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25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne: denunciare, parlare, esistere

Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 1999, che recita: «Si intende per violenza contro le donne qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, comprese le minacce, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata». 

La data coincide con il femminicidio delle sorelle Mirabal, Patria, Minerva e Maria Teresa, uccise il 25 novembre 1960 su ordine del dittatore della Repubblica Dominicana, Rafael Leonidas Trujillo. Le tre sorelle Mirabal erano attiviste che lottavano contro la dittatura del generale Trujillo e quel 25 novembre del 1960 furono fermate dai militari, stuprate, torturate, strangolate e gettate in un precipizio per simulare un incidente.

«Oggi è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne e anche l’Aula di Palazzo Madama si è fermata a riflettere su quella che è la più tragica mattanza del mondo contemporaneo”. Lo ha affermato la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, durante l’evento “No alla violenza – Il grido delle donne” tenutosi a Palazzo Madama.  

Se c’è una cosa vera, reale e concreta che riguarda la violenza di genere è che per poterne parlare bisogna saperla vedere, distinguere, bisogna sapere come riconoscerla. Carlotta Vagnoli nel suo saggio Maledetta Sfortuna descrive come i gesti di violenza siano molto diversi tra loro, e si nascondano nel nostro quotidiano, nei giornali che sfogliamo, nelle parole che sentiamo a scuola o al lavoro. La violenza di genere ha lungo approdo, un percorso che fonda le sue radici nel patrimonio culturale comune e attraversa il linguaggio, l’educazione e i ruoli patriarcali di genere che sono alla base della discriminazione, che poi sfocia in violenza. 

25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro

Giornata contro la violenza sulle donne

Secondo l’ultimo report pubblicato dal Viminale per la Giornata contro la violenza sulle donne, nel 2021 ogni giorno in Italia 89 donne sono state vittime di violenza. Dall’1 gennaio al 21 novembre quest’anno in Italia sono stati commessi 263 omicidi, con 109 vittime donne di cui 93 uccise in ambito familiare, di queste, 63 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. La parola giusta per parlare di questo fenomeno è femminicidio, una parola che fino a qualche anno fa non veniva presa in considerazione, nessuno la pronunciava al di fuori degli ambiti di attivismo contro la violenza alle donne.

Quel che si asseriva era l’inutilità di un termine che poteva benissimo essere corrisposto dalla parola omicidio, perché aggiungere ulteriore complessità dopo tutto? Perché omicidio non basta, il femminicidio ci dice che ad essere ammazzate ogni 72 ore sono donne ingabbiate dentro dinamiche tossiche di relazione, un fenomeno sistemico, tristemente democratico, alla cui base c’è una cultura maschilista, un modello socio-culturale asfittico e patriarcale, che spinge gli uomini a considerare le donne una subordinazione, una loro proprietà, e ad attuare dinamiche di possesso che è la società stessa a normalizzare, un processo di negazione e controllo che la società ha creato e supportato, un clima culturale diffusissimo che si combatte solo con strumenti educativi, come progetti nelle scuole e leggi per abbattere la discriminazione delle donne, in ogni ambito. 

Sempre nel saggio Maledetta Sfortuna, si legge: “Siamo tutte costantemente esposte. Gli uomini sono tutti, costantemente esposti a una cultura che fa della violenza sugli altri il maggior indicatore di potere. Potenzialmente, per il sistema culturale e di stereotipi in cui cresciamo, qualunque uomo potrebbe finirci. Non tutti, certo, ma la matrice patriarcale lo insegna a tutti”. Questo significa che degli stereotipi, della violenza di genere, della discriminazione, siamo tutti investiti, siamo tutti permeati. È qualcosa che interessa e coinvolge tutti, sempre. In Italia però c’è una resistenza culturale fortissima, anche e soprattutto politica sulla questione dei ruoli di genere.

Una di queste attraversa il tema linguaggio: il lessico sessista si propaga attraverso allusioni, commenti estetici a cui vengono sottoposte le donne e i loro corpi, commenti che indicano precisamente come il corpo femminile sia sottoposto a un giudizio costante, sia un bersaglio mobile delle esternazioni maschili. La nascita del lessico sessista è l’indicatore preciso degli stereotipi di genere che vogliono “il maschio performativo, aggressivo e incline all’iper-sessualità, la donna passiva, preda e pronta a essere conquistata dalla virilità. Il corpo femminile è costantemente soggetto a commenti non richiesti e ad aspettative di bellezza proprio per screditare la qualifica di una persona e rivendicare la piacevolezza che l’occhio maschile richiede”.

Denunciare, parlare, esistere

Come si legge nel saggio di Michela Murgia, Stai zitta, “Non è strano che il risultato di questa pedagogia tossica sia che ogni ragazzina pensi di essere bella solo se trova qualcuno che glielo grida a ogni angolo di strada o le mette like sulla bacheca di un social network, e dentro questa dinamica è perfettamente logico che in ogni ambito pubblico il giudizio sulla maggiore o minore desiderabilità delle donne venga espresso di continuo anche in contesti in cui non c’entra assolutamente niente”. 

La violenza di genere ha lungo approdo, un percorso che fonda le sue radici nel patrimonio culturale comune, e si riverbera attraverso quegli atteggiamenti che tendono a giustificare e normalizzare la violenza subita dalle donne, un complesso di credenze noto come rape culture, credenze che nella nostra società agiscono indisturbate. Come si evince dal saggio Transforming a Rape Culture di Buchwald, Fletcher e Roth:

“La cultura dello stupro è un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come «normale» il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia «un fatto della vita», inevitabile come la morte o le tasse”. 

È evidente a questo punto che per poter parlare della violenza di genere bisogna saperla vedere, distinguere, bisogna sapere come riconoscerla. La violenza si declina in molte forme, come in uno schema piramidale, alla cui base c’è il catcalling (molestia maschile che consiste in commenti indesiderati, allusioni sessuali e palpeggiamenti sui mezzi o per strada, rivolti a una donna in modo esplicito, volgare e talvolta minaccioso), lo slut shaming (stigma della puttana), il victim blaming (la colpevolizzazione della vittima che consiste nel ritenerla parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto), gli stereotipi, il body shaming, il sessismo, e poi salendo, lungo la piramide dell’odio, le molestie, lo stalking, la condivisione non consensuale di materiale intimo, le violenze fisiche e psicologiche, e alla fine, in vetta, il femminicidio. 

Dove si può e si deve intervenire è nella connivenza, sistemica, sociale, istituzionale, e prendere sul serio il fenomeno della violenza patriarcale, di cui i femminicidi sono la punta dell’iceberg. Ad esempio aumentando, o anche solo sbloccando i fondi che i Governi del mondo dovrebbero erogare per combattere la violenza di genere: in data 15 ottobre 2021, solo il 2% dei fondi per il 2020 è arrivato a centri antiviolenza e case rifugio.

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Lucia Tedesco

Giornalista, femminista, critica cinematografica e soprattutto direttrice di TechPrincess, con passione ed entusiasmo. È la storia, non chi la racconta.

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