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Gli Stati Uniti fanno causa a Google: raccoglie i dati senza consenso

Per il colosso tech, anche una causa per diffamazione in Australia

Fare causa a Google è stata una delle attività più in voga nella seconda parte del 2021.

Svariati sono stati i nostri articoli in cui vi abbiamo dato conto di quando il colosso tech è stato citato in giudizio. Lo hanno fatto tre suoi ex dipendenti e lo hanno fatto 200 quotidiani americani, accusando Google a Facebook di monopolio sul mercato digitale. E per un motivo simile anche l’Ue ha intentato causa contro l’azienda di Mountain View.

Il 2022 non si è aperto diversamente. Multe per Google a Facebook da parte dei legislatori francesi. Oltre a una curiosa causa che Sonos ha vinto sempre contro Google, e che riguarda la regolazione del volume degli altoparlanti.

Ora tocca ai procuratori di diversi Stati americani fare causa a Google: l’accusa è quella di aver raccolto i dati degli utenti senza consenso. Vediamo cosa è successo, e come Google ha risposto alle accuse.

Vi daremo poi conto di altri problemi che il gigante tech dovrà affrontare a diverse latitudini.

I procuratori americani fanno causa a Google

Un gruppo di procuratori generali di Texas, Washington e Indiana ha fatto causa a Google.

L’azienda è accusata di aver raccolto i dati di geolocalizzazione dei suoi utenti dal 2014 sino al 2019, anche quando gli utenti stessi avevano espressamente negato il loro consenso.

A Google è stato chiesto di cessare immediatamente questa pratica. Chi ha intentato causa all’azienda pretende ora di ottenere il risarcimento dei ricavi generati grazie alla violazione della società, che rischia di ricevere una pesante sanzione.

Google

Google nega

Un portavoce di Google ha fatto sapere che “I procuratori generali stanno sostenendo un caso basato su affermazioni inaccurate e informazioni datate riguardo alle nostre impostazioni di prodotto.

Abbiamo sempre integrato funzionalità per la privacy nei nostri prodotti e fornito solidi strumenti di controllo per i dati di localizzazione. Ci difenderemo con decisione e chiariremo i fatti”.

Causa a Google per manipolazione di aste pubblicitarie

È impressionante il numero di cause contro Google intentate in questi giorni.

Quella per la violazione dei dati degli utenti segue di poche ore un’altra denuncia dei procuratori generali americani. Stavolta perché l’azienda di Mountain View avrebbe ingannato (per anni) editori e inserzionisti sui prezzi delle sue aste pubblicitarie.

Attraverso un programma, Google avrebbe aumentato i prezzi per gli investitori pubblicitari, intascando la differenza. Il denaro sarebbe poi stato utilizzato per manipolare le successive aste ed espandere il suo monopolio.

Ci sono scambi di mail interne tra dipendenti che confermerebbero queste azioni illecite.

Anche in questo caso Google ha smentito tutto, affermando che “le nostre tecnologie pubblicitarie aiutano i siti web e le app a finanziare i loro contenuti e consentono alle piccole imprese di raggiungere clienti in tutto il mondo. C’è una forte concorrenza nella pubblicità online”.

La causa contro Google in Australia

Ma come vi dicevamo in apertura di articolo, per il colosso tech ci sono problemi anche ad altre latitudini.

In Australia una sentenza che condanna l’azienda per diffamazione potrebbe creare un pericoloso precedente.

I fatti risalgono al 2016, quando George Defteros, un avvocato dello stato del Victoria, aveva chiesto a Google di ritirare un articolo pubblicato dalla testata The Age che riportava accuse infondate a suo danno, ritenendolo diffamatorio. Google si era rifiutata di agire, e ora il giudice australiano ha dato ragione a Defteros. Colpevole non è dunque la sola testata, ma anche Google per non aver eliminato dalle ricerche il link diffamatorio.

Google stesso interviene sulla presunta eccentricità della sentenza. Spiegando che a questo punto, in futuro, la società potrebbe essere “responsabile in quanto editore di qualsiasi argomento pubblicato sul web a cui i suoi risultati di ricerca forniscono un collegamento ipertestuale”.

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Una causa anche in Austria

In questo gennaio movimentato per l’azienda di Sundar Pichai ha un ruolo anche l’Europa.

Infatti l’autorità di controllo austriaca ha fatto causa a Google. Il motivo? In sintesi, Google Analytics esportando i dati negli Stati Uniti violerebbe il GDPR (regolamento generale sulla protezione dei dati).

In casi simili il Gdpr prevede multe sino a 20 milioni di euro o pari al 4% del fatturato globale.

Anche stavolta Google ha commentato: “Le persone vogliono che i siti web che visitano siano ben progettati, facili da usare e rispettosi della loro privacy. Google Analytics aiuta i retailer, le istituzioni, le ong e molte altre organizzazioni a comprendere quanto i loro siti e le loro applicazioni siano funzionali per i loro visitatori, senza però identificarli o tracciarli nel web. Queste organizzazioni, non Google, controllano quali dati vengono raccolti con questi strumenti e come vengono utilizzati. Google le supporta fornendo una serie di tutele, controlli e risorse per la compliance.”

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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