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Lo streaming sta uccidendo la musica? Pro e contro rispetto al formato fisico

I dischi non solo non si vendono più, ma non si producono nemmeno

Storicamente parlando, la tecnologia ha sempre influenzato il mondo della musica, in un modo o in un altro. Che sia con l’introduzione degli strumenti elettrici, con la microfonazione o con la digitalizzazione delle produzioni, l’evoluzione tecnologica ha sempre fornito agli artisti mezzi nuovi per esprimersi. Ma mai come ora, con l’assoluto dominio dello streaming come modalità di fruizione della musica, la tecnologia sta cambiando (e non necessariamente in meglio) le carte in tavola.

Partendo dal banale ma veritiero assunto che “i dischi non si vendono più”, abbiamo deciso di fare un tuffo in quella che viene definita “musica liquida”, sebbene la definizione ci piaccia assolutamente poco. Già perchè, a prescindere dalla piattaforma di destinazione e dal supporto scelto, la musica è fatta comunque di emozioni, sudore e mani che si muovono sugli strumenti e sulle costose macchine. E vi assicuriamo che in uno studio di registrazione di “liquido” non c’è nulla (se non qualche birra). 

Quali sono quindi i pro e i contro della musica in streaming?

I pro della musica in streaming: tutto (o quasi) a portata di cuffie

Tra i grandi vantaggi dello streaming c’è sicuramente la fruibilità. Con un abbonamento di poco più di 10€ al mese abbiamo accesso ad un vasto catalogo che comprende (quasi) tutto lo scibile musicale. Dischi storici, album iconici, remastered edition. Le piattaforme di streaming sono, per un appassionato di musica, quello che per un amante dei dolci sarebbe una pasticceria a dieci piani tutta fatta di marzapane.

Questa caratteristica fa si che un ascoltatore curioso possa avere la possibilità di scoprire, grazie agli algoritmi (o anche solo “per caso”) un progetto sconosciuto formatosi due giorni prima dall’altra parte del mondo. Una sorta di “democratizzazione” del processo distributivo, che permette a chiunque, sia esso un big o un emergente, di avere uno spazio dove farsi ascoltare. Una volta, infatti, bisognava fisicamente entrare in un negozio di dischi, accontentarsi di ciò che si trovava, e scegliere un album da portarsi a casa. Per un artista indipendente, senza una distribuzione fisica, era pressochè impossibile arrivare negli store. Oggi invece, grazie agli accessibilissimi distributori digitali, chiunque può distribuire la propria musica su Spotify.

Lo streaming comporta anche un altro importante vantaggio: si può ascoltare la musica ovunque e comodamente. Certo abbiamo avuto i walkman e gli iPod per i viaggi sui mezzi pubblici e le passeggiate, i CD e le audiocassette per le auto e i vinili per l’ascolto casalingo. Ma le piattaforme di streaming non necessitano di cambio dischi, di spazio di archiviazione o di ingombranti attrezzature. Per dirla in breve: la musica è a portata di tasca, sempre e ovunque.

Lo streaming permette di ascoltare la musica, ma il supporto fisico di viverla

Verrebbe da dire “tutto bellissimo”. Con lo streaming abbiamo tutto quando e dove vogliamo e persino con una discreta qualità. In realtà manca tanto, anzi troppo. L’esperienza di un album musicale è infatti una commistione di tanti fattori. Cominciamo con quello poetico: nessuna piattaforma di streaming può restituire la sensazione di entrare in un negozio, innamorarsi di una copertina e toccare con mano il packaging. Sembrerà un discorso sommario, ma pensate alle copertine che hanno scritto la storia della musica. Da The Dark Side of The Moon dei Pink Floyd a Sgt. Pepper’s dei Beatles, passando per Nevermind dei Nirvana. Ora pensate a una qualsiasi copertina di un qualsiasi album uscito negli ultimi 10 anni. Vuoto totale, vero? Non che non se ne facciano più di belle copertine. Solo che non ci facciamo più caso, perchè neanche le guardiamo più sulle piattaforme digitali.

Oltre alla copertina c’è poi il booklet con i credits, i testi e le foto. E poi le edizioni speciali, con design creativi che ampliano anche visivamente il concetto di musica espresso nel disco. Insomma un disco era un’esperienza completa, in grado di coinvolgere ben altri sensi oltre a quello uditivo.

A farne le spese sono anche i negozi di dischi, che una volta rappresentavano un mercato fiorente oltre che un luogo di socialità importante dal punto di vista culturale. Tra le conseguenze più disastrose dello streaming c’è sicuramente il fallimento di molti store fisici.

C’è poi la questione ascolto, e qui arriviamo alle note dolenti (letteralmente). Con il supporto fisico (vinile su tutti), l’ascoltatore usciva dal negozio di dischi e andava a casa. Lì cominciava un processo magico e intimo: l’ascolto. Si metteva il disco sul piatto e l’album lo si ascoltava tutto, lato A e lato B. E poi, una volta finito, probabilmente, lo si riascoltava, perchè nessun algoritmo ti invitava ad ascoltare altro. Un vero appuntamento a tu per tu con l’artista. La fruizione era quindi più attenta, sicuramente più lenta, e decisamente più immersiva.

Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dello streaming

Analizzare pro e contro però serve a poco se non si entra a fondo nel nocciolo della questione: in che modo lo streaming sta ammazzando la musica per come la conosciamo?

Per prima cosa vale la pena di ritornare sul discorso “democratizzazione della distribuzione discografica”. È vero: oggi chiunque trova il suo spazio su Spotify. Ma ciò è un bene? Del resto se tutti parlano vuol dire che nessuno ascolta. Accade così che l’altro lato della medaglia, rispetto alla possibilità per chiunque di emergere, è che gran parte degli artisti, più che emergenti, si ritrovino sommersi. Chi ne beneficia sono forse i grandi nomi, coloro che possono contare su una fanbase consolidata o sulla viralità del web, oltre a quelli hanno la possibilità di entrare nelle playlist importanti. Ma anche qui entrano in gioco dinamiche discografiche terze, come uffici stampa e la complessa macchina dell’editoria musicale.

La conseguenza più palese però è che lo streaming sta lentamente uccidendo gli album musicali. No, non intendiamo quelli fisici, intendiamo il concetto stesso di album. La fruizione veloce, a tratti frenetica delle piattaforme digitali, concede all’artista non più di tre minuti. Giusto il tempo di una canzone. La discografia contemporanea, in tal senso, sta abbandonando il concetto di album, puntando tutto sui singoli. Si tende a lavorare a un brano per volta, possibilmente da integrare con le piattaforme social “fan driven” (come ad esempio TikTok), e null’altro.

Fare un disco, anche solo digitale da distribuire in streaming, sta diventando appannaggio quasi esclusivo di una certa nicchia di artisti. Questi sono i big o coloro che, per appartenenza a una determinata scena culturale, per lo più rock, non rinunciano alla tradizionale pubblicazione di album interi. L’album è ormai un concetto che il mercato contemporaneo ripudia, come Bob Dylan ripudiava il playback nel video di We are the World.

Chi salverà la musica? La riscoperta moda del vinile

In tutta questa frenesia di ascolti, visualizzazioni, stream, algoritmi che consigliano e ricondivisioni, c’è un formato che resiste. Un baluardo vintage che, vuoi per moda o vuoi per collezionismo, proprio non cede alla triste sorte che altri supporti (come audiocassette, CD e lettori mp3) hanno già fatto. Parliamo ovviamente del vinile.

Non staremo a parlare del lato tecnico e qualitativo (il vinile è quanto di più fedele possa uscire da uno studio di mastering, in barba alla compressione del digitale), ma preferiamo concentrarci sul fenomeno generale. 

L’ascolto di un album in vinile mantiene intatta la sua poesia, nonostante abbia di contro la poca versatilità, il costo (sia del disco che di un buon impianto di riproduzione) e il tempo e l’attenzione necessarie per l’ascolto. La progressiva riscoperta dei vinili sta portando molti artisti – quelli che possono permetterselo – a puntare ancora su stampe fisiche e sulla produzione di album completi, con tutta la carovana esperienziale che questa scelta coraggiosa comporta. 

Sarà il vinile a salvare la musica per come la conosciamo e amiamo?

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Marco Brunasso

Scrivere è la mia passione, la musica è la mia vita e Liam Gallagher il mio Dio. Per il resto ho 30 anni e sono un musicista, cantante e autore. Qui scrivo principalmente di musica e videogame, ma mi affascina tutto ciò che ha a che fare con la creazione di mondi paralleli. 🌋From Pompei with love.🧡

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