
The Dark Side of the Oz
C’è una curiosa leggenda metropolitana (non tanto leggenda e neanche tanto metropolitana) che circonda il disco. Si ritiene sincronizzando l’inizio di The Dark Side of the Moon con l’inizio di The Wizard of Oz (film del 1968) le due opere siano parallele. Il disco fornirebbe la colonna sonora perfetta al film. Volete provare? No, non c’è bisogno di smanettare col vinile o di reperire una rarissima copia in VHS della pellicola: per fortuna abbiamo YouTube. Questa leggenda è nota tra i fan con i nomi di The Dark Side of Oz, The Dark Side of Rainbow o The Wizard of Pink Floyd.
Cosa resta di The Dark Side of the Moon a 50 anni di distanza
Nonostante festeggi oggi 50 anni dalla sua uscita, The Dark Side of the Moon resta uno dei dischi cardine della storia della musica. La sua copertina iconica è praticamente inconfondibile ma, più di questo, le sue canzoni sono estremamente attuali. È musica che incontra la filosofia e filosofia che si occupa della vita. Nel corso di questi 50 anni le canzoni hanno assunto diverse vesti: Money ad esempio, negli anni ’80, durante l’epoca Gilmour, divenne dal vivo una vera e propria suite di 10 minuti (rinominata The train version).
Numerosi sono gli artisti contemporanei che si sono detti fortemente influenzati da The Dark Side of the Moon, come innumerevoli sono gli omaggi al disco, in tutte le salse. Dal punto di vista commerciale l’album è al terzo posto dei dischi più venduti della storia, con oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo. Hanno fatto meglio solo Back In Black degli AC/DC e Thriller di Michael Jackson. Le cifre sono tuttavia da aggiornare costantemente, dato che anche 50 anni dopo The Dark Side of the Moon continua a vendere, rappresentando un LP imprescindibile per chiunque voglia azzardarsi a definirsi collezionista.
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