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Gli Editoriali di Tech PrincessRubriche

La Francia vieta l’inglese nei videogiochi. E fa bene

Una certa rivalità con i nostri cugini d’Oltralpe non deve farci perdere la lucidità, e non deve impedirci di plaudire alle scelte coraggiose dei francesi.

Come quella, che va ben oltre la pura ragione linguistica, di cui vi abbiamo già dato brevemente notizia. Ovvero il bando della lingua inglese dal mondo del gaming… scusate, dei videogiochi.

Partiamo proprio dalla notizia medesima, che ci permette di fare poi un discorso articolato (e forse, visti i tempi, un po’ controcorrente) contro l’uso supino e acritico della lingua inglese.

La Francia vieta l’inglese nell’universo dei videogiochi

Dicevamo che la Francia è intervenuta in modo piuttosto drastico su un argomento linguistico, ma che non è solo tale.

La Commission d’enrichissement de la langue française, che fa capo al ministero della Cultura, ha l’obiettivo di “creare nuovi termini ed espressioni per colmare le lacune nel nostro vocabolario e designare in francese i concetti e le realtà che appaiono sotto nomi stranieri.” Una specie di Accademia della Crusca forse un po’ meno conservatrice, insomma.

Ebbene, la Commission ha stilato un documento di 4 pagine in cui una serie di parole inglesi del mondo dei videogiochi sono sostituite da parole o locuzioni francesi.

E non è che se ne consigli l’utilizzo: nell’uso ufficiale bisogna proprio utilizzare il francese. La Francia vieta l’inglese, dunque, nel mondo dei videogiochi.

GAMING

Alcuni esempi. E due motivazioni

“Pro-gamer”, ad esempio, diventa “joueur professionnel”. E “streamer” in francese sarà “joueur-animateur en direct”.

“Cloud gaming” si trasforma in “jeu video en cloud”, ed “eSports” in “jeu video de competition”.

L’intervento muove da due problemi. Il primo è che i moltissimi anglismi del settore dei videogiochi possono rappresentare una “barriera alla comprensione” per chi videogiocatore non è. Inoltre, la preoccupazione dell’Académie Française è che il francese stia andando incontro a un “degrado che non deve essere visto come inevitabile”.

A noi non fa ridere

Spiace leggere su uno dei principali quotidiani italiani che uno di questi esempi di messa al bando della lingua inglese farebbe ridere. L’esempio in questione riguarda la sigla DLC, che in francese diventa “contenu téléchargeable additionnel”. Ci si domanda ironicamente se, così traducendo, non si passi più tempo a pronunciare la locuzione che a scaricare i contenuti.

Ironia che ci pare gratuita. DLC è un doppio ostacolo linguistico: è un acronimo (per “downlodable content”) ed è in inglese. Mentre “contenu téléchargeable additionnel” appare immediatamente comprensibile a qualunque parlante francese.

Cittadini del mondo? No, affetti da provincialismo

Il punto è un altro. “Avere una call” è più cool (appunto) che “fare una telefonata”. Un briefing è sì una riunione, ma tra persone serie. Così come i meeting si fanno in cravatta, mentre agli incontri si va in pantaloncini corti. Il mondo parla inglese, e noi ci limitiamo a stare a passo col mondo, no?

No. Abbiamo, noi italiani e i nostri vicini francesi, lingue bellissime e ricchissime. Sforzarsi di tradurre parole o frasi inglesi nel nostro idioma non ci rende più rozzi, bensì ci palesa come più consapevoli. Perché pronunceremo parole di cui conosciamo il significato da quando abbiamo imparato il linguaggio.

Usare una lingua straniera al solo scopo di mostrarsi à la page (appunto, e due) è un imbarazzante segnale di provincialismo. Come il povero brigadiere protagonista del celebre brano di Italo Calvino, L’antilingua, convinto che parlar difficile sia sinonimo di parlare bene.

Quelli che dicono di aver matchato i dati sono, di solito, gli stessi che pronunciano “mass mìdia” anziché “mass media”, ignorando bellamente che si tratta di un anglolatinismo.

E in Italia?

La Francia vieta l’inglese nel mondo dei videogiochi (perché, in effetti, dire gaming?) e noi ironizziamo pensando al fatto che i francesi chiamino il computer “ordinateur.”

Anziché concentrarci sul fatto che nel nostro Paese circa il circa il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale. Siamo tra le ultime posizioni in Europa.

Per fortuna, di tanto in tanto nascono iniziative meritorie per difendere (in modo intelligente e non miope) la nostra lingua.

Come quella che qualche anno fa ha lanciato Annamaria Testa, la grande pubblicitaria ed esperta in comunicazione.

La campagna si chiamava #dilloinitaliano, e invitava l’Accademia della crusca a farsi portavoce dell’uso della nostra lingua, perché “(spesso oscuri) termini inglesi oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese”.

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Un (quasi) decalogo da imparare a memoria

L’articolo, un bignami di intelligenza e buon senso, va letto tutto. Noi ci limitiamo a trascrivere gli otto punti per cui secondo Testa è bene, fin dove ragionevolmente possibile, preferire l’italiano all’inglese.

1) Adoperare parole italiane aiuta a farsi capire da tutti. Rende i discorsi più chiari ed efficaci. È un fatto di trasparenza e di democrazia.

2) Per il buon uso della lingua, esempi autorevoli e buone pratiche quotidiane sono più efficaci di qualsiasi prescrizione.

3) La nostra lingua è un valore. Studiata e amata nel mondo, è un potente strumento di promozione del nostro paese.

4) Essere bilingui è un vantaggio. Ma non significa infarcire di termini inglesi un discorso italiano, o viceversa. In un paese che parla poco le lingue straniere questa non è la soluzione, ma è parte del problema.

5) In itanglese è facile usare termini in modo goffo o scorretto, o a sproposito. O sbagliare nel pronunciarli. Chi parla come mangia parla meglio.

6) Da Dante a Galileo, da Leopardi a Fellini: la lingua italiana è la specifica forma in cui si articolano il nostro pensiero e la nostra creatività.

7) Se il nostro tessuto linguistico è robusto, tutelato e condiviso, quando serve può essere arricchito, e non lacerato, anche dall’inserzione di utili o evocativi termini non italiani.

8) L’italiano siamo tutti noi: gli italiani, forti della nostra identità, consapevoli delle nostre radici, aperti verso il mondo.

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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