Fra i disastri aerei che purtroppo si sono susseguiti nel corso del tempo, uno dei più noti è sicuramente quello del 13 ottobre 1972, avvenuto sulla Cordigliera delle Ande e che ha coinvolto la squadra di rugby uruguaiana degli Old Christians Club. Un incidente scolpito nell’immaginario collettivo non tanto per il numero di vittime (29, di cui 12 nel momento dello schianto), ma per l’incredibile storia di sopravvivenza che ne è seguita, con i superstiti capaci di resistere diverse settimane in mezzo alla neve e alle intemperie, cibandosi anche dei corpi dei deceduti per non morire di fame. Una storia dolorosa e struggente, già narrata nel 1993 da Frank Marshall con il suo Alive – Sopravvissuti, che oggi rivive ne La società della neve, film Netflix di Juan Antonio Bayona scelto come chiusura di Venezia 80.
Un’opera dalla produzione importante e dalla durata notevole (ben 144 minuti), con cui Bayona torna al genere catastrofico dopo il buon successo di The Impossible, incentrato sullo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano. Il cineasta spagnolo è però chiamato a spingersi oltre, rappresentando non solamente i tragici momenti dell’impatto e il commovente salvataggio dei superstiti, ma anche tutto ciò che avvenuto in mezzo, ovvero la necessità da parte dei sopravvissuti all’impatto di organizzarsi come una piccola comunità, prendendo anche le scelte più dolorose per salvare il maggior numero possibile di vite. Una dinamica che rimanda al capolavoro di William Golding Il signore delle mosche e alle tante opere da esso derivate, fra cui la celeberrima serie televisiva Lost.
La società della neve e Lost
Proprio Lost ha più di un punto di contatto con La società della neve. Entrambi i racconti si basano su un disastro aereo e sulla successiva organizzazione dei superstiti in un ambiente ostile, ma soprattutto entrambe le opere possono contare sulle musiche di Michael Giacchino, che in particolare nelle toccanti scene finali richiamano proprio quelle della serie televisiva statunitense. Se tre indizi fanno una prova, c’è tutto il necessario per attribuire al lavoro di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber un certo livello di influenza su La società della neve.
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A fare la differenza fra i due racconti sono la caratterizzazione e l’approfondimento psicologico dei protagonisti. Mentre Lost basava gran parte del suo successo sui lunghi e numerosi flashback incentrati sulla vita dei personaggi prima dell’impatto, ne La società della neve Bayona opta per una narrazione decisamente più convenzionale, che dopo una breve introduzione sugli ultimi momenti di felicità della squadra universitaria di rugby ci porta direttamente al centro dell’attenzione, con un incidente dal notevole impatto scenico ed emotivo e con la conseguente lotta per la sopravvivenza, fatta anche di valanghe, lento deperimento e dissidi interni sulle scelte da compiere.
Una scelta che ha come inevitabile effetto quello di non creare la necessaria empatia nei confronti dei personaggi, presentati tutti in maniera abbastanza frettolosa e superficiale. Una mancanza solo parzialmente compensata da Bayona, che soprattutto nel momento del decesso inserisce brevi immagini della vita dei protagonisti prima dello schianto, affiancate dal nome e dalla data di morte del deceduto.
La società della neve: una struggente storia vera di fede e attaccamento alla vita
Tutto ciò porta a identificare i superstiti come un unico gruppo, mosso dalla fede e dal disperato attaccamento alla vita. Un aspetto importante del racconto è ovviamente l’inevitabile cannibalismo, già al centro di Alive – Sopravvissuti. Da fine indagatore dell’animo umano (evidente soprattutto nello splendido Sette minuti dopo la mezzanotte), Bayona trova il giusto compromesso fra documentazione e spettacolarizzazione, mostrando prima la titubanza dei vari membri della squadra verso la possibilità di cibarsi dei corpi dei propri amici, per poi trasformare questa dinamica in una sorta di rito ripugnante ma necessario.
La battaglia dei protagonisti per salvarsi non si limita però solo al cibo, ma comprende la necessità di proteggersi dal gelo, di accudire i compagni feriti o malati, di cercare di farsi notare dagli aerei di passaggio e di organizzare piccole spedizioni nel territorio circostante. Ma c’è spazio anche per il rapporto con la radio (unico collegamento con il mondo esterno, seppur passivo) e persino per qualche piccolo momento di svago, necessario per salvaguardare un piccolo barlume di sanità mentale.
Il tutto è raccontato da Bayona con un’invidiabile gestione narrativa degli spazi, che ci permette di comprendere in ogni momento dove ci troviamo, quali sono le difficoltà e dove si annidano i rischi. La già citata scarsa caratterizzazione, insieme a una massiccia dose di ripetitività, porta a un’evidente fase di stanca nella parte centrale dell’opera, che penalizza i suoi innegabili pregi.
Un commovente finale
A farla da padrona sono ovviamente le fasi concitate del salvataggio che, grazie anche alla già menzionata musica di Michael Giacchino e all’ottimo lavoro di Bayona sugli attori e sulle riprese aeree, rende difficile, se non impossibile, non commuoversi di fronte a questa drammatica e lacerante storia vera. Passata l’emozione, resta però la netta sensazione di aver assistito a una storia troppo corale e non abbastanza personale, persino edulcorata nel rapporto fra i vari personaggi.
Un lavoro comunque degno di attenzione e rispetto, che fa però riflettere sulla natura stessa di questa storia, che in epoca di narrazioni maldestramente allungate per rispettare i requisiti della serialità sembra invece reclamare a gran voce la dimensione della serie televisiva per approfondire personaggi ed eventi collaterali al disastro. Quello che ci arriva è invece una sorta di ibrido, troppo lungo per la dimensione cinematografica (qualche taglio avrebbe giovato al ritmo) e non abbastanza sviluppato nella componente umana della storia.
La società della neve arriverà prossimamente su Netflix.
Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API
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