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Videogiochi, diversità e inclusione: un equilibrio ancora difficile da mantenere

Sentirsi rappresentati, vedere il proprio riflesso in un personaggio con cui si condividono gli ideali è probabilmente una delle soddisfazioni più grandi che si possano provare, quando si legge un libro, si guarda un film o una serie TV. O perché no, si gioca a un videogame. Una delle necessità dell’epoca contemporanea sempre più incombenti è proprio quello della rappresentazione nel settore dell’intrattenimento, una questione facente parte dell’ampio cappello delle politiche di diversità, equità e inclusione che negli ultimi anni sono sempre più al centro di discussioni e dibattiti di varia natura. Proprio per la centralità del tema che desideriamo affrontare in questo approfondimento, scopriremo insieme non solo il panorama attuale di videogiocatori e dipendenti della gaming industry, ma anche quali videogiochi si sono impegnati in rappresentazioni diverse e inclusive. Seguiteci in questa riflessione che vi proponiamo a tema videogiochi, diversità e inclusione.

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Videogiochi, diversità e inclusione: le disparità nell’industria del gaming…

Se la questione dell’applicazione di politiche DEI (Diversity, Equity and Inclusion) è da anni parecchio discussa, nel tentativo di applicarla in maniera sempre più concreta, in ambito lavorativo, le questioni di mancanza di rappresentanza etnica e di orientamento sessuale sono diventate sempre più delicate e discusse. Uno dei risultati più concreti nell’industria del cinema è stato l’aumento della percentuale di personaggi appartenenti a etnie diverse da quella classica dell’uomo bianco caucasico. Una scelta atta a dare visibilità anche a minoranze che, spesso, trovano spazio difficilmente sullo schermo, e di conseguenza nei discorsi generati dal pubblico. Anche l’ambito videoludico non è rimasto intoccato da queste problematiche. Per quanto questo settore possa apparire come leader nel settore creativo in termini di rappresentazione, c’è ancora molta strada da fare.

Il classico maschio bianco muscoloso, o comunque di bell’aspetto e attraente, rimane spesso il canone estetico di riferimento nel concept design dei protagonisti. Ma questo stereotipo non solo non rappresenta la popolazione mondiale, e più nel dettaglio quella dei videogiocatori, ma nemmeno è funzionale allo sviluppo di narrazioni e personaggi volti a includere nuovi volti, nuove storie e altrettanti background. Secondo uno studio condotto dall’Università di Sheffield infatti, meno del 30 percento dei dipendenti del settore in Gran Bretagna è femminile, solo il 2 percento è composto da individui non binari. La restante parte è chiaramente appannaggio del mondo maschile. Inoltre, il 10 percento rappresenta il cluster BAME (black, asiatic and minority ethnic), a dimostrazione di quanto sia ancora bassa.

Ancora meno sono le persone con questo background di appartenenza a ricoprire, di conseguenza, ruoli di alto livello nel settore. Le disparità sono evidenti, e probabilmente anche poco funzionali per ridurre in maniera significativa e in tempi brevi le rappresentazioni stereotipiche presenti nei videogiochi. Nel tentativo di indagare il tema del sessismo nei videogiochi, uno studio condotto dall’Università dell’Indiana ha analizzato i contenuti di oltre cinquecento titoli rilasciati tra il 1983 e il 2014. I personaggi femminili eccessivamente sessualizzati è aumentato a metà anni ’90, portando alla luce dunque il fenomeno della sottorappresentanza sproporzionata di personaggi femminili.

… e la moltitudine di identità tra i videogiocatori

Questi disequilibri dovrebbero risultare ancora più in contrasto con quella che è la platea di videogiocatori. Un pubblico che si presenta non solo sempre più ampio, ma anche altrettanto variamente composto. Ad esempio, i gamer americani risultano essere composti quasi per metà da latino-americani, neri e asiatici americani, un quinto appartiene alla comunità LGBTQIA+ e un terzo dichiara di avere disabilità, prettamente legate alla salute mentale. Guardando invece a un contesto più vicino a noi, in Italia, emerge dal rapporto IIDEA come, nel 2021, il 56 percento dei giocatori sia maschile. Il restante 44 percento rappresentato da un pool di giocatrici che mantiene alto il vessillo delle “quote rosa” in questo settore.

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Ulteriori evidenze più specifiche in merito a rappresentazioni di genere, disabilità e altri dettagli non risultano dal rapporto IIDEA, informazioni però che potrebbero comunque essere interessanti ai fini dell’analisi dei videogiocatori attuali. Perché ci potrebbe interessare? Le analisi relative a identità dei videogiocatori e dei loro comportamenti, sia di acquisto, sia nei titoli come simulatori e gestionali, possono rivelarsi molto più importanti di quanto si pensi.

Basti pensare al caso di alcuni titoli, tra cui Animal Crossing, un gioco emblematico della prima pandemia di Covid-19 nel 2020. La fruizione di questo titolo aveva infatti permesso agli utenti di mantenersi in contatto con persone anche a distanza per lungo tempo, oltre ad aver dimostrato le sue capacità “palliative” per tutti i pazienti con disturbi psicologici e mentali, in grado di tenere a bada ansia e altre problematiche facenti parte di questo spettro.

Comprendere non solo l’approccio che i giocatori hanno nei confronti di un titolo, ma viceversa anche gli effetti che il gioco ha nei loro confronti, è un rapporto bidirezionale molto importante. Non solo se analizzato attraverso le lenti di puro marketing, ma anche da un punto di vista sociologico e, perché no, psicologico. I videogiochi possono fare la differenza, basta volerlo davvero.

Da Life Is Strange a The Last Of Us 2, l’inclusione di etnie e personaggi LGBTQIA+

Come abbiamo visto dal quadro psico-sociologico emerso dai rapporti degli ultimi anni, non basta inserire nel proprio gioco la possibilità di personalizzare un avatar a livello estetico. Questa opzione meriterebbe un approfondimento dal punto di vista caratteriale e di identità. Una questione che immaginiamo non sia facilmente applicabile, anche in termini di coerenza tra il personaggio a tutto tondo e la storia e il contesto in cui viene inserito. Il tentativo anche solo minimo di approcciarsi in maniera trasversale alla realizzazione dei personaggi potrebbe essere un passo importante nella realizzazione dei futuri prodotti videoludici. Inutile dire che le motivazioni sottostanti la realizzazione di titoli di questo tipo sono relative a due macro linee di pensiero. La prima fa riferimento a logiche di “diversity and inclusion washing”, come si suol dire, la seconda invece è legata alla genuina attenzione nei confronti di questi temi.

Life is Strange True Colors fa infuriare la Cina ecco cosa sta succedendo

Finora abbiamo avuto per le mani titoli che hanno manifestato vicinanza al mondo LGBTQIA+. Andando a ritroso nel tempo, negli anni ‘80 e ’90 la scena era molto diversa da quella di oggi. All’epoca vi era una marcata sperimentazione e diversità rispetto a oggi, liberi da controlli puntuali e talvolta stringenti. Per questo motivo, su Mac OS uscivano opere dichiaratamente LGBT, come Caper in the Castro e GayBlade, senza dimenticare il tentativo più deciso da parte di Nintendo con Metroid.

Sul fronte più moderno e contemporaneo invece possiamo pensare alle varie identità che si sono affacciate nella saga di Life Is Strange e nel suo spin-off, True Colors. Nel terzo capitolo di questa serie, Daniel Diaz ha il potere della telecinesi. Può vedere la vita di persone immigrate alle prese con situazioni di razzismo e mancata integrazione. Ancora nel quarto capitolo Alex, la protagonista, è queer e asiatica e vive ogni giorno le discriminazioni a questi due suoi tratti.

Tra le produzioni videoludiche che, a modo loro, hanno provato ad avvicinarsi a rappresentazioni “fuori dagli stereotipi”, partiamo da un franchise che ha da poco sfornato una (relativamente) nuova IP. Parliamo di The last of Us Parte 2, che dedica molto spazio a personaggi LGBTQIA+, a partire da una delle sue protagoniste, Ellie. La ragazza, in questo secondo atto, ha infatti rivelato la sua omosessualità, senza essere l’unica rappresentante della comunità LGBTQIA+. Nel gioco infatti possiamo anche approcciarci alla sottotrama dedicata a Lev, giovane transgender che si identifica come maschio. Questi rinuncia anche a un matrimonio combinato e si rade i capelli. Un gesto consentito solo agli uomini stando alla cultura dei Serafiti.

Salute mentale e disabilità: quando i videogiochi sono attenti alla diversità e all’inclusione

Esplorando ulteriormente la produzione videoludica, non possiamo esimerci dal citare un personaggio femminile importante e significativo, sotto diversi aspetti. Parliamo di Senua in Hellblade: Senua’s Sacrifice, dove facciamo la conoscenza di una guerriera concepita per dare ampio spazio al tema della salute mentale. Si tratta di un primo tentativo, compiuto nel 2017, nel mondo dei videogames, con il supporto di esperti in psichiatria per rendere il risultato accurato e il più possibile privo di bias e possibili contenuti offensivi.

The Game Awards Hellblade 2

L’esperienza offerta in Hellblade: Senua’s Sacrifice, dunque, è proprio quella di far vivere al giocatore uno stato di psicosi accuratamente riprodotto con audio 3D binaurale. Questa soluzione tecnologica è stata progettata per farci percepire un determinato suono provenire da una direzione precisa. In tal modo, le voci sono risultate realistiche e simulare le sensazioni che riecheggiano nella testa di Senua.

L’attenzione dei team di sviluppo non si è rivolta solo alle problematiche psicologiche, ma anche a rendere più accessibili i videogiochi a coloro che hanno disabilità fisiche e motorie. Il sopracitato The Last Of Us Parte 2 prevede oltre 60 diverse impostazioni per i giocatori con disabilità legate a vista, udito, o movimenti limitati. I giocatori possono modificare le impostazioni per accedere meglio al titolo, un’attenzione riservata anche nello sviluppo di altri titoli sviluppati da team indipendenti. Accade anche in Italia, grazie al lavoro di Novis Games.

Il team torinese ha lanciato l’omonimo titolo come prima esperienza di gioco digitale audio e tattile completamente accessibile a persone cieche e ipovedenti. Come funziona questa piattaforma? Si tratta di un’app per smartphone, in collaborazione con l’Unione italiana ciechi e l’Associazione pro retinopatici e ipovedenti di Torino, con alcuni audiogiochi. Tra questi, ping pong, dove il movimento del joystick o del telefono simula quello della racchetta, un musicale e un puzzle sonoro.

novis games

Si tratta dunque di primi, importanti passi mossi in una direzione quanto mai importante come ora. In questo modo, non si trascura una fetta di mercato ancora oggi considerato piccolo, ma esistente, e per includere persone con disabilità nel mondo videoludico. Anche se il panorama videoludico e di mercato sta cambiando, la necessità di giochi e hardware di gioco specificamente progettati per le persone con disabilità rimane attualmente parecchio insoddisfatta.

BAME nei videogiochi: le prime rappresentazioni…

Non meno importante è infine la questione relativa alla rappresentazione dei personaggi facenti parte della comunità BAME, costituita da persone nere, asiatiche e di minoranze etniche. Un tema che tange in particolare i Paesi con un melting pot culturale, e di conseguenza etnico, molto più accentuato dell’Italia. Non per questo il problema è meno sentito dai videogiocatori nostrani. Per incoraggiare l’inclusività etnica è stato anche fondato il gruppo BAME in Games, noto anche come BiG. Il team si dedica anche alla promozione dell’assunzione di queste persone all’interno dell’industria videoludica e dell’intrattenimento. Fondata nel 2016, la rete professionale che ha realizzato è riuscita a coltivare diversi talenti all’interno del Regno Unito.

A fronte di questa necessità, è bene sottolineare quanto lavoro ci sia da fare concretamente nei videogames e cosa è stato realizzato finora. Soprattutto, quanti stereotipi hanno prevalso in questo frangente. Il primo videogioco con protagonista una persona nera fu Heavyweight Champ, un fighting arcade pubblicato da SEGA nel 1976. Per un certo periodo, alcuni degli unici generi videoludici in cui venivano introdotti i personaggi neri erano gli sportivi, come PUNCH OUT!!. Spesso però venivano rappresentati con caratteristiche grottesche, apportando successive migliorie con l’avanzamento della tecnologia. Sono però rimasti i tropi legati alla rappresentazione in giochi dove prevaleva la dimostrazione di forza fisica. Gli stereotipi non erano limitati agli afroamericani. Basti pensare ai personaggi latini, ritratti come gangster e spacciatori in Grand Theft Auto, oltre a presentare un doppiaggio con accenti ispanico marcato e anch’esso concepito in maniera stereotipica.

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Non migliora il panorama se guardiamo alla presenza di musulmani, arabi e in generale persone mediorientali. Spesso sono relegati al ruolo di terroristi, come in Call of Duty. I tropi rimangono anche ad altri livelli culturali qui: in Call of Duty: Modern Warfare 2 una scena in Pakistan mostra le insegne dei negozi con scritte in arabo, anche se i pakistani parlano inglese e urdu. Questi tratti fanno emergere quanto sia importante fare ricerche e accertarsi che la rappresentazione del background culturale e delle identità dei personaggi siano aderenti alla realtà, ben contestualizzati e privi di sfumature offensive.

… e i successivi videogiochi con attenzione a diversità e inclusione

Non tutto però viene per nuocere: abbiamo anche diversi esempi privi di declinazioni negative e stereotipia. Un esempio lampante è quello offerto da Respawn Entertainment con il clima inclusivo nel battle royale Apex Legends. Qui la maggior parte delle leggende disponibili sono persone di colore, o altre identità raramente rappresentate. Tra loro, etnie miste, gay, neri, asiatici e solo tre personaggi bianchi.

Apex legends mobile tech princess

Non dimentichiamo inoltre di annoverare altri importanti titoli, come il franchise di The Walking Dead, dove si attinge a piene mani alla rappresentazioni di etnie provenienti dalla cultura latinoamericana. Non di minore importanza il sopracitato franchise targato Ubisoft, Assassin’s Creed. Con la sua esplorazione delle più disparate epoche storiche e ambientazioni, è riuscito a riportare sullo schermo un’ampia varietà di etnie e culture. Pochi altri sono gli esempi che possiamo portare a supporto della rappresentazione della comunità BAME. Questo dimostra quanto lavoro ci sia da fare in questo frangente specifico della produzione videoludica.

Perché i videogiochi dovrebbero essere più vicini alle politiche di diversità e inclusione

Tirando le somme dello stato dell’arte attuale, è ben evidente come i videogiochi debbano essere accessibili e rappresentativi per un’ampia fetta di popolazione che ancora oggi non trova spazio in questa produzione. Se l’industria dei videogiochi è cresciuta rapidamente, è anche vero che le donne e le etnie non bianche sono ancora rappresentate in modo insufficiente. Lo ripetiamo ancora una volta: essere rappresentati consente di sentirsi notati, riconosciuti con i propri valori e identità anche se diversi dal modello stereotipato frequentemente offerto. Fa sentire parte di un dialogo, una comunità. Fa sentire a proprio agio e privi di imbarazzanti diversità che non hanno alcuna motivazione di sussistere.

Oltre a questo, si apre anche un discorso relativo alla radicazione dei tropi nella cultura contemporanea, per quanto si stia cercando di smussarne le angolature. I passi compiuti in tal senso sono stati significativi, ma ancora insufficienti per portare sugli schermi una piena rappresentazione delle varietà etniche e culturali, oltre che prive di preconcetti. Non dimentichiamo che anche l’industria dell’intrattenimento, e ultimamente videoludica, è pur sempre produttrice di beni di cultura. E per essere tale, anche i videogiochi devono saper dimostrare non solo di intrattenere, ma anche di educare alla diversità e inclusione come forma di rispetto. Sia per chi ne fruisce, sia per chi li produce.

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