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La recensione di The Playlist: la serie Netflix che racconta la controversa nascita di Spotify

Un’industria discografica conservatrice ma profondamente in crisi, che fatica con lo stare al passo con le nuove tecnologie, soprattutto a causa dell’exploit della pirateria online. Questo il contesto storico che fa da sfondo a The Playlist, oggetto di questa nostra recensione, la nuova serie Netflix che racconta la nascita di un servizio che avrebbe rivoluzionato la musica: Spotify.

Attraverso sei episodi, dalla durata di circa 50 minuti l’uno, la macchina da presa di Per-Olav Sørensen ci porta nelle vite, nelle paure e nelle ambizioni di un team di sviluppatori visionari, dirigenti discografici e imprenditori, tra chi comprende la necessità di abbandonare il passato e chi proprio non vuole cedere il passo alle nuove tecnologie.

Liberamente basato sul libro Spotify Untold, la serie indaga il mercato discografico del 2006, messo in crisi dall’ascesa di servizi Peer-To-Peer illegali come Pirate Bay. Le vendite dei dischi fisici quindi calano, e l’intera industria musicale si mostra reticente verso l’avvento di un nuovo modello: quello della musica in streaming.

In questo periodo storico tumultuoso, Daniel Ek, un giovane programmatore svedese, ha un’intuizione: offrire musica in streaming ma in modo legale. L’idea è però complessa da realizzare, soprattutto perchè c’è da convincere la discografia a cedere i diritti dei brani, mentre gli artisti si ritroveranno a raccogliere le briciole del loro lavoro. Una storia controversa, un modello che fa ancora oggi discutere, che nel bene e nel male ha però rivoluzionato il mondo della musica.

La nostra recensione di The Playlist: disponibile ora su Netflix

La grande forza narrativa di The Playlist risiede nel suo interessante format. Proprio come una playlist Spotify, la serie propone sei episodi come se fossero sei canzoni da altrettanti album e artisti diversi. Ogni puntata ci offre infatti il punto di vista di uno dei protagonisti, a partire da Daniel Ek, CEO e co-fondatore di Spotify, fino ad arrivare alla cantante Bobbi T, che lamenta l’insostenibilità della musica in streaming per gli artisti.

Nel mezzo ci sono discografici, programmatori, legali e persino Martin Lorentzon, colui che per primo ha investito nel visionario progetto di Ek. Da questo punto di vista la serie ci offre episodi unici, che non hanno paura di entrare in contraddizione tra loro. Questo perchè i personaggi coinvolti hanno tutti una propria coscienza, ma soprattutto una propria versione e percezione dei fatti avvenuti.

Questo espediente narrativo consente allo show di raccontare una storia a 360 gradi, a partire dall’innovativa tecnologia di Spotify (spiegata da uno degli sviluppatori nel quarto episodio) alla complessità della macchina discografica (ben analizzata nella seconda puntata). Inoltre ogni episodio, proprio perchè incentrato su uno specifico personaggio, ha una propria identità e un proprio approccio registico. In particolare ci ha stupido la terza puntata, con movimenti di macchina e toni cromatici incredibilmente curati.

La diversità dei punti di vista proposti consente inoltre di non cadere mai nella facile tentazione della giudiziosità del racconto. Sarà infatti lo spettatore il vero giudice, decidendo se e a chi dare ragione.

Le contraddizioni dell’industria musicale dei primi anni 2000

Gli appassionati di musica più maniacali saranno felici di osservare uno spaccato del mondo musicale spesso poco raccontato. Tra gelosie di mercato e dinamiche che rischiano di impoverire il mondo degli artisti, The Playlist ci lascia sbirciare dal buco della serrature degli uffici delle major, aiutandoci a comprendere il perchè di tante controversie che ancora oggi leggiamo in merito ai servizi di musica in streaming.

Non mancano poi dei piccoli ma deliziosi easter eggs, come un giovane DJ chiamato Tim (che diventerà poi AVICII) e la scena del matrimonio di Daniel Ek, quando in sottofondo c’è un brano di Bruno Mars, che nella vita reale si è esibito durante la cerimonia. Ci sono poi i riferimenti alle prime polemiche di Taylor Swift sull’insostenibilità del modello streaming e anche una citazione storica a quanto avvenuto con l’avvento di MTV negli anni ’80.

Non solo musica però: gli appassionati di coding e di linguaggio internet apprezzeranno l’accuratezza e la semplicità con la quale la serie ci spiega alcuni basici concetti di programmazione. Insomma The Playlist è un prodotto che non lascia nulla al caso, tanto nella sceneggiatura quanto nella regia.

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Marco Brunasso

Scrivere è la mia passione, la musica è la mia vita e Liam Gallagher il mio Dio. Per il resto ho 30 anni e sono un musicista, cantante e autore. Qui scrivo principalmente di musica e videogame, ma mi affascina tutto ciò che ha a che fare con la creazione di mondi paralleli. 🌋From Pompei with love.🧡

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Commenti

  1. Serie stupenda. C’è da dire che le serie in generale hanno raggiunto un livello davvero alto sotto tutti i punti di vista. Una cosa ancora non me la spiego: come fanno a fare errori così grossolani? Strategie per far parlare di se? Chissà. Tra l’episodio “la visione” e “il programmatore” c’è una discrepanza molto evidente nella scena in cui Ek ed Ehn sono nel locale in cui si esibisce Bobby. Nel primo episodio i due non colloquiano tra loro quando viene avvistato il boss della Sony e sopratutto è Ehn ad accorgersi di lui. Nell’episodio “il programmatore” invece avviene tutto il contrario. Mah.

    1. Ciao Giovanni, le incongruenze tra diversi episodi sono molteplici e sono sicuramente volute. Questo perchè ogni puntata ci mostra la prospettiva e i ricordi di uno specifico personaggio. Capita quindi, così come capita nella vita reale, che due persone abbiano ricordi leggermente diversi di un dato aneddoto. Del resto Don Henley cantava “ci sono tre versioni di ogni storia: la mia, la tua e la fredda verità”.

      1. Sono d’accordo.
        Del resto era anche evidente nella scena della foto di gruppo.
        Nella narrazione di Daniel Ek, lui è in secondo piano per lasciare in primo piano i coder.
        In quella di Andreas, Daniel è ben al centro, in evidenza, davanti a lui.
        E ci sono molti altri ricordi comuni che sfumano leggermente a seconda del protagonista e dell’emotività che pervade la narrazione

  2. Leggo recensioni su recensioni di questa bella serie, ma praticamente NESSUNA parla dell’argomento principale: i diritti dei musicisti. Guarda caso è l’ultimo (ed il più importante) col quale si chiude la serie. Quello che porta alla questione splendidamente descritta da Bobby T nell’arringa finale alla corte, e personalmente quella che ritengo essere una vera vergogna per questo “servizio”. Tutti a parlare di tecnologia e cambiamento. E i musicisti muoiono.
    Bah.

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