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Quattro chiacchiere con Stefano Cecconi, AD di Aruba.it

Motorsport, investimenti, strategie, energia e futuro

Qualche giorno fa siamo stati invitati da Aruba.it a Imola, presso il leggendario Autodromo Internazionale Enzo e Dino Ferrari, in occasione del motomondiale di Superbike, dove Aruba.it corre (e vince) con l’Aruba Racing Team.

Per i pochissimi che non lo sanno

Aruba è un’azienda del settore informatico nata nel 1994 a Firenze. I servizi offerti vanno dalla registrazione dei domini, ai sistemi di posta elettronica e connettività fino a server dedicati, virtual private server, PEC… e l’elenco ovviamente potrebbe continuare.

Nel 2003 è stata inaugurata la loro prima webfarm ad Arezzo e nel 2017 il Global Cloud Data Center a Ponte San Pietro (Bergamo), terzo data center del gruppo in Italia. Nel frattempo, dal 2015 Aruba è letteralmente scesa in pista partecipando, in partnership con Ducati, al Campionato di Superbike (SBK per gli amici).

Superbike?

Superbike è il principale campionato per moto derivate dalla produzione di serie, ovvero da moto normalmente realizzate per la circolazione stradale, contrariamente alla MotoGP dove invece si gareggia con prototipi.

La nostra esperienza

Nel corso del venerdì, nell’apparente “quiete” delle prove libere che team e piloti sfruttano per mettere a punto le moto in previsione delle due gare del weekend, abbiamo avuto la possibilità di chiacchierare con Stefano Cecconi, Amministratore Delegato del gruppo o, meglio, come dichiarato anche dal suo outfit (giacca e cravatta rimpiazzate dai colori del team), Team Principal della scuderia. 

Siamo stati accolti nella sala briefing dell’Hospitality Aruba. Una chiacchierata lunga ed interessante, in cui si è parlato di motorsport, investimenti, strategie, energia e futuro. Una conversazione che cercheremo di riportare nei suoi punti salienti.

Premessa

Per chi non fosse mai stato in un circuito va fatta una piccola premessa, utile a comprendere meglio il contesto in cui siamo stati accolti. Ogni circuito da corsa è dotato di un paddock, un’area enorme che, attraverso i box, collega camion tecnici, ricambi, motorhome e hospitality alla pista vera e propria. 

Quest’area è popolata da meccanici, piloti, sponsor, giornalisti e naturalmente tifosi. Un immenso e coloratissimo villaggio che, come un circo, si monta, smonta e sposta di continuo (13 Round in 5 continenti). 

Non tutti gli ambienti però sono accessibili. L’Hospitality ad esempio è una struttura che i team predispongono per accogliere gli addetti ai lavori (ingegneri, meccanici, piloti, etc…) e gli ospiti su invito. Un posto dove potersi riposare, incontrare e consumare i pasti principali, ma al quale non tutti hanno accesso.

Per darvi una misura: si tratta di un ristorante capace di soddisfare una media di 1000 pasti al giorno per tutto il weekend di gara. A Imola erano circa 750 gli ospiti attesi dal team Aruba e dai suoi partner.

L’Hospitality si compone grazie a due grossi camion affiancati e dai quali, stendendo un telo, si crea un copertura che protegge da sole (venerdì) e pioggia (domenica).

I camion poi fungono da magazzini, uffici operativi e ovviamente sale riunioni. Sono a tutti gli effetti il campo-base di questi grandi team.

La chiacchierata

È in questo affascinante ed esclusivo contesto che Stefano Cecconi ci ha accolti e noi abbiamo subito voluto approfittare della sua duplice esperienza di AD e Team Manager per domandargli quali possono essere i vantaggi, per imprese e imprenditori, nell’affacciarsi al motorsport come piattaforma di promozione. 

“È sempre difficile dare dei consigli perché dipende tanto dal settore, dal tipo di clientela e dal target. Noi ad esempio abbiamo fatto questo ragionamento: avevamo bisogno per alcuni dei nostri servizi di una visibilità di massa perché erano servizi che si rivolgevano a una platea molto ampia, dove è più difficile fare una comunicazione mirata. L’equivalente dello spot televisivo: fai una pubblicità e la mandi. Li è brand puro, che noi esponiamo sulle moto contando sui minuti di esposizione televisiva. Il ragionamento che si va fare è: quanto costa la pubblicità tradizionale? Ecosa possiamo sperare di ottenere confrontando il costo della sponsorizzazione con l’esposizione del brand? Soprattutto se non ci possiamo mettere nessun messaggio o comunicare qualcosa di più specifico. 

Un investimento che funzionava, perché era l’alternativa dopo 5 anni di calcio (con il Torino) ed era per noi abbastanza equivalente. Una cosa molto diversa invece, e dipende a seconda del tipo di impresa, è se si ha una clientela non di massa ma di fascia alta, come quella che oggi cerchiamo di raggiungere con Aruba Enterprise”.

Aruba Enterprise è una divisione del gruppo dedicata alle aziende e specializzata nel studiare e offrire soluzioni e consulenze mirate per interventi e trasformazioni digitali. Quindi, tra i principali servizi, figurano: la fornitura di Infrastrutture IT, l’applicazione di Tecnologie Cloud e la Dematerializzazione dei processi. Tutte attività che per i clienti, come vedremo, possono portare a sostanziosi vantaggi sia in termini gestionali che economici.

“Nel caso del singolo cliente – continua Cecconil’approccio cambia completamente, hai una rapporto diretto, un commerciale che lo segue. Lo puoi invitare e accompagnare, facendogli vivere un’esperienza. Un conto è comprare un biglietto, invitando i clienti a eventi terzi, altra cosa invitarli in qualcosa dove sei più partecipe. Già lo sponsor ha un suo ruolo nell’economia di un team, noi abbiamo fatto uno step ulteriore, gestendo il team possiamo mostrare quello che stiamo facendo in prima persona. Ci si prende dei rischi in più: se va bene fai bella figura. Se le cose vanno male sei cretino due volte (ride) perché hai speso e fatto brutta figura. Però è un rischio che scegliendo Ducati e scegliendo bene i piloti… fare brutta figura era escluso. Se poi non vinci un po’ girano le scatole… vediamo se quest’anno riusciamo a sistemare anche questo tassello.”

Il consiglio: sicuramente la sponsorizzazione in generale, prima ancora di arrivare al motorsport, non è per tutti, perché investimenti troppo piccoli secondo me sono fini a se stessi. Essere sostanzialmente invisibili non porta granché. Se lo fai e lo fai bene può essere, non l’unico, ma un metodo molto efficiente anche di fare branding. Deve essere poi accompagnato con la comunicazione tradizionale. Devi avere tutta la tua campagna sui canali tradizionali dove porti il tuo messaggio e poi rinforzi esponendo il brand in un’attività come questa. Per le aziende di fascia più grande che possono permettersi investimenti più corposi, e magari hanno una clientela più ristretta, meno di massa, abbiamo visto che funzionata tanto. Funziona anche meglio del calcio: i 90’ di partita non ti consentono di avere nessuna interazione con il cliente. Lo inviti, è un ospite, non gli devi “rompere le scatole” e cinque minuti prima della fine della partita va via per non trovare casino. Li non riesci a fare granché. 

In un weekend di gare ci sono momenti tra i turni di prove, tra qualifiche, gara, dove parlare un po’ di business ci sta. Non è fastidioso o invasivo, qui riusciamo a fare molto di più. Quando riesci a portare in circuito per la prima volta un cliente è tutto nuovo. Vive un effetto WOW. È come andare a un concerto con il biglietto normale o entrare nel backstage, è un’esperienza più esclusiva. E questo nella maggior parte dei casi viene apprezzato. 

In sintesi: se uno se lo può permettere sicuramente è un’attività che fa bene, stando attenti a calibrare sempre l’investimento a quella che è la visibilità.” 

Naturalmente, aggiungiamo noi, le soluzioni di sponsorship nel motorsport sono svariate. Le scelte fatte da Aruba sono estremamente impegnative; esistono però una miriade di altre soluzioni più accessibili e questo anche solo restando in ambito SBK, senza parlare delle molte altre competizioni e categorie emergenti.

Inoltre, nello specifico caso di Aruba, è subentrato un ulteriore punto di riflessione: il calcio aveva un limite, si fermava all’Italia. Quando il business dell’azienda è diventato internazionale c’è stato bisogno di qualcosa che fosse seguito a livello globale. Il Motorsport (come altri sport) aveva questa caratteristica, con il plus di contenere molta molta tecnologia.

“Qui noi ci occupiamo comunque di tecnologia. C’è una componente IT nel team, puoi far vedere l’applicazione pratica di alcune tue tecnologie. È evidente che negli ultimi anni c’è stata un’esplosione dell’elettronica e della sua importanza nella prestazione della moto. Si sono moltiplicati a dismisura i sensori e anzi, proprio per limitare questo aspetto, è il regolamento che a un certo punto ci limita nella quantità di canali che possono gestire le centraline. Questi dati devono essere processati, sostanzialmente in tempo reale, anche se ci è proibito avere una connessione wireless con la moto.”

“Noi la moto la vediamo come un dispositivo ethernet. Appena arriva, quello che le viene collegato è sostanzialmente un cavo di rete. A quel punto si scarica l’acquisizione e si devono rapidamente vedere e processare i dati, per pianificare in pochissimo tempo le modifiche da apportare a tutte le impostazioni e le mappature, per poi ricaricarle sulla moto e rimetterla nelle mani del pilota.  

C’è anche un piccola parte di telecomunicazioni. Tutto quello che scarichiamo noi localmente lo processiamo prima in circuito e poi viene mandato anche in Ducati, nel caso ci fosse bisogno di aiuto ulteriore da “casa”. Questo significa avere un server, storage e naturalmente tutto il networking. Tutto questo deve funzionare perché se succede qualcosa non era “nice to have”. Qui se qualcosa non funziona la prestazione è totalmente compromessa. Quindi c’è dell’IT critico che deve funzionare a dovere e avere determinate prestazioni e affidabilità. Che in fine dei conti assomiglia tanto al nostro mestiere normale.” 

E nel frattempo in che direzione sta andando l’azienda?

“Siamo nati e cresciuti monosettore, quasi monoprodotto, ma da diverso tempo stiamo cercando di diversificare. Adesso facciamo una quantità di cose abbastanza eterogenea: dalla tessera sanitaria fino al cloud per la pubblica amministrazione. Oppure i Lay dei passaporti che forniamo al poligrafico, un mestiere diverso rispetto a tanti altri che facciamo. Lo vediamo però come un passo naturale. La pubblica amministrazione spende tanto e il nostro compito è proporre soluzioni che consentano di spendere meno. 

C’è ancora tanto da fare perché se guardiamo l’applicazione del CAD non siamo a buon punto. Anche le dotazioni minime di backup e disaster recovery che tutti quanti sarebbero obbligati ad avere, non le hanno. Il mercato quindi deve ancora esplodere. Anzi, credo che arriveremo a un livello anche più locale. Ma non soltanto dal punto di vista del cliente, anche infrastrutturale. Se cominciamo veramente a concentrare gli investimenti futuri avremo più Data Center distribuiti. Questo anche grazie al 5G, che più che per la connettività, romperà definitivamente le acque rispetto alla quantità di dispositivi connessi e le prestazioni che richiederanno in termini di latenza non consentiranno di servire tutto il paese da Milano. 

Ciò è dimostrato anche dal nostro piano di sviluppo: avevamo Arezzo, ma da li non potevamo servire tutto il mercato, abbiamo fatto un investimento al nord, da subito. Stavamo ancora aprendo a Bergamo che abbiano annunciato l’investimento su Roma. E non basterà nemmeno quello. Da qui a 10 anni serviranno molti più Data Center. Oggi un Data Center sotto i 10 Megawatt difficilmente riesce a giustificare tutte le sotto infrastrutture che servono a gestirlo. Quindi facendo economica di scala si riesce a fare volumi e risparmiare. l Data Center diventeranno 4/5 volte la dimensione media di quella che hanno ora. Noi abbiamo già iniziato a parlare di Megawatt con il singolo cliente. Tanto è vero che stiamo pianificando strutture da 90 Megawatt. Ma è una dimensione che in questo momento diventa troppo critica. E non potendo fare Data Center troppo grandi, la soluzione è distribuirli.”

Come gestire tutto questo? Soprattutto gli enormi consumi di un Data Center?

“Purtroppo, perché non dovrebbe essere così, l’Italia spesso e volentieri la si può prevedere guardando cosa succede da altre parti, con un delta temporale lo si vedrà succedere anche da noi. Londra, Amsterdam, Parigi sono in crisi. Fare altri Data Center in quelle città è difficoltoso. Una volta il problema era se ci arrivava la fibra, ora ci si chiede se arriva abbastanza corrente.

Una pianificazione che va fatta in termini di anni, iniziando due tre anni prima di quando ne avrai bisogno. Sui Data Center siamo produttori di energia da fonti rinnovabili e il più possibile localmente. Il fotovoltaico è il più facile, grazie alle coperture degli edifici bassi e piatti, questo lo stiamo già facendo a Bergamo e Roma è progettata allo stesso modo. Ma a Bergamo abbiamo anche l’idroelettrico. 

Stiamo comprando e investendo in centrali idroelettriche a fonte rinnovabile intorno a quella zona. Sperando in un cambiamento normativo che per ora non c’è stato, di liberare un po’ il mercato in modo da consentire l’autoconsumo anche di energia non prodotta sul posto. Ora non è consentito e ci sono talmente tanti oneri di sistema per il trasporto, che conviene comprare dove serve.”

Una filosofia apparentemente molto Green…

“Nel nostro settore l’efficienza è uno dei motivi di competizione. E’ troppo facile per noi fare cose green.”

“Noi lavoriamo in Italia, ma viviamo sul pianeta terra. L’Italia è un paese dove, soprattutto se hai dei figli, devi pensarci: quello che faccio ha un impatto? Quando si comincia a parlare di grosse potenze, sei un impresa energivora. Un Data Center è capace di consumare come un acciaieria e ha un impatto. Esistono tante applicazioni industriali che hanno solo dei picchi di consumo. Noi invece siamo costanti. Un calcolo al volo potrebbe paragonare i consumi residenziali della provincia di Bergamo a un nostro singolo edificio. Un peso rilevante.

Quello che si sta facendo ha un impatto, ma ci si rende anche conto dell’inefficienza della rete elettrica. Se vai a vedere cosa viene prodotto, qualunque sia la forma di produzione, nel trasporto, trasformazione e produzione se ne perde il 30/40% di quella prodotta. Una dispersione che con la nostra produzione in locale non abbiamo. Quindi, se invece di trasportare, produco localmente, costa uguale, ma non ho dispersione. E prima ancora di pensare al messaggio green questo è un vantaggio per l’azienda. E per le aziende energivore dovrebbe essere obbligatorio guardare alle forme di autoproduzione o dove non possibile, quantomeno la cogenerazione ad alto rendimento. Se cominci a mettere insieme queste cose e applicarle a tutti i settori industriali fai una differenza enorme, non possiamo obbligare gli altri, però lo possiamo fare quantomeno per noi. E tra l’altro è un win win. E’ eticamente corretto ma oltretutto, con tutte queste tecnologie ad aumentare l’efficienza energetica del tuo Data Center, hai meno sprechi, lo ribalti sul prezzo, sul cliente e diventi più competitivo dal punto di vista commerciale. Non c’è un NO in tutto questo.

L’unico svantaggio è che devi fare degli investimenti, anche abbastanza corposi. Se devi indebitarti e prendere rischi eccessivi aspetta e fallo appena possibile. E qui arriviamo all’ostacolo principale: l’incertezza normativa, che ammazza buona parte delle buone intenzioni. L’esempio è il fotovoltaico, con piani di investimento a 20 anni, poi rivisti su 30, sono cose che effettivamente mettono in difficoltà. E quando pianifichi investimenti con orizzonti di 20/30 anni sono cose che incidono. La scelta solo sul piano etico può farla un imprenditore, ma un manager come fa? Come giustifica un rischio del genere davanti al consiglio di amministrazione? “

“Al pianeta, del business, gliene fregava niente ne prima ne dopo.”

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