«C’è stato un incidente: circa un’ora fa un piccolo jet è precipitato nel centro di New York, c’era a bordo il Presidente», dice il commissario Bob Hauk. «Presidente di che?», gli risponde senza indugio il reietto Snake Plissken (Jena Plissken nell’adattamento italiano), iconico protagonista della distopia action-fantascientifica di John Carpenter 1997: Fuga da New York. Uno scambio che ci permette di comprendere l’animo ribelle e sovversivo di uno dei più celebri antieroi del cinema di John Carpenter, interpretato anche in questo caso dal suo attore feticcio Kurt Russell. Il nostro Caronte verso una notte infernale, chiaramente figlia de I guerrieri della notte e allo stesso tempo portatrice della stessa rappresentazione di società morente portata avanti da George Miller in Interceptor, primo capitolo della sua serie cinematografica Mad Max.
Dopo esserci concentrati su Fahrenheit 451 di François Truffaut, per la nostra rubrica cinematografica Il filo nascosto rimaniamo dunque in tema di distopia con uno dei titoli più importanti e celebrati di questo filone, capace di influenzare significativamente l’immaginario collettivo degli anni successivi e di dare vita 15 anni dopo al valido sequel Fuga da Los Angeles. Solo in Italia, successivamente arrivano svariati epigoni della visione cupa e pessimista del futuro di John Carpenter, fra cui 2019 – Dopo la caduta di New York di Sergio Martino e 1990 – I guerrieri del Bronx di Enzo G. Castellari. Anche i videogiochi attingono a piene mani da quest’opera. In particolare, Hideo Kojima si ispira proprio al look di Snake Plissken e al suo occhio bendato per dare vita a Solid Snake, protagonista della celeberrima serie videoludica Metal Gear Solid.
1997: Fuga da New York, il manifesto artistico e politico di John Carpenter
Ci troviamo nella futuribile New York del 1997. La voce narrante della compianta produttrice e sceneggiatrice di John Carpenter, Debra Hill, ci spiega che, a seguito di un vertiginoso aumento dell’indice di criminalità, la Grande Mela è diventata una sorta di carcere di massima sicurezza a cielo aperto, con tanto di mura di cinta e di mine piazzate strategicamente per impedire la fuga dei criminali. L’esercito vigila dall’esterno l’area di Manhattan; all’interno invece, i criminali sono abbandonati a loro stessi e alla loro autoregolamentazione.
In contemporanea con l’arrivo nella struttura dell’ex eroe di guerra Jena Plissken, il Presidente degli Stati Uniti (Donald Pleasence) viene coinvolto in un attentato ordito dal Fronte Americano di Liberazione Nazionale. L’uomo sopravvive, ma viene rapito. Il commissario Bob Hauk (Lee Van Cleef) fa quindi un’interessante proposta a Plissken: se nell’arco di 24 ore salverà il Presidente e i suoi documenti riservati, la sua fedina penale sarà istantaneamente ripulita. Se però Jena non riuscirà nell’impresa, le microbombe installate sul suo collo esploderanno.
Per Plissken comincia così un pericoloso viaggio in una New York tenebrosa e spettrale, popolata da anime dannate e losche figure, verso il Duca (Isaac Hayes), considerato il signore di New York. Sulla sua strada, il protagonista incontra una variegata umanità, fra cui un loquace tassista (Ernest Borgnine), il suo ex compagno di malaffare “Brain” Harold Helman (Harry Dean Stanton) e la sua compagna Maggie (Adrienne Barbeau).
Fra Walter Hill e Howard Hawks
In un’ondata senza fine di revival del cinema anni ’80, che spesso porta con sé copie sbiadite e inconsistenti delle opere originali, vedere o rivedere 1997: Fuga da New York ci fa riconciliare con l’atto creativo e col cinema stesso. Anche se il budget a sua disposizione è tutt’altro che stellare (circa 6 milioni di dollari), John Carpenter riesce a creare un’atmosfera sinistra e malsana, in cui è facile e inquietante perdersi. Lo fa attraverso un riuscito mix di effetti speciali artigianali (plastici e modelli curati da un giovane James Cameron) e riprese effettuate prevalentemente a St. Louis, città che avendo subito poco prima un incendio di vaste proporzioni risultava perfetta come set della Manhattan devastata richiesta da Carpenter.
Con 1997: Fuga da New York, Carpenter porta avanti il discorso cominciato con Distretto 13 – Le brigate della morte, precipitandoci in una metropoli che ribolle di crimine, violenza e paura, in cui non esistono eroi ma solo personaggi o piccoli gruppi che lottano per sopravvivere e per spartirsi briciole di potere. Uno squallore diffuso e generalizzato a cui non sfuggono le istituzioni, rappresentate nel migliore dei casi come organi inadatti a contenere la crescente rabbia sociale, e nel peggiore da personaggi corrotti, votati esclusivamente al culto della loro immagine e alla salvaguardia della loro privilegiata posizione.
In una Terra morente, dove le risorse energetiche scarseggiano, il cinema sudicio di Walter Hill incontra quello spiazzante di Howard Hawks e in particolare il western Un dollaro d’onore, alla base anche del già citato Distretto 13 – Le brigate della morte. Non è un caso che a dare corpo e volto al commissario Hauk, in perenne bilico fra legge e crimine, sia proprio un’icona del genere western come Lee Van Cleef, portato nuovamente in scena da Carpenter dopo un periodo di incomprensibile e immeritato appannamento.
La genesi di 1997: Fuga da New York
Per John Carpenter il cinema di genere non è solo il fine, ma anche e soprattutto il mezzo con cui riversare sullo schermo suggestioni e riflessioni politiche. In particolare, con 1997: Fuga da New York il regista anticipa la fortissima allegoria sociale alla base di Essi vivono, trasformando Manhattan in un teatro per la rappresentazione della totale sfiducia verso le istituzioni che ha accompagnato la sua crescita artistica. La sceneggiatura di 1997: Fuga da New York è infatti stata concepita da Carpenter fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, nel pieno dell’amministrazione Nixon, culminata con il celeberrimo scandalo Watergate. A sottolineare il solido legame del racconto con il western e con i suoi eroi senza bandiera e senza scopo, in un primo momento il regista avrebbe voluto affidare la parte a uno dei volti per eccellenza di questo genere, cioè Clint Eastwood.
Il passare del tempo e la nascita del sodalizio artistico con Kurt Russell, da lui già diretto in Elvis, il re del rock, portarono poi Carpenter a rivedere i suoi piani e la stessa sceneggiatura, rielaborata insieme al fidato Nick Castle (l’uomo dietro la maschera di Michael Myers in Halloween – La notte delle streghe). A rimanere inalterato è però il punto di vista del regista sulla società americana, estremizzato nel continuo ribaltamento fra legge e crimine che alberga nel mondo di 1997: Fuga da New York e in una notte perenne, in cui non si intravedono raggi di luce o di speranza.
Il contesto socio-politico di 1997: Fuga da New York
Un mondo in cui il simbolo del progresso e della finanza è diventato un luogo senza storia e senza regole, attraversato con spavalderia e aggressività da una personificazione dell’anarchia come Plissken, fuori posto sia quando si deve confrontare con il caos imperante a Manhattan, sia con le istituzioni, a cui rifiuta di prostrarsi anche dopo il compimento della sua missione, in uno dei più beffardi finali della filmografia di Carpenter («Mi chiamo Plissken» dice, dopo aver ripetuto per tutto il film «Chiamami Snake»). Un uomo che tutti credevano defunto e che anche per questo è perfettamente a suo agio in una società di morti, distrutta a livello etico e morale prima ancora che nella fatiscente urbanistica, vacillante residuo di un mondo sopravvissuto a un’apocalisse sempre fuori campo ma costantemente presente all’interno del racconto.
Quella di Plissken è una missione per salvare un Presidente che non merita minimamente di essere salvato, simbolo del più bieco imperialismo che si maschera da baluardo della democrazia, ma anche una simbolica fuga da un’America che proprio nel 1981 di 1997: Fuga da New York vede sorgere l’amministrazione Reagan, e con essa 12 anni di amministrazione repubblicana fondamentali per la storia degli Stati Uniti e per gli equilibri geopolitici mondiali.
Fuga da un panorama culturale popolato da giustizieri (quello della notte di Charles Bronson, ma anche l’Ispettore Callaghan, ancora di Clint Eastwood) da cui Plissken si dissocia, preoccupandosi solo della sua sopravvivenza, anche a costo di combattere su un improvvisato ring contro un bestione due volte più grande di lui. Fuga da una società che trova proprio nella sua ossessione per la sicurezza l’inequivocabile rappresentazione delle tensioni che la divorano dall’interno, affidandosi a un fuorilegge conclamato per ristabilire l’ordine.
La parabola di John Carpenter
Nel personaggio di Plissken c’è tutto il percorso cinematografico di Kurt Russell e John Carpenter, autore anche in questo caso dell’ipnotico accompagnamento musicale all’avventura notturna del protagonista. L’attore può dare sfogo alla sua componente più muscolare e machista, facendo quasi le prove per il suo parodistico Jack Burton di Grosso guaio a Chinatown. Il regista firma invece il suo manifesto politico e cinematografico, disseminando in tutto il racconto nichilismo, disillusione e spirito di puro antagonismo, che oggi manca come mai a un’industria culturale costantemente arroccata su toni rassicuranti e su atmosfere confortevoli per lo spettatore. Spassosi poi gli omaggi ai colleghi George A. Romero, David Cronenberg e Don Taylor, utilizzati per i cognomi di altrettanti personaggi.
È desolante osservare che il percorso artistico di John Carpenter nei decenni successivi all’uscita di 1997: Fuga da New York abbia involontariamente ricalcato la parabola individuale dell’ex eroe Snake Plissken. Dopo aver firmato pietre miliari dell’horror e della fantascienza (fra i titoli non precedentemente citati La cosa, Fog, Starman, Il signore del male e Il seme della follia), accompagnando la sua maestria dietro alla macchina da presa con continui spunti di riflessione, fondamentali per la crescita e la formazione di diverse generazioni di cinefili, Carpenter è stato lentamente estromesso dal sistema che ha contribuito a rendere grande, faticando sempre più a trovare le risorse per realizzare nuovi progetti.
Incredibile che le regie nel nuovo millennio di questo nome tutelare del cinema di genere si limitino a Fantasmi da Marte (2001) e The Ward – Il reparto (2010), inframezzate dai due episodi di Masters of Horror Cigarette Burns – Incubo mortale e Il seme del male, rispettivamente del 2005 e del 2006.
Il finale di 1997: Fuga da New York
Quale può essere la risposta a questo panorama oscurantista e antimeritocratico, che ha preso lentamente possesso di ogni aspetto culturale e sociale? L’esperienza dello stesso Carpenter, sempre fieramente ai margini dell’industria e delle mode del momento, è emblematica. Ma ancora più forte in questo senso è l’epilogo di 1997: Fuga da New York: quando parte la registrazione del discorso Presidente salvato da Plissken, all’insegna della retorica e dell’ipocrisia («Buonasera. Nonostante io non sia presente a questo storico, grande vertice, io vi rivelo questo nella speranza che le nostre grandi nazioni imparino a vivere nella pace»), improvvisamente comincia a risuonare Bandstand Boogie, il pezzo jazz preferito dal tassista, sostituito alla registrazione desiderata dalle autorità proprio da Snake, che si allontana beffardamente.
Lo smascheramento della falsità come unica arma di difesa degli oppressi, lo scherno e la derisione come unico approccio all’arroganza e al cinismo del sistema, uno sguardo pungente e disincantato come risposta a un mondo sempre diviso in schieramenti e concentrato sulla morale del momento. In due parole: John Carpenter.
Il filo nascosto nasce con l’intento di ripercorrere la storia del cinema nel modo più libero e semplice possibile. Ogni settimana un film diverso di qualsiasi genere, epoca e nazionalità, collegato al precedente da un dettaglio. Tematiche, anno di distribuzione, regista, protagonista, ambientazione: l’unico limite è la fantasia, il faro che ci guida è l’amore per il cinema. I film si parlano, noi ascoltiamo i loro dialoghi.
Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API
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