Cosa succede quando vogliamo dare un futuro migliore ai nostri figli, e anche a noi stessi, ma non possiamo fare altro che reinventarci dalle basi, letteralmente, e ripartire. Con qualsiasi mezzo, a qualsiasi costo. Rischiando anche di finire in un ginepraio scandaloso, come ricorda la recente pellicola in questione su Netflix dallo scorso 27 ottobre.
Parliamo di Pain Hustlers – Il business del dolore, che si basa su fatti realmente accaduti e che, come del resto avviene per parecchi casi minori di cronaca, spesso finiscono nel dimenticatoio.
Abbiamo dunque di fronte a noi un caso di film brillante e riuscito, o una trovata poco sensata che si aggiunge alla vasta library del colosso dello streaming? Scopriamolo insieme nella nostra recensione.
Pain Hustlers – Il business del dolore: il film Netflix con Emily Blunt e Chris Evans
Siamo in Florida, anno domini 2011. Liza Drake altri non è che una giovane donna molto sveglia e capace, oltre che in cerca di soldi e di barcamenarsi per sbarcare il lunario e smarcarsi dalla vita povera che conduce con sua figlia. E quello che fa per guadagnare soldi, tra le altre attività, c’è anche quella di lap-dancer in un locale, dove tra i clienti si palesa Pete Brenner, che lavora in una start-up farmaceutica sull’orlo del fallimento.
Liza fa la sua conoscenza e grazie a lui ottiene un colloquio ed entra in questa azienda, gestita dal miliardario dottor Neel. Per riuscire in questa impresa però, Pete le ha riscritto il curriculum vitae, inventandosi referenze e specializzazioni che in realtà Liza non ha mai avuto o conseguito. E ci riesce. Come per magia, nonostante non abbia alcuna competenza in campo farmaceutico e non sappiamo se nel suo passato sia mai stata venditrice, Liza riesce in meno di una settimana a farsi fare una ricetta, “prova del fuoco” per entrare di diritto nel team.
Da questo punto in poi, continua l’alternanza tra mondo non troppo patinato, ma sicuramente veloce e sfacciato del commerciale, alle difficoltà quotidiane delle famiglie più povere delle case popolari, da cui lei e la figlia, che scopre ben presto di soffrire di crisi epilettiche, arrivano. Un altalenante ritmo a volte senza senso che fa susseguire sul nostro schermo, senza soluzione di continuità, la storia vera da cui è tratta la trama, che vede qui come interpreti principali Emily Blunt e Chris Evans.
Dalla dura verità alla magia di Hollywood
Diversi sono i fattori di questo lungometraggio di due ore che ci hanno fatto storcere il naso, soprattutto per i nomi coinvolti nella regia e nel cast. A partire da un “desaparecido” David Yates e una chimica quasi assente tra i due protagonisti principali, che non riescono a far trapelare dallo schermo la dura verità che si cela dietro questa storia reale. Il film infatti riaccende i riflettori sullo scandalo farmaceutico di una piccola società che abusa delle prescrizioni di fentanil, somministrandoli anche a pazienti che non ne hanno bisogno.
Parliamo della Insys, fondata dal miliardario John Kapoor, che promuoveva il prodotto oppioide Subsys, ossia un antidolorifico potente e in origine usato per la terapia del dolore. In realtà si basava su un farmaco generico, ma grazie alla somministrazione spray è stato promosso come un prodotto di qualità superiore.
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E se nel film il farmaco si chiama Lonafin e la società diventa Zanna, sono tanti altri invece i dettagli che ci ricordano qualcosa di già visto. Pain Hustlers – Il business del dolore unisce in maniera scollegata e a volte insensata i tempi comici e quelli più seri, tra sesso, droghe, party e raggiri à la Wolf of Wall Street, ma con un budget ristretto. Non si spiega nemmeno come tutto accada all’improvviso e senza un minimo di tempi di “digestione” dei fatti: da un Chris Evans pronto a sedurre e farsi sedurre dalla Blunt nel night club, a cercare di assumerla senza colpo ferire e in maniera totalmente professionale in azienda.
La recensione di Pain Hustlers – Il business del dolore
Un mockumentary riuscito a metà
In modo meno convincente rispetto ai suoi film, David Yates cerca di lasciare la sua traccia in Pain Hustlers – Il business del dolore, ma senza riuscirci in pieno. Riesce a restituirci un film focalizzato sul tema della speculazione, con tecniche molto simili al mockumentary e facendo uso di voci fuori campo, ma si concentra poco ad esempio sulle numerosi morti causate dall’overdose del farmaco, per dare più spazio, insensatamente, al mondo patinato e fittiziamente esagerato del business.
Non manca nemmeno la denuncia a un sistema sanitario che si abbandona a degli sciacalli commerciali, pronti a prescrivere ricette per farmaci discussi a volo d’uccello durante un party in piscina. Ma non manca nemmeno il sistema che prosciuga, in assenza di assicurazioni, ma si prodiga per i pazienti. Proprio Liza cercherà di smantellare questo modus operandi e di collaborare con la polizia per aiutare le indagini, ma non tutto andrà per il verso giusto. E nemmeno molto credibile nel racconto hollywoodiano che è la messinscena di questo film.
Pain Hustlers – Il business del dolore in pillole: recensione del film Netflix
Non il film che avrebbe potuto essere, rimasto così, con il freno a mano tirato per dare sfogo invece a tanti vizi e lussuria inutili, oltre a una regia costruita malamente e senza pathos vero. Riassumiamo così la pellicola Netflix dove ha cercato di campeggiare Emily Blunt, in un personaggio che ha sì bisogno di soldi ma rimane comunque più umana e poco disposta a superare i suoi orizzonti etici e ideologici. A differenza di tanti altri, che perdono apparenza e rispetto in men che non si dica. Una riflessione anche valida, ma non trattata nel modo e nel ritmo corretto, con un racconto confuso in un collage di scene e tempi quasi casuali. Risultato? Un altro film che finisce nel calderone delle playlist di film recenti e che non lascerà il segno che avrebbe dovuto imprimere e imprimerci.
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