Parlare, nominare le cose è un atto generativo, è un atto di responsabilità che si fa verso il mondo perché dal nome che si sceglie deriva il comportamento che si avrà nei confronti di una persona o di una circostanza. «Il linguaggio evoca mondi, costruisce possibilità, apre spazi mentali, incanala il pensiero, dirige l’attenzione, influenza la percezione della realtà e come le persone vedono sé stesse», scrive Chiara Volpato nel suo saggio Psicosociologia del maschilismo.
Il modo in cui uomini e donne sono rappresentati nel discorso può renderli salienti o invisibili
Esserci, nominarsi, pronunciare le cose con il loro nome è fondamentale per osservare l’orizzonte di senso della lingua, il limite strutturale che divampa nella riconoscibilità sociale. Alle parole sono legate delle conseguenze, delle azioni, soprattutto dei diritti mancanti. Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus Logico Philosophicus affermava «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo».
Le parole, il linguaggio, la scrittura, i libri tendono a produrre permanenza, rimangono, sopravvivono. Nello specifico la scrittura è un modo ambizioso di far entrare il mondo e la sua complessità in sintassi e grammatica, o in retorica.
Un libro che esplora il potere delle parole e il loro impatto sulla società, in particolare sulle donne, è Ne uccide più la lingua. Smontare e contestare la discriminazione di genere che passa per le parole, pubblicato da De Agostini nel 2022, scritto da Valeria Fonte. L’autrice analizza come la lingua italiana sia stata plasmata dalla misoginia, e come questo si rifletta nella comunicazione quotidiana, sui social, nei media e nella politica. Valeria Fonte ci mostra come le parole possano essere usate per discriminare, offendere, umiliare le donne, ma anche come possano essere usate per difendere i loro diritti, esprimere la loro identità, creare nuovi significati.
Un saggio che si occupa di analizzare e denunciare il sessismo linguistico e la discriminazione di genere che passa per le parole, un saggio divulgativo e appassionato che si propone di smontare e contestare gli stereotipi e le violenze verbali che colpiscono le donne, mostrando come il linguaggio possa essere usato per escludere, sminuire, umiliare o violentare le donne. Ne uccide più la lingua è un libro che invita a riflettere sul potere delle parole e sulla responsabilità di chi le usa. È un libro che denuncia le ingiustizie e le violenze che si nascondono dietro le parole, ma anche un libro che celebra la forza e la bellezza del linguaggio come strumento di cambiamento sociale.
Ne abbiamo parlato con l’autrice Valeria Fonte in una lunga e bella intervista che potete leggere qui di seguito.
Valeria Fonte: la nostra intervista all’autrice di Ne uccide più la lingua
Qual è l’urgenza da cui nasce questo libro?
Credo che questo libro fa una cosa che non è forse mai stata fatta: dare i nomi alle cose. Quando dico che c’è urgenza di dare nomi alle cose mi riferisco al fatto che se noi un fiore lo chiamiamo fiore lo identifichiamo come un fiore. Invece un’altra cosa, tipo uno stupro, una violenza sessuale la decliniamo come disagio, brutta esperienza, fastidio, ecco che perde il suo senso. Ecco perché forse l’unica cosa che fa di innovativo questo libro è dare nomi alle cose, perché chiama le cose col loro nome.
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Quando tu chiami le cose col loro nome elabori quella cosa in maniera diversa. E c’è un problema con la questione dei nomi e della retorica in generale perché nessuna istituzione, parlo anche di scuola, ci ha insegnato a nominare gli eventi, e ci hanno sempre detto che queste parole grosse, come stupro, vanno utilizzate con cautela, con attenzione perché non sono parole semplici, non sono parole quotidiane.
Eppure soltanto il 7% degli stupri ha a che fare con violenza estrema, con lividi e con sangue. Tutto il resto, tutti gli altri stupri, sono stupri quotidiani. Quindi come possiamo non usare una parola che fa parte della nostra quotidianità? E soprattutto, come facciamo a legare a quelle parole un’idea chiara di stupro?
“Quando impari a dare nomi alle cose identifichi il problema“
Ecco, l’urgenza di questo libro è dare non solo i nomi ma anche le idee delle cose. Perché se c’è una cosa che mi succede sempre durante tutte le presentazioni e le assemblee che facciamo è che a un certo punto arriva qualcuno che mi dice: “Ciao, ho scoperto di essere stuprata, in questa stanza, in questo momento, oggi, e nessuno mi ha mai insegnato che questa cosa qui, fatta in questo modo, è stupro”.
E questo vale non solo per lo stupro ma per tutte le altre cose, per violenze verbali o fisiche e economiche. Vale per ogni singola violenza vissuta. E quando impari a dare nomi alle cose identifichi il problema. Ecco perché c’è un’urgenza di dare i nomi alle cose, perché è l’unico modo per trovare quello che possiamo definire un antidoto.
Qual è il tuo rapporto con i social, quanto è importante occupare tutti gli spazi, soprattutto quelli virtuali, e creare comunità virtuali in uno spazio imprevisto?
Questa è una domanda complessa perché io lavoro sui social fondamentalmente, certo faccio divulgazione nelle piazze o nelle aule ma in ogni caso da lì è iniziato, dai social network, dalla divulgazione online. E ti dirò di più: le piazze online sono le piazze con più censura in assoluto. E ti spiego perché. La censura nelle piazze online, quindi i social, è una censura subdola, è una censura a cui manca il tratto umano. Una piattaforma in cui utilizzo la parola violenza, la parola stupro, non riesce a comprendere il contesto in cui utilizzo quella parola. Io non sto incitando allo stupro, ma sto dicendo come lo stupro è problematico in una cultura X.
“Le piazze online sono le piazze con più censura in assoluto”
Una piattaforma non comprende il contesto e non comprende le intenzioni di un contenuto e lo blocca a prescindere, perché la parola in sé è problematica. Se quelle parole che fanno parte della nostra lotta quotidiana, e che sono il fulcro dell’urgenza di dare nome alle cose, se proprio i nomi non li possiamo usare, i nomi delle cose che ci riguardano perché i contesti in cui le utilizziamo a prescindere sono sbagliati per le piattaforme, come possiamo parlare di quello che vogliamo?
Come possiamo fare divulgazione su cose che non possono essere banalmente nominabili?
Inoltre il problema delle piattaforme social è un problema di gerarchia: nelle piattaforme social si crea sempre questa sorta di malinteso, “Tu divulghi, io imparo”, ovvero colui che veicola il messaggio e colui che lo riceve, che a sua volta non può produrne altri perché si sente sempre meno. Quello che dobbiamo cercare veramente è l’anarchia delle parole, è utilizzare un contenuto, un contesto e un lessema ogni volta che vogliamo.
Questa cosa la possiamo fare solo negli spazi non virtuali. Perché? Perché negli spazi virtuali questo tipo di censura, che è subdola e che è continua sulle parole, in tutti i modi blocca la possibilità di arrivare al fulcro del problema. Ovvero nominare gli eventi. Certo, le piattaforme online sono utili perché arrivano immediatamente ovunque, però ai social manca lo step successivo: agitare le piazze.
Io posso creare tutto il disagio che voglio. Ed è successo spessissimo. Ma c’è una cosa che l’online non può fare, ed è scioperare, cioè andare letteralmente nelle strade, bloccare il Paese. Ovviamente c’è chi dice che nelle piazze non tutti ci possono andare, ed è vero. Il punto è che ci poniamo la domanda sbagliata cioè: come facciamo a rendere le piazze un posto accessibile per chiunque? Dobbiamo chiederci come la piazza può diventare un posto accessibile per chiunque. Come la piazza può diventare il modo centrale per fare le cose? Io credo che i social devono essere funzionali per creare una realtà parallela, cioè quella dell’attività presente sul territorio. Questa è l’epoca in assoluto, secondo le statistiche, in cui c’è meno attività politica sul territorio rispetto agli anni passati. E tu dirai: è assurdo perché online ci sono attiviste ogni volta che giri l’angolo.
Infatti è molto interessante questa cosa che dici, perché distingui attività da attivismo.
L’idea di attivismo è quella di attivare le persone, cioè io non devo educare le persone. Io non faccio divulgazione per educare o per insegnare delle cose, lo faccio per attivare perché questo lo faccio attraverso una parolaccia, attraverso un culo, attraverso un messaggio divulgativo, attraverso una nozione scientifica. Non è importante: il punto è attivare. E l’attivismo on-line fa questo, prova ad attivare e ci riesce molto spesso, ma poi? L’attività dov’è? Tutta questa rabbia che viene creata, tutto questo bisogno di agire sui social, dove sfocia? Dove arriva? Quello il punto.
Secondo te l’attivismo senza attività è solo performance?
Si. Io posso attivare miliardi di persone ma se poi manca l’attività, e non per forza sul territorio o in piazza, si può fare anche online. Ci sono 1000 modi per farlo, anche online, ma di solito non avviene, di solito veramente si alterna l’immagine di un gatto all’immagine di un morto in guerra. Cioè a noi manca la sensibilità del reale nell’online, perché abbiamo abituato il nostro occhio a switchare continuamente. A noi manca l’attività perché è già attivo il processo del nostro cervello che vede una cosa e poi un’altra, elabora prima quella cosa, poi quell’altra; cioè noi attiviamo continuamente tutto il giorno il nostro cervello su un sacco di cose diverse ma ci manca quell’attività fisica, e per fisico intendo ovviamente non per forza andare in piazza, agire o fare qualcosa ma creare un disagio.
Gruppi Telegram, gruppi di stupro: sono ancora così diffusi? Perché vengono creati, qual è lo scopo reale?
Lo scopo della violenza on-line è quella di poter fare attività illegale senza che qualcuno ti punisca per quello che tu fai: c’è una cosa in retorica, un processo retorico, che prevede che un colpevole si senta tale solo quando subisce una punizione. Quel tipo di realizzazione del perché una cosa sbagliata, del perché una cosa non va fatta. Quel tipo di consapevolezza che ti mette nella condizione di capire che quello che hai fatto è uno sbaglio, che non va fatto perché qualcuno ha subito violenza. Questa cosa manca nell’online perché nessuno di quegli uomini è rintracciabile.
Quando parliamo di gruppi Telegram parliamo di persone che si iscrivono sapendo che la loro identità non può essere tracciata in nessun modo, perché in Europa questa cosa non può essere fatta. Ora le origini di Telegram sono russe e quindi ci sono tutta una serie di regolamenti secondo cui le identità rimangono nascoste. Cioè io posso andare su un gruppo qualsiasi, divulgare immagini di una minorenne o della mia ex fidanzata o di mia madre e comunque non subire alcun tipo di punizione e non subire alcun tipo di danno sulla mia persona.
Ecco, in uno schema di questo tipo in che cosa dobbiamo sperare? C’è una giustizia che ci possa salvare da questa cosa? C’è uno schema sociale che si occupa di tutele online? Non c’è. Ecco perché si parla spesso di questo fantomatico proibizionismo, “non fate se non volete”, perché è molto più facile pensare che ci siano persone – spoiler, siamo sempre noi – che debbano in qualche modo limitarsi, che creare delle dinamiche nuove di protezione, delle dinamiche di tutela.
Ecco perché io non smetterò di fare sexting perché dei miei video sono divulgati senza consenso, come immagino non smetterai tu. Dobbiamo creare una sorta di vendetta personale che passi attraverso la regolamentazione. Quando parlo di vendetta personale non è la legge del taglione. E sapere che qualcuno pagherà per quello che ha fatto, che siano un pagare rieducativo. Lo stato ti deve rieducare alla cultura del consenso. Dobbiamo spiegare perché è sbagliato condividere una foto che non è stata creata per questo scopo.
Ecco, c’è proprio un potere viscerale sui corpi, sull’identità, su dati personali e poi, da persona che c’è passata, c’è l’esigenza di una regolamentazione immediata, cioè la cosa più urgente in questo momento è creare – e ci stiamo lavorando – una regolamentazione online, cioè perché io devo essere libera di inviare la foto del culo a una persona X e sapere che quella foto sarà tracciata e quella foto so dove andrà a finire e la persona che l’ha pubblicata pagherà per quello che è successo.
L’invisibilizzazione degli abusi, delle molestie, inferte alle donne, sono quasi una prassi. Qual è il meccanismo che porta le nostre esperienze a non essere validate?
Se tu chiedi a uno stupratore se si ritiene tale, tu pensi che ti dirà di sì? Lo stesso stupratore non si riconosce come tale. Quindi come possiamo immaginare che lo stupratore percepisca quello che è avvenuto come uno stupro, se lui stesso non si reputa uno stupratore? C’è un problema di riconoscimento. C’è un problema di riconoscimento dell’abuser e della persona abusata. Cioè noi per un sacco di tempo non ci siamo considerate abusate, per un sacco di cose che abbiamo vissuto, dalla battutina, all’occhiataccia, al tipo che ti guarda in treno, per un sacco di cose non ci siamo considerate abusate e per un sacco di cose coloro che abusavano non si sono considerati abusanti.
C’è un problema di riconoscimento e questo tipo di problema nasce alla base di un immaginario collettivo che è quello della normalizzazione di questo tipo di narrazioni.
Se penso a Twilight: abbiamo normalizzato quel tipo di amore, perché lui che cosa fa? Entra dalla finestra e la guarda dormire. Quello è stalking. O ancora, La bella e la bestia, quando lui è così violento, rompe tutto attorno a lei, la rapisce, la chiude nel castello. Ci sono delle scene di violenza incredibili. Lui per poco non la picchia e quello lo abbiamo considerato amore.
Noi abbiamo normalizzato questo tipo di narrazioni perché fa parte della nostra cultura, e io adesso ti parlo di cinema ma qualsiasi cosa ce la racconta così, i giornali e la televisione.
E quando una cultura intera ti racconta l’amore in questo modo ti dice soltanto una cosa: qual è la cosa in comune che hanno tutti gli uomini che vengono raccontati in queste storie? Che alla fine sono brave persone. Ecco parlo di questo tipo di problema di riconoscimento.
Certo che poi non credo a una donna se quello che mi racconta è l’emblema perfetto delle storielle della Disney o dei film che ci propongono ogni giorno, o degli articoli di giornale; certo che non le credo perché quando una donna racconta consapevolmente la sua violenza, la chiama con i nomi giusti, dà le giuste sensazioni, dice che è sbagliato tutto dalla A alla Z, la riconosce con una lucidità incredibile. E questo quando lo descrivi, così com’è, o inizi a mettere in dubbio tutto quello che c’è attorno, ti cade un velo e inizi a vedere che tutto quello che ti circonda è sbagliato.
Oppure scegli la strada più facile e dici ok, stai dicendo una gran cazzata. Io non ti credo. Perché crederti comporterebbe mettere in dubbio tutta la mia intera esistenza, mettere in dubbio tutta la cultura che mi ha formata e non sempre è semplice. Ecco perché non crediamo alle donne.
La prossima sfida del femminismo, un obiettivo che non è stato ancora raggiunto?
Noi pensiamo che ci siano degli obiettivi che sono stati raggiunti, in realtà nemmeno uno. Per esempio l’aborto. Cioè noi pensiamo veramente che quel diritto sia nostro? Tu oggi ti sentiresti libera di andare ad abortire tranquillamente in un posto a caso dietro casa tua perché becchi sicuramente un medico che te lo consenta? Non ci sono dei diritti presi, non abbiamo nessun diritto preso, tutti i diritti che noi pensiamo di aver preso non lo sono.
Ogni volta che si parla di mantenere un diritto è sempre il momento zero, è sempre il momento iniziale e si deve sempre ripartire da capo. È l’unico modo per mantenere quello che abbiamo pensato di aver preso è creare una cultura generale di base. Una cultura di base che sia una educazione sessuale, affettiva, al linguaggio, non ne usciamo altrimenti. Cioè non c’è un modo per mantenere diritti presi se non facendo in modo che tutte le persone nuove che verranno al mondo considerino quei diritti inalienabili.
Qual è il mondo digitale che ti auguri di poter abitare?
Il mondo digitale che io mi auguro di abitare è veramente molto lontano, un mondo digitale che intanto ha una regolamentazione sui corpi, significa che io sono libera di pubblicare la foto dei miei capezzoli, ma questa foto non può essere in alcun modo di intralcio per la mia carriera lavorativa, per la mia carriera di studio. Le piattaforme online che voglio abitare sono piattaforme che collaborano con le piattaforme non online, quindi con il mondo e con le strade.
Se io posto una foto dei miei capezzoli e domani un datore di lavoro non mi assume, per quella foto, allora abbiamo un problema sistemico, quindi forse la piattaforma che mi immagino è una piattaforma che si modella e si relaziona in base al reale e viceversa. Io vorrei abitare una piattaforma online e offline, chiamiamola così, dove sono libera di poter postare la foto di miei capezzoli se desidero, senza farmi pagare, se lo desidero facendomi pagare, e che quella foto non sia in nessun modo problematica per la mia carriera lavorativa, per la mia carriera di studio, per me che voglio o non voglio diventare madre, per quella che è la mia reputazione in generale, cioè la mia persona non perde di valore per una foto delle tette.
Questo è quello che mi auguro istantaneamente. Poi mi auguro che i social prima di tutto possano garantirci l’esistenza, una regolamentazione che non sia privata ma pubblica, l’online non è una piazza, è una casa privata, quindi da quella casa dobbiamo uscire fuori, dobbiamo creare una piattaforma social che sia pubblica, un contesto social che sia pubblico.
E come tutti i contesti pubblici c’è bisogno di regolamentazione, regolamentazione lavorativa, regolamentazione sui corpi, però questo non può avvenire se non si modifica la realtà in cui abitiamo.
Ultimo aggiornamento 2024-10-06 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API
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