In questa recensione vi parliamo di Ero una Popstar, uscito su Netflix il 16 settembre, saldo al numero 8 nella top 10 dei film più visti sulla piattaforma di questa settimana. Ambientata in una non meglio specificata cittadina inglese del 2022, la pellicola ci racconta le vicende di Vince, che 20 anni prima era noto con lo pseudonimo di Vinnie D, leader di una popolarissima boyband chiamata Stereo Dream (un giusto mix tra Backstreet Boys e i Blue).
Ma la vita scorre, gli anni passano e il successo pure, e Vince nel 2022 si ritrova solo, adulto, abbandonato dall’industria discografica e costretto ad elemosinare date nei piccoli club della cittadina. E poi la beffa: il suo ex compagno di band, Austin, è diventato un’apprezzatissimo cantante popstar solista, con un percorso che potrebbe ricordare quello Cesare Cremonini dopo i Lùnapop.
Vince cerca il riscatto. Cerca una seconda possibilità. E soprattutto cerca una via di fuga dai suoi demoni, in particolare il rimpianto per non aver detto addio al fratello minore, morto prematuramente a causa una malattia. Sul proprio cammino troverà una persona speciale: Stevie, un diciottenne nello spettro dell’autismo con uno spiccato senso del ritmo. I due, accomunati da una passione in comune, formeranno un legame umano che va ben oltre la musica.
La musica come forma di redenzione e socialità
Vince e Stevie all’apparenza non potrebbero essere più distanti l’uno dall’altro. Il primo è uno sfrontato artista che ha conosciuto le luci della ribalta e cerca una seconda possibilità negli spietati ambienti della discografia mainstream. Il secondo è invece un timido e impacciato batterista, che quando suona riesce ad esprimere a pieno sé stesso a suon di colpi di bacchette. Stevie ambisce al conservatorio, ama la musica classica di Bach e si rivede nei grandi batteristi fusion e jazz. A Vince invece interessa il palco, la ricerca del testo giusto per raccontare ad un vero pubblico le sue emozioni.
Vince ha infatti vissuto gli ultimi 20 anni con il rimpianto di aver scelto di partire in tour invece che stare vicino a suo fratello minore, affetto da una malattia terminale. Il senso di colpa lo tormenta, il che traspare nei suoi testi, e la musica è per lui anche e soprattutto uno strumento di redenzione.
Nonostante queste apparenti differenze, rapporto che i due instaurano è incredibilmente sincero. Vince rivede in Stevie il fratello minore che ha perso, oltre che uno straordinario musicista. Al contrario Stevie trova in Vince un amico, qualcuno che crede in lui e nel suo talento. Nel mezzo c’è l’apprensiva madre single di Stevie, Amber, che imparerà lentamente a fidarsi del nuovo amico di suo figlio.
Significativo è il fatto che i due, dopo il primo incontro, si ritrovino in una sala a suonare musica africana con dei tamburi. La ripartenza della carriera di Vince lì dove l’intera musica è iniziata, tra ritmi tribali e mani che battono sulle pelli. La musica come redenzione e socialità, dicevamo sopra, ma anche come rinascita. La musica come forma primordiale di espressione. La musica come ritorno alla vita.
La recensione di Ero una popstar: presupposti banali per uno sviluppo inaspettato
Dobbiamo ammetterlo: le aspettative per questo film erano basse. La storia dell’ex popstar dimenticata che trova la sua strada per un nuovo successo ci è sembrata fin da subito banale e già vista. Come solo il cinema sa fare però, sono bastati pochi minuti a farci cambiare idea.
Ero una Popstar non è un film sulla parabola ascendente e discendente di un artista. È molto di più. È un film sui rapporti umani, sulle urgenze espressive, sulla necessità di essere coraggiosi nel compiere scelte di vita. Come Vince ad esempio, che si ritrova nuovamente a scegliere tra la carriera e gli affetti, esattamente come era avvenuto 20 anni prima. O ancora la necessità ossessiva di Stevie di migliorarsi per entrare al conservatorio. Ma soprattutto è un film sulle seconde possibilità.
*ATTENZIONE IL PROSSIMO PARAGRAFO CONTIENE SPOILER*
C’è una sequenza in particolare, nella seconda metà della pellicola, in cui si ha la sensazione che tutto sia al suo posto. Ma si sa che non è così. A Vince viene offerto un importante contratto per rilanciare la sua carriera, ma la proposta prevede il tagliare fuori Stevie. Quest’ultimo sembra felice mentre fa visita al conservatorio dei suoi sogni. Amber, un tempo una talentuosa ballerina che ha lasciato tutto per provvedere ai bisogni del figlio, trova per la prima volta il tempo di ritornare in sala da ballo, e sembra felice.
Ogni cosa è al suo posto quindi. Vince pronto a rilanciare la sua carriera. Stevie che trova il suo posto nel mondo. Amber che si spoglia dal ruolo di madre iperprotettiva. Ma sappiamo tutti che non può andare così. Vince dovrà fare la scelta giusta e non ricadere nel medesimo errore di 20 anni prima. Stevie ha bisogno di un amico vero e Amber sa benissimo che le preoccupazioni per suo figlio la attenderanno all’uscita dalla sala da ballo.
Alla fine della storia Vince e Stevie appaiono cambiati. I due si sono completati a vicenda, come effettivamente fanno le sezioni ritmiche e armoniche in una canzone. Nell’ultima scena Stevie suona petto in fuori e spalle dritte, proprio come gli aveva insegnato Vince a inizio pellicola. Quest’ultimo invece è stato in grado, per la prima volta, di mettere da parte il proprio ego. La fama è passeggera, i sentimenti no.
Tirando le somme della recensione: com’è Ero una Popstar?
Saranno state le basse aspettative, o sarà che i due protagonisti (interpretati dal rapper e attore britannico Ed Skrein e Leo Long) sono stati assolutamente credibili, ad ogni modo il film è riuscito a convincerci. Certo la trama non è priva di importanti lacune narrative, e l’emozionante finale avrebbe beneficiato di qualche risposta in più. Del tipo: “come mai gli Stereo Dream si sono sciolti? Perchè Austin, sebbene appaia giovane, sta organizzando il suo tour d’addio? Com’è finita tra Vince e la casa discografica?”.
Riuscendo ad ignorare questi aspetti secondari, in questa nostra recensione ci sentiamo di approvare a pieno Ero una Popstar e la regia di Eddie Sternberg. Una gradevole narrazione della durata di 104 minuti che scorrono via, tra stereotipi sulla discografia e interessanti riflessioni sulle connessioni che solo l’arte è in grado di creare, soprattutto in contesti difficili.
Non manca una velata critica al mondo della spietata macchina discografica contemporanea, fatta di followers, views e produttori alla costante ricerca di sound sempre più moderni ma sempre più artificiali. Sarebbe stato interessante approfondire di più questo aspetto, ma immaginiamo che il film avesse semplicemente urgenza di raccontare altro, e quindi glielo perdoniamo.
La psicologia dei personaggi, le loro motivazioni, le loro paure e le loro insicurezze vengono tutte fuori. E quando questo accade vuol dire che il film è ben scritto.
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