Continua l’esodo delle aziende occidentali che boicottano la Russia. Tuttavia c’è chi ha deciso di non abbandonare il Paese e chi, pur avendolo fatto, viene sostituito con versioni russe dei propri marchi.
Le aziende occidentali boicottano la Russia? Non tutte
Ci avviciniamo a un mese esatto dall’invasione russa in Ucraina. In questi (quasi) 30 giorni abbiamo assistito a una vera e propria escalation di sanzioni da parte delle aziende occidentali. Una dopo l’altra, come un enorme domino fatto di quotazioni in borsa, moltissime multinazionali hanno abbandonato il Paese come manovra di boicottaggio economico nei confronti del Cremlino. L’esodo ha riguardato trasversalmente tutti i settori: da quello tecnologico (Apple, Microsoft ecc.) a quello degli spettacoli dal vivo (Live Nation). In mezzo c’è tutto il resto: fast food, beverage, automotive, cinema e tanto altro.
Una situazione che ha portato in più di un’occasione a pura improvvisazione artistica da parte di Mosca. Dopo la chiusura dei circa 850 ristoranti McDonald’s nel Paese, la Russia ha creato Zio Vanya. Una versione made in Putin del celebre fast food, che non rinuncia all’iconico logo della grande M opportunamente ruotato di 90°. Una vera e propria copia parallela, che farebbe invidia ai migliori contraffattori di borse di marca. Una manovra ripetuta successivamente con Instagram (diventato Rossgram) e Ikea. Notizia delle ultime ore è infatti il deposito presso Rospatent (l’agenzia russa per i brevetti commerciali) del logo IDEA, con tanto di colori originali, sebbene quel giallo e quel blu non sembrino essere propriamente le tonalità preferite da Putin in questo periodo.
Lasciare la Russia: non tutti brand vogliono, non tutte le aziende possono
Non tutte le aziende occidentali però hanno abbandonato la Russia, anzi. C’è chi ha preferito restare (subendo critiche e attacchi da parte di Anonymus), chi ha chiuso le proprie attività ma continuato l’importazione di prodotti e chi continua a restare aperto promettendo di devolvere tutto il ricavato in Ucraina. Una situazione complessa, che deve tener conto anche di particolari dinamiche. Come quella che riguarda Subway per esempio, popolare catena di fast-food, che non è proprietario dei singoli ristoranti che utilizzano il suo logo, rendendo di fatto impossibile una chiusura forzata delle attività. La società ha però promesso di donare all’Ucraina i proventi delle vendite in Russia.
Questa condizione di impossibilità alla chiusura sembra essere parecchio diffusa, a causa dei vari franchising. Difatti si trovano in questa situazione anche le catene di hotel Accor e Mariot. Inoltre sono ben 800 i ristoranti Burger King in Russia ancora aperti, gestiti in franchising da un’azienda russa. “Siamo impossibilitati a prendere una decisione unilaterale” ha fatto sapere quello che ora è il diretto competitor di Zio Vanya.
L’azienda farmaceutica Pfizer ha scelto la via di mezzo: stop agli investimenti e ai trial clinici in Russia, mentre continuano i rifornimenti di farmaci, essendo beni di prima necessità. Scelta analoga anche per il colosso farmaceutico tedesco Bayern. Anche Nestlè ha optato per una posizione simile, asserendo di aver sospeso tutte le attività di marketing, ma che “il cibo resta un bene indispensabile per la popolazione”. Non è andata bene però, la società svizzera è stata attaccata dagli hacktivisti di Anonymus, impegnati in prima linea (veloce) contro il Governo di Putin. L’attacco hacker avrebbe sottratto all’azienda circa 10Gb di dati, oltre a email e password di dipendenti e clienti.
Il complesso problema dei dipendenti nel Paese
Altre aziende occidentali che hanno rifiutato categoricamente di abbandonare la Russia sono Auchan (catena di supermercati francese) e Danone. Per la prima la Russia rappresenta il terzo mercato dopo Spagna e Francia, mentre Danone impiega nel Paese ben 8mila dipendenti che, in caso di chiusura, resterebbero senza lavoro. Decisione difficile anche per Renault. La casa automobilistica francese per ora non ha preso posizione, tenendo in attività i suoi 40mila dipendenti in terra russa. Terra che, nel 2021, ha rappresentato circa il 30% delle vendite del brand. Posizione netta la prende invece un’altra azienda francese: Leroy Merlin, che oltre a mantenere aperti gli oltre 120 negozi, ha dichiarato che “a seguito dell’uscita dal mercato russo di alcuni competitor, siamo pronti ad aumentare le forniture e ampliare la gamma”. In piena attività anche i 60 punti vendita Decathlon sparsi per il Paese.
Anche Koch Industries – società capitanata da Charles Koch, che secondo Bloomberg è il 20esimo uomo più ricco del Pianeta – ha affermato che non sospenderà le operazioni per non lasciare senza stipendio i suoi 600 dipendenti in Russia. Scelta difficile anche per alcune realtà italiane, come Unicredit. La banca made in Milan ha fatto sapere di “stare valutando” dato che c’è “bisogno di considerare seriamente l’impatto di un eventuale distacco dalla Russia”. Nel frattempo anche Intesa San Paolo sta continuando ad operare con i suoi 760 dipendenti sul territorio. Come sottolineato da vari analisti, per le banche il problema è particolarmente complesso, dato che ci sarebbero da vendere gli assets russi che, al momento, nessuno sarebbe disposto ad acquistare.
Infine, last but not least, troviamo Pirelli. Secondo Reuters la società italiana produce circa il 10% dei suoi pneumatici in Russia. Al momento il brand ha affermato di aver ridotto la produzione senza sospenderla, in modo da poter continuare a pagare i propri dipendenti russi.
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