«Io credo nell’America. L’America fece la mia fortuna». Si apre con queste parole, pronunciate da un immigrato italiano che emerge dall’ombra, in cerca della giustizia che la legge statunitense non può dargli, un’opera per la quale per una volta possiamo scomodare il termine “capolavoro”, senza il minimo timore di essere smentiti. A 50 anni dal suo esordio, datato 15 marzo 1972, Il padrino di Francis Ford Coppola è infatti indiscutibilmente una pietra miliare della settima arte, capace di essere al tempo stesso lucida e sinistra rappresentazione della mafia italo-americana, lugubre tragedia shakespeariana e spietata allegoria del capitalismo e delle sue molteplici diramazioni. Un’opera che nel corso degli anni è entrata di diritto nell’immaginario collettivo, ispirando nuove generazioni di cineasti e contaminando anche altri media come la televisione (la serie I Soprano ne è l’esempio più lampante) e i videogiochi (da ricordare l’omonimo titolo del 2006 di Electronic Arts).
Anche se oggi è difficile persino immaginare un mondo senza Il padrino e i suoi seguiti, l’adattamento dell’omonimo romanzo di Mario Puzo ha faticato non poco per arrivare sul grande schermo. Nonostante la cifra relativamente bassa a cui sono stati venduti i diritti e l’enorme successo del libro, scritto da Puzo anche per ripagare i suoi ingenti debiti legati al gioco d’azzardo, la Paramount ha tentennato nel dare il via al progetto. Troppo alti i rischi legati allo stesso cinema, che in quel momento sembrava sull’orlo del collasso (esattamente come adesso) e arduo persino trovare un regista: fra i tanti rifiuti, spiccano quelli di Sergio Leone, Elia Kazan e Arthur Penn. Dopo un periodo di esitazione, dovuto alla paura di esaltare la malavita, Coppola accettò infine di dirigere Il padrino, anche per recuperare dal flop commerciale de L’uomo che fuggì dal futuro di George Lucas, da lui prodotto.
Il padrino: la genesi
Finiti i problemi? Tutt’altro. Una volta a bordo del progetto, Coppola ha dovuto confrontarsi con i problemi di budget (la produzione voleva addirittura girare a Saint Louis invece che a New York, in modo tale da contenere i costi), con i contrasti ad alcune sue scelte creative, come la presenza nel cast di Marlon Brando e Al Pacino (entrambi sgraditi ai produttori) e addirittura con la stessa criminalità organizzata, che ha chiesto e ottenuto che nel corso de Il padrino non venisse pronunciata o mostrata la parola “mafia”, per poi fare notevoli pressioni per inserire nel cast persone a loro care.
La diffidenza e la preoccupazione generale non cessarono neanche con l’inizio delle riprese: finché non è stata girata la scena chiave del confronto fra Michael Corleone, Sollozzo e McCluskey, sia Coppola che Al Pacino sono stati sull’orlo del licenziamento. Fortunatamente, le cose sono andate per il verso giusto, e negli ultimi 50 anni abbiamo potuto vedere e rivedere Il padrino, che recentemente è anche tornato in sala in versione restaurata, conquistando così nuove generazioni di spettatori.
Torniamo quindi a quella frase iniziale dell’impresario di pompe funebri Amerigo Bonasera, che nel giorno del matrimonio di Connie Corleone si rivolge a suo padre don Vito, reclamando una ritorsione contro coloro che hanno violentato e sfigurato sua figlia. Una scena iniziale che, come spesso accade per i capolavori, è una vera e propria dichiarazione d’intenti, capace di fornire allo spettatore le coordinate di tutto ciò che vedrà successivamente.
Un trattato sul male
Avvolti dalla tenebrosa fotografia di Gordon Willis e abbagliati dalla incommentabile prova attoriale di Marlon Brando (ottenuta con le guance riempite di cotone, in modo da dare al suo Vito Corleone il suo caratteristico look da bulldog e renderlo al tempo stesso più anziano), rischiamo di non cogliere che la storia di Bonasera è la stessa della famiglia Corleone, e più in generale di tutta la malavita organizzata italoamericana: un immigrato messo in pericolo da persone all’interno degli Stati Uniti, in cerca di vendetta. Niente di più e niente di meno di quello a cui assisteremo nel corso di quasi 3 ore di racconto, costellate da sequenze e dialoghi da antologia.
Il padrino è un vero e proprio trattato sul male, distaccato ma mai benevolo nei confronti dei propri personaggi. Un male che serpeggia quasi invisibile già durante l’allegra cerimonia nuziale iniziale, i cui tentacoli sono le tante persone coinvolte nell’organizzazione, pronti a fare proposte che non si possono rifiutare o a commettere vere e proprie esecuzioni a sangue freddo di chiunque violi le rigide regole morali della famiglia. Un mondo già esplorato in precedenza al cinema, che però Coppola rappresenta con un’umanità che lascia letteralmente spiazzati: ci si trova così a parteggiare con sorprendente naturalezza per un criminale con decenni di esperienza che si abbandona ad affettuosi giochi col nipotino o per il fidato Clemenza, che riserva a un pacco di cannoli la stessa attenzione appena data a un assassinio.
Un monumentale Al Pacino
La riflessione di Coppola sul male si intreccia con la rappresentazione degli usi e costumi italiani, che per via delle sue origini lucane conosce molto bene. Le malefatte dell’organizzazione si alternano a scene di vita in famiglia, gli accordi fra clan mafiosi hanno lo stesso valore delle chiacchiere sul ragù, le sinistre minacce rivolte ai nemici lasciano spazio a spassose battute in un irresistibile mix fra inglese, italiano e le più disparate influenze dialettali. Nel frattempo, il male continua a diffondersi, e affascina anche Michael, il membro dei Corleone apparentemente più lontano dagli affari di famiglia. Un giovane e affidabile veterano della seconda guerra mondiale si trasforma così lentamente nel nuovo leader della famiglia, pronto a portare avanti gli affari con un piglio ancora più cinico e autoritario di quello del padre, indebolito dopo un attentato ai suoi danni.
Al Pacino è semplicemente monumentale nel tratteggiare l’arco narrativo di Michael, ponendo al tempo stesso le basi per l’ulteriore evoluzione del personaggio nei capitoli successivi. La sua nomination all’Oscar come migliore attore non protagonista, nonostante abbia più screen time del vincitore nella categoria dell’attore protagonista Marlon Brando, è uno dei più clamorosi abbagli della storia della manifestazione, nonché il primo di una lunga serie di candidature mancate per il premio, che arriverà solo nel 1993 per la sua prova in Scent of a Woman – Profumo di donna. Da incorniciare la sua interpretazione nelle scene ambientate in Sicilia, dove Michael si rifugia dopo l’omicidio di Sollozzo e trova l’amore dell’eterea Apollonia. Una performance affidata quasi esclusivamente alla mimica facciale, che coincide con gli ultimi sprazzi di umanità di Michael prima della sua discesa in un oblio fatto di violenza e prevaricazione.
Il padrino e il capitalismo
Se Il padrino è ancora oggi una delle più intense ed efficaci riflessioni sul capitalismo, è anche grazie a Michael Corleone, ideale antesignano dei tanti rappresentanti del potere economico portati sul grande schermo nei decenni successivi, come il Gordon Gekko di Michael Douglas in Wall Street. Discendente apparentemente immacolato di un sistema marcio e corrotto, Michael incarna la progressiva deriva morale degli uomini di potere, che si lasciano progressivamente alle spalle il bizzarro ma coerente codice d’onore dei loro padri per trasformare in belve sempre più prive di scrupoli, disposte a cedere al più lucido e sprezzante cinismo pur di prevalere sui rivali. «Niente di personale, Sonny, sono solo affari», dice al fratello maggiore. La definizione perfetta del più spietato capitalismo, sottolineata dal ruolo marginale delle donne ne Il padrino: silenziosa la moglie di Vito, Carmela, costantemente mortificata Connie, fondamentalmente inerme la compagna di Michael, Kay (Diane Keaton).
Di tutt’altra pasta rispetto al figlio è don Vito, che anche di fronte all’omicidio del figlio Sonny ha ancora la capacità di ricomporre la faida con le altre famiglie e di portare avanti il suo bagaglio di immorali, abietti ma tangibili valori. Il padrino di Marlon Brando ha visto e praticato talmente tanta violenza da non essere più in grado di tracciare una linea di confine tra il bene e il male. «Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì, ma non avete il diritto di giudicarmi», dirà in proposito qualche anno dopo il suo Kurtz in Apocalypse Now, in un’altra straordinaria riflessione sull’essere umano e sulla malvagità messa in scena da Francis Ford Coppola.
Le eterne musiche di Nino Rota
Anche se non può contare sulla fiducia incondizionata della produzione, ne Il padrino Francis Ford Coppola si prende continuamente dei notevoli rischi registici, uscendone sempre vincitore. I tempi dilatati seguiti da improvvise scariche di violenza, le straordinarie musiche imbevute di italianità di Nino Rota, dominate da un tema tanto suggestivo quanto inquietante, la parentesi siciliana e la successiva ellissi temporale, che ci consegnano un Michael già calato nella parte del boss, e il montaggio alternato sul battesimo del nipote del nuovo padrino, durante il quale vengono assassinati tutti i capofamiglia rivali, sono scelte ardite e in controtendenza col cinema dell’epoca, che avrebbero potuto portare a un cocente fallimento e che si rivelano invece preziosi tasselli di un mosaico narrativo pressoché perfetto.
Fondamentale poi l’apporto del nutrito gruppo di personaggi secondari all’interno di un magnifico cast corale. Ancora una volta, Coppola dimostra tutta la sua maestria e il suo fiuto cinematografico scegliendo i volti perfetti per personaggi costantemente in bilico fra scontri a fuoco e la più disarmante banalità. In mezzo a un’impressionante moltitudine di straordinari caratteristi, che sprizzano letteralmente malavita da tutti i pori, spiccano le interpretazioni di due attori eternamente sottovalutati come John Cazale e Robert Duvall, rispettivamente nei ruoli del pavido fratello Fredo e del riflessivo e analitico consigliere dei Corleone, Tom Hagen. Performance che si inseriscono perfettamente nel quadro di variegata e complessa umanità de Il padrino, e che pongono le basi per lo sviluppo dei personaggi nel successivo Il padrino – Parte II, senza ombra di dubbio uno dei migliori sequel dell’intera storia del cinema.
Il finale de Il padrino
«Rinunci a Satana?», chiede il prete a Michael durante il battesimo di suo nipote, impersonato in realtà dalla neonata Sofia Coppola, che ne Il padrino – Parte III sarà nuovamente accanto a lui e a suo padre nel ruolo di Mary Corleone. «Sì, rinuncio», dice l’ex pecora bianca della famiglia senza alcuna esitazione, mentre si consuma il suo terribile piano. Una delle tante bugie pronunciate con estrema naturalezza dal nuovo padrino, a cui ne segue un’altra ancora più raggelante detta all’amata Kay. «È vero?» chiede l’impaurita donna a Michael, nell’unica occasione che il partner le concede per una domanda sui suoi affari, poco dopo che la sorella Connie lo ha accusato senza mezzi termini di aver ucciso il marito. «No», risponde con sicurezza Michael, accogliendo poi Kay in un abbraccio consolatorio e rassicurante.
Il male è giunto a destinazione e per Michael non c’è più possibilità di redenzione, ma solo una corsa sempre più veloce verso la solitudine e la disumanità, tema portante del successivo capitolo della saga. Una sequenza emblematica, che racchiude il senso del suo personaggio e dell’intero Il padrino. Mentre gli adepti di Michael si prodigano in omaggi e strette di mano, a Kay non resta che osservare con timore e rinnovato sospetto il padrino. In un finale uguale e contrario a quello di Sentieri selvaggi, che tagliava fuori dalla vita in famiglia il personaggio di John Wayne, un’altra porta si chiude fra Kay e Michael, precludendo per sempre alla donna la parte più cupa e spaventosa della vita del futuro marito, la cui sensibilità è scomparsa insieme alla bomba che ha ucciso Apollonia.
Il padrino: cosa ci resta 50 anni dopo
Dopo 50 anni, Il padrino è ancora un’offerta che il cinefilo non può rifiutare. Emblema del florido periodo della Nuova Hollywood, fine riflessione sociale, immersione nel folklore italiano, tragedia senza speranza di redenzione e soprattutto una delle massime espressioni della settima arte, capace di anticipare attraverso la parabola dei Corleone il percorso autodistruttivo intrapreso dall’America negli anni successivi e di tratteggiare al tempo stesso un desolante quadro delle istituzioni.
«Non vedi come è ingenuo quello che dici?», dice Kay poco dopo aver ritrovato il suo vecchio amore. «Perché?», le risponde Michael. «Senatori e presidenti non fanno ammazzare la gente», replica senza indugio Kay. «Chi è più ingenuo, Kay?», conclude il nuovo padrino. Un dialogo che riassume la visione di Coppola di una società al capolinea, in cui l’unica possibilità di giustizia per gli oppressi risiede paradossalmente proprio in quella criminalità organizzata che la giustizia dovrebbe contrastare con tutte le sue forze. L’ennesimo dilemma morale che ci pone questo capolavoro più attuale che mai, che dopo 50 anni continua a essere un monito molto più realistico di quanto siamo disposti ad ammettere.
Un giorno, e non arrivi mai quel giorno, ti chiederò di ricambiarmi il servizio. Fino ad allora, consideralo un regalo per le nozze di mia figlia.
Don Vito Corleone
- Non applicabile
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Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API
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Il Padrino è un film che metterei all’ultimo posto nella classifica dei film più belli del cinema. Un elogio alla malavita. esaltazione e rappresentazione di una parte brutta del nostro paese. Considerarlo un capolavoro è una bestemmia. Violento. diseducativo e squallido.