Lo “scandalo” degli ultimi tempi è stato suscitato dallo studio Validation of the Concise Assessment Scale for Children’s Handwriting (BHK) in an Italian Population, una ricerca condotta sulle difficoltà di scrittura diffuse tra i bambini. Così centinaia di alunni in età di scuola elementare a Roma sono stati testati sulla loro capacità di copiare un testo in 5 minuti, utilizzando la scrittura corsiva. Se il sesso influenza il punteggio della qualità di quanto prodotto, mentre il livello scolastico influenza la velocità di scrittura, una cosa è certa: circa un bambino su cinque non riesce a scrivere in corsivo. Colpa dell’uso invasivo della tecnologia? Stiamo apprendendo più facilmente quello che scorre sui social, perdendo di vista le capacità manuali? Per capire cosa sta accadendo, abbiamo intervistato Gabriele Barone, Daniele Brussolo, Ambra Ferrari ed Elena Fretti, quattro esperti in psicologia con attenzione anche al rapporto tra tecnologia e apprendimento del loro impatto.
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Tecnologia e apprendimento: evoluzione (o involuzione) della specie? L’intervista a Gabriele Barone, Daniele Brussolo, Ambra Ferrari ed Elena Fretti
Leggiamo sui giornali che la scrittura in corsivo stia sparendo, colpa (anche) di tablet e smartphone. Solo colpa della tecnologia o ci sono altri fattori?
Gabriele Barone: La tecnologia sta portando ad un mutamento delle competenze utili nella quotidianità dell’essere umano. Alcune capacità vengono meno sollecitate e altre iperstimoalte. In questo senso è lecito ipotizzare che i ragazzi dedichino e dedicheranno minor tempo alla cura della calligrafia, in favore della scrittura tramite mezzi elettronici. Va però anche considerata una maggior attenzione alla diagnosi dei così detti DSA, come la disgrafia, dunque è difficile stimare l’effettivo incremento della patologia. In sintesi, i fattori sono molteplici e attribuirli esclusivamente all’avvento della tecnologia potrebbe essere fuorviante.
Daniele Brussolo, Elena Fretti: Notiamo una sempre maggiore attenzione alla disgrafia in una prospettiva di neurodiversità, che guarda alla variabilità delle funzioni neurocognitive tra le persone come parti di uno spettro, di cui la disgrafia e altre condizioni (dislessia, discalculia, ADHD, autismo,…) rappresenterebbero (neuro)divergenze dagli standard socialmente condivisi di “normalità”. Se è vero che l’esposizione ai dispositivi può togliere tempo ad altre attività e modi di sperimentare il mondo, gli allarmi sul digitale come “causa” ricordano quelli, già fortemente messi in discussione, sugli schermi come “responsabili” di autismo e ADHD.
Quelli che vengono chiamati “Disturbi dell’Apprendimento” fanno riferimento in realtà a un differente modo di apprendere. Questa varietà esiste da sempre e ha origine genetica. La sfida, quindi, non è quella di prevenire la diversità umana nei modi di apprendere, ma trovare modi nuovi per incontrare il funzionamento di tutti i cervelli. Colpisce poi come proprio gli strumenti digitali possano avere una funzione strumentale di utilità per persone neurodivergenti, in una prospettiva di disabilità che emerge nel contatto con l’ambiente, le sue richieste, i bisogni e gli obiettivi della persona. Chiediamoci quindi che valore diamo alla scrittura adeguata, a beneficio di chi e per quale motivi.
Ambra Ferrari: L’apprendimento tattile è estremamente importante per lo sviluppo delle abilità fisiche, cognitive, e linguistiche dei bambini, e persino per il loro sviluppo sociale ed emotivo. Per questo, i bimbi molto piccoli esplorano toccando, invece di affidarsi agli altri sensi, che sono ancora un po’ traballanti. Dando loro in mano un oggetto completamente liscio come uno schermo touch, non gli stiamo facilitando il compito di esplorare le consistenze e il peso degli oggetti.
- Whitty, Monica T. (Autore)
Uno studio condotto a Taiwan nel 2017 ha osservato, nei bambini di cinque anni che spendevano più di 60 minuti a settimana giocando con un tablet, performance peggiori in esercizi di precisione motoria e destrezza manuale, rispetto ai loro coetanei che trascorrevano lo stesso tempo giocando con la plastilina o disegnando. E certo muovere la penna o la matita per scrivere (e persino impugnarla bene, per la verità) richiede destrezza manuale.
La colpa della “scrittura disgrafica” (se di colpa si può parlare) non è però da attribuire alla tecnologia, ma di come (e quando) viene utilizzata. L’OMS stessa ha raccomandato la policy “zero schermi” al di sotto dei due anni, e di proseguire con parsimonia. La tecnologia ruba tempo che potrebbe essere utilizzato in modo più produttivo, e questo è valido per grandi e piccini. Sono gli adulti a dover dare il buon esempio: i bambini sono imitatori. Se ci vedranno scorrere i social vorranno fare lo stesso con il ditino, se ci vedranno leggere un libro ne vorranno uno anche loro.
Dopotutto, questo cambiamento è un male, o è solo parte della rivoluzione contemporanea tra scrittura manuale e digitale?
Gabriele Barone: Come affermato in precedenza, è difficile includere lo sviluppo funzionale all’interno dei canoni di bene e male. La rivoluzione industriale ha portato grandi mutamenti nella sfera sociale dell’essere umano. Non possiamo dire se sono stati positivi o negativi, ma ha consentito un aumento del benessere complessivo della popolazione. Una previsione analoga può essere fatta per la rivoluzione digitale.
Ambra Ferrari: Tutto cambia. Non si usano più i telefoni a disco, ma non credo manchino davvero a qualcuno, se non come fashion statement. Ma qui la questione è diversa. Non stiamo parlando di perdita di un’antica abitudine, ma della possibile perdita di una skill di vitale importanza nella vita di tutti i giorni.
La domanda che dobbiamo farci è: i bambini, pur non scrivendo bene, sono ancora dotati di motricità fine? Sono ancora in grado di ritagliare, colorare, allacciarsi le scarpe e chiudere una zip? Se la risposta è no, dobbiamo correre ai ripari.
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Non stiamo parlando solo dei bambini. Io stessa, un tempo amante della calligrafia con penne stilografiche, mi rendo conto che sto perdendo manualità a forza di scrivere al PC.
Elena Fretti: Di “rivoluzioni” segnate da tecnologie ne abbiamo avute molte nella storia della nostra specie. Quella del digitale sicuramente colpisce per il suo essere veloce e pervasiva, vicina alle nostre emozioni e ai nostri pensieri. Probabilmente abbiamo perso molte abilità in passato considerate fondamentali, o di valore (accendere un fuoco, orientarsi seguendo il sole e le stelle, imparare a memoria lunghi testi).
Chiederci cosa vogliamo preservare dal cambiamento è un’occasione per capire che valore attribuiamo a quella abilità. E magari per capire come quest’ultima possa continuare ad avere valore, anche in un modo nuovo. Se la scrittura a mano è per noi esercizio di precisione, cura, chiarezza comunicativa, esistono altre vie per coltivare queste capacità?
I dubbi sollevati riguardano anche il metodo di apprendimento. Tenete anche dei corsi, potreste raccontarci quale pensate sia il metodo migliore per evitare che si incorra in ulteriori problemi?
Gabriele Barone: L’impressione è che spesso i metodi di insegnamento non siano adeguati alla popolazione moderna, o che non si siano evoluti con essa. In un contesto stimolante come quello moderno, è difficile mantenere l’interesse e l’attenzione dei bambini con metodi canonici. Spesso, integrare le nuove tecnologie nei metodi di insegnamento può essere un valido metodo di engagement, utile a stimolare l’apprendimento.
Ambra Ferrari: Io mi occupo di formazione di universitari e giovani apprendisti utilizzando un approccio votato al gioco, analogico e digitale. I vantaggi di utilizzare l’apprendimento ludico sono innumerevoli. Prima di tutto, le persone di solito guardano al mondo ragionando sui problemi futuri e creando strategie sempre nuove per affrontarli efficacemente. È la base dei meccanismi di apprendimento. Per sfruttare questa capacità innata di evoluzione e crescita, l’apprendimento scolastico dovrebbe coinvolgere contemporaneamente conoscenza teorica e pratica, insieme ad aspetti percettivi, cognitivi e motori. Eppure, spesso, i metodi di insegnamento tradizionali sono frontali, basati su nozioni teoriche trasmesse verbalmente.
Invece, l’uso del Gioco come strumento educativo ha la potenzialità di costituire una vera e propria simulazione, stimolando tutte le componenti esperienziali di un apprendimento completo. Oltre all’aspetto esperienziale, un ulteriore vantaggio risiede nel suo essere un ambiente ben separato dalla realtà. L’apprendimento è reale, ma le conseguenze delle proprie azioni durante la Sessione non lo sono. Così, il gioco incoraggia la libera esplorazione delle soluzioni nella sicurezza di un contesto realistico ma innocuo, dove gli errori non sono gravi e si può procedere sbagliando in libertà, in un contesto informale e privo di giudizi. Perché sbagliando si impara, e non esistono voti nel gioco.
Il futuro non è la semplice introduzione della tecnologia nell’apprendimento, ma adattare l’insegnamento al funzionamento cerebrale umano, di cui oggi grazie alla ricerca scientifica sappiamo molto. Siamo noi che dobbiamo adattare il nostro linguaggio ai ragazzi, che sono il futuro, e non viceversa. In questo, la tecnologia ci può essere utile, anche se non è strettamente necessaria.
Anche i videogiochi, in qualche modo, vanno a cambiare l’impatto che la persona ha nell’interazione con il mondo finora classicamente intesa?
Gabriele Barone: In un certo senso lo stanno già facendo: il videogioco ha cambiato una delle forme più arcaiche di relazione dell’essere umano, ovvero il gioco. Questo, negli ultimi anni, ha iniziato a prescindere la presenza fisica, consentendo ai giocatori confronti e relazioni mai visti in precedenza.
Daniele Brussolo: Partirei da cosa offrono i videogiochi come mondo. Sicuramente mondi “altri” con caratteristiche anche molto diverse tra loro: spesso adulti ed educatori hanno in mente alcuni titoli popolari (Fortnite e/o Minecraft tra tutti), ma non sempre colgono la varietà di esperienze che il videogioco può offrire. Diventa difficile anche stabilire cosa queste abbiano in comune, potremmo dire l’offrire delle esperienze simulate, più o meno astratte, che rispondono alle interazioni dell’utente. Ed è proprio questa risposta che guida una ricerca di competenza e a volte completezza.
Il videogioco può essere molto rapido, preciso e complesso nel tipo di risposte che fornisce nelle interazioni. Sono meccanismi studiati e sempre più utilizzati non solo nella didattica, ma anche nella promozione della salute e in ambito commerciale. Chi insegna può sentire una sorta di concorrenza da parte di esperienze ludiche che offrono risposte rapide e un flusso di stimoli continui. Sono contrapposte a una didattica che non sempre può o ritiene adeguato strutturarsi in questo modo. Ma anche chi impara le trova sempre più familiari, fino a darle per scontate.
Ambra Ferrari: La game designer e ricercatrice Jane McGonigal disse che “il futuro appartiene a chi gioca”, e non posso non dirmi d’accordo. I videogiochi commerciali, spesso tacciati di essere nel migliore dei casi una perdita di tempo e nel peggiore di essere diseducativi, vanno rivalutati. E infatti, la ricerca scientifica si è a lungo pronunciata sui benefici dei videogiochi di intrattenimento a livello cognitivo, empatico, valoriale, ed etico.
I videogiocatori sono, quindi, molto ben equipaggiati per affrontare le sfide contemporanee, ma sono anche propensi ad affrontare un’intensa “autoanalisi” ogni volta che giocano. Il videogioco di ruolo, in particolare, è fatto di scelte, piccole o grandi che siano. Alcune aprono dei grandissimi canali di introspezione: chi salverei se mi trovassi in una situazione d’emergenza? Come mi comporterei se mi trovassi a dover combattere tra il bene e il male?
Pochi mesi fa, un team di ricercatori spagnoli ha pubblicato un report che ha esaminato due decine di studi scientifici. A dire degli autori, dimostrano quanto i videogiochi siano dannosi per i più piccoli. Il team spagnolo ha notato, invece, che la quasi totalità degli studi esaminava ragazzini che giocavano a videogiochi violenti e inadatti alla loro età, senza supervisione degli adulti, ad orari scorretti e per un tempo troppo lungo. Insomma, il videogioco è una risorsa preziosissima che modifica il nostro modo di approcciarci al mondo e alle sue sfide. Ma, come sempre, sta all’adulto indirizzare i più piccoli ad un utilizzo intelligente del mezzo.
Quali altre tecnologie impattano, ora o in futuro, sul classico processo di apprendimento finora seguito?
Gabriele Barone: Probabilmente bisognerebbe domandarsi in che modo le tecnologie attuali possono migliorare i processi di apprendimento: i videogiochi ad esempio, hanno un grandissimo potenziale di insegnamento. È il caso dei serious game, giochi elettronici pensati per insegnare competenze specifiche o per sensibilizzare. Ma il mercato ancora preferisce puntare sui titoli di intrattenimento. Quando anche l’istruzione integrerà questo tipo di prodotti, non sarà difficile immaginare titoli per imparare i calcoli o la storia. E come i ragazzi di oggi possono conoscere a memoria la storia di Zelda e dell’impero di Hyrule, saranno in grado di recitare perfettamente gli avvicendamenti dell’impero Romano o della guerra di indipendenza.
Daniele Brussolo: Quando si chiede di fare previsioni su tecnologia e apprendimento futuro, ricordiamo sempre quanto sia facile mancarle in modo clamoroso. Partirei dal vedere cosa già sta cambiando adesso: scuola, genitori, pari e comunità educante non sono più da tempo gli unici riferimenti dell’apprendimento. Allo stesso modo le tradizionali fonti come la stampa o la trasmissione orale sono sempre più affiancate dalla rete. L’impatto non è solo in termini di varietà delle prospettive e di multimedialità, ma vengono messe in discussione modalità di imparare dirette da altri e che valorizzano la rielaborazione profonda.
Un buon esempio è come la familiarità con le interfacce dei social network li abbia trasformati, per alcuni adolescenti, in spazio privilegiato dell’apprendimento. Ci si può sentir dire nelle classi che una ricerca scolastica sia stata svolta esclusivamente su TikTok, come fosse una sorta di “rete nella rete” di per sè autosufficiente. Il potenziale impatto positivo di creatori di contenuti a carattere divulgativo è indubbio. Ma renderli la principale, se non unica, fonte restringe non solo il tipo di informazioni che si possono ottenere, ma anche il contatto con diversi modi di presentarle.
Altro punto degno di nota è la tendenza a vedere la scuola come entità monolitica necessariamente arretrata. Frequentando le scuole e chi insegna, si viene in contatto con iniziative anche coraggiose, che superano l’ormai limitata contrapposizione tra digitale e analogico: dal videogioco Scribblenauts usato alla primaria per avvicinare a lettere e parole, fino ai confronti tra figure letterarie e dei social media nelle scuole superiori.
Ambra Ferrari: Sembrerà retrò, ma sicuramente Internet. Sono particolarmente affezionata all’esperimento “Il Buco nel Muro” condotto dal dottor Sugata Mitra, informatico e teorico dell’educazione. Nel 1999, Mitra pose un computer connesso a Internet in una delle aree più degradate di Delhi. I bambini della zona, spinti dalla curiosità, cominciarono a pasticciare con il PC lasciato incustodito. Non solo impararono a usarlo, ma arrivarono anche ad imparare nozioni estremamente complesse, come i meccanismi di replicazione del DNA, tutto da soli.
Mitra notò anche che bastava che una persona passasse di lì e si complimentasse con i bambini per i loro sforzi, per dare un’ulteriore spinta al loro interesse nell’aggeggio. Ricordo, parliamo di bambini che a malapena sapevano leggere e scrivere, eppure in poche settimane sono diventati degli esperti.
Sulla base di questi risultati, Mitra sottolinea come l’attuale sistema educativo sia ormai obsoleto e stagnante, ancora legato a priorità accademiche vittoriane, come avere una buona calligrafia e far di conto.
In effetti, l’era moderna è dotata di numerose unioni tra tecnologia e apprendimento che possono essere utilizzate a vantaggio sia degli educatori che dei loro studenti, ma il sistema scolastico è lento ad adattarsi. Parliamo di una rivoluzione del metodo di insegnamento che faciliti l’apprendimento interdisciplinare, catturando l’immaginazione degli studenti e consentendo loro di identificare pattern e collegamenti tra materie che nei secoli sono state “artificialmente” divise.
Quali infine le previsioni future sull’impatto della tecnologia a seconda delle diverse fasce di età?
Daniele Brussolo: Ribadendo la premessa fatta sulle difficoltà di previsione, troviamo sia utile notare come la tecnologia ci accompagna da sempre: l’essere umano è tale nella tecnica, nel collegare pratiche e strumenti a un fine. Rispetto all’infanzia, possiamo osservare una tendenza a considerare agenti non umani come la normalità. Già da qualche anno sentiamo chiedere agli assistenti vocali di raccontare storie. Ma potremmo vedere anche percorsi molto diversi di rapporto tra tecnologie e apprendimento a seconda degli atteggiamenti in famiglia e degli stili genitoriali.
Per gli adolescenti molto dipenderà da eventuali possibili regolazioni future legate ai social network. Si veda il caso di Snapchat, riesumato come spazio di intimità intermedio tra il profilo Instagram e il numero di telefono con le app di messaggistica; si conoscono persone su Instagram, attratte dai rispettivi profili, e in seguito a manifestazioni di interesse le si aggiunge su Snapchat dove condividere pezzi di vita quotidiana. Non sottovalutiamo la possibilità di narrazioni anti-digitale e forme di ritorno all’analogico anche parziali. Lo abbiamo visto con i video legati a suoni e attività manuali molto apprezzati in pandemia, per recuperare aspetti sensoriali sentiti come limitati dalle restrizioni.
I “nuovi adulti” si apprestano poi a diventare genitori e molti di loro condivideranno esperienze digitali con i figli, quale sarà la “nuova norma”? C’è da chiedersi anche quali saranno i nuovi equilibri interni alla famiglia rispetto agli spazi digitali e alla propria presenza in rete. Nella terza età, le prossime generazioni avranno un bagaglio sempre più grande di contenuti digitali personali: non solo foto e video ma anche salvataggi di videogiochi, testi, mondi virtuali, account e post social. Saranno anche le tecnologie a ricordarci, e a chiederci, chi siamo, chi siamo stati e cosa vuol dire questo per noi.
Ambra Ferrari: La tecnologia è già diventata parte della nostra vita, spesso più di quanto immaginiamo. Forse gli androidi sono ancora lontani, ma pensate a Deep Blue, il computer IBM che vinse una partita a scacchi contro Kasparov già nel 1997, ad Alexa, la nostra assistente virtuale, alle IA “creative” che creano musica o lavori grafici, a quelle che aiutano i manutentori a prevedere i fallimenti delle macchine di produzione aziendale, a quelle che migliorano la sicurezza sul posto di lavoro, all’autopilota negli aerei di linea.
Pensiamo anche solo al lavoro da remoto, alla possibilità di lavorare da casa (o dalla casa vacanze), alla cura degli anziani, o agli amichevoli agenti virtuali che ricordano di prendere le pastiglie alla giusta ora. Con una presenza così massiccia, è solo giusto che anche i più giovani si abituino ad interfacciarsi con la tecnologia in modo sano e intelligente, magari introducendo l’utilizzo di videogiochi commerciali, realtà aumentata, e realtà virtuale nell’apprendimento scolastico ed extrascolastico, come suggerivo prima. Restano comunque i caveat dell’OMS: c’è ancora bisogno di skill mentali e manuali nel mondo di oggi, che non possono essere apprese in altro modo che nella vita vera – almeno per il momento.
Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API
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