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Il telefono a disco. La macchina del tempo

Cronistoria semiseria di un oggetto di culto

Due giovedì fa, inaugurando questa rubrica, vi avevamo domandato quale rapporto intercorresse tra le musicassette e le matite.

Con simile sadismo, potremmo iniziare la chiacchierata odierna chiedendovi cosa legasse tra loro (fuori di metafora) il telefono a disco e il lucchetto.

Lo scoprirete nel corso dell’articolo. Che appunto sarà dedicato a un immancabile oggetto nelle famiglie degli italiani sino a – diciamo – i primi anni Novanta del secolo scorso. Anche se molti di noi, particolarmente scrupolosi nel preservare gli oggetti dall’usura (o perché in famiglia abitava un anziano per nulla incline a modificare le proprie abitudini), ne hanno fatto uso anche ben oltre.

Il mitico telefono a disco, dunque. Dove quel disco veniva sovente chiamato con l’affettuoso sinonimo rotella.

lucchetto

Il telefono a disco

Come abbiamo detto nel primo articolo della rubrica, vogliamo qui seguire non tanto la strada della filologia, quanto quella più dissestata del ricordo e delle emozioni.

Quindi non analizzeremo tecnicamente il telefono a disco. Che, vi basti sapere, nel diffusissimo modello Siemens S62 (disponibile nelle due versioni da tavolo e da parete) nacque appunto nel 1962.

Ma cos’era, davvero, il telefono a disco? Era un aggeggio dalle ridenti tonalità grigie (soprannominato non a caso bigrigio) su cui, in previsione del rimbambimento dei familiari, in una targhetta frontale si poteva segnare il proprio numero telefonico fisso.

Le dita adulte entravano a malapena nelle dieci fessure, ciascuna corrispondente un numero. La compilazione delle cifre del destinatario, che durava minuti, era un’operazione che – nella penombra dei salotti – appariva decisiva come una riunione di carboneria.

Ma com’era bello, una volta compiuto quel rituale, poter comunicare!

I mille ostacoli del telefono a disco

Poter comunicare sì, ma come?

Nei ricordi di chi scrive, bambino negli anni Ottanta del Novecento, ogni telefonata era un’avventura di cui si ignorava l’esito. Spesso la linea era disturbatissima, e non era infrequente captare (a volte in modo anche piuttosto nitido) la conversazione di qualcuno che abitava nei paraggi.

Un giorno è successo che, mentre noi potevamo sentire con chiarezza quanto stavano dicendo due sconosciuti, loro potevano fare lo stesso con noi. E a un certo punto ci siamo messi amabilmente a interloquire in quattro. Sospetto che siamo stati noi, in modo preterintenzionale, a inventare le chiamate di gruppo.

Un altro ricordo agghiacciante è legato al Duplex. Si trattava di una formula di abbonamento telefonico a tariffa ridotta, che legava due utenti di uno stesso caseggiato. Se uno stava telefonando, la linea dell’altro risultava occupata. L’estensore di questo articolo ha trascorso un paio di anni durissimi, nella preadolescenza: fidanzato con una ragazzina di un’altra città, si rifugiava in casa della nonna (che abitava nel suo stesso palazzo) per telefonare. Ma era vittima della compulsività del condomino con cui la nonna aveva il Duplex, il quale passava pressoché l’intera vita appiccicato alla cornetta.

Il lucchetto

E veniamo al mitico lucchetto, e con lui alla risposta alla nostra domanda iniziale.

Come alcuni di voi ricorderanno, i genitori di figli troppo inclini a telefonare collocavano un piccolo lucchetto in uno dei fori del disco, per inibire la possibilità di comporre il numero.

Chi vi scrive, peraltro, ha scoperto solo in queste ore l’esistenza di lucchetti ad hoc per i telefoni a disco (ma con quale cinismo si possono produrre strumenti del genere?).

I suoi genitori, in effetti, si erano sempre limitati all’utilizzo di piccoli lucchetti comuni.

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Tra nostalgia e retorica

E ora viene la parte difficile. Perché, ogni volta che si ritorna con la memoria al passato, si tende irresistibilmente a eleggerlo a età dell’oro. E a sopravvalutare tutto ciò che appartiene a quell’epoca.

In un paio di decenni la comunicazione è cambiata in modo repentino. Oggi, nel tempo dei messaggi vocali, anche solo telefonare dallo smartphone sembra un’attività démodé.

I costi, poi, anche solo se rapportati a un passato non troppo remoto (quello delle ricariche telefoniche per apparecchi mobili), sono crollati.

Allora viene da pensare che un’azione come la telefonata, che tempo fa richiedeva un diverso impegno – fisico ed economico – era interpretata diversamente, e non ci si metteva in comunicazione con l’amico o il partner per renderlo edotto di qualunque sciocchezza si fosse appena sentita.

Certo, nessuno rimpiange il design da DDR del telefono a disco. Inoltre, la comodità di poter chiamare o mandare messaggi in mobilità è impagabile.

Ma siamo proprio sicuri che, nei tempi in cui comunicare per telefono era un’operazione meno immediata di oggi, la qualità media delle informazioni veicolate non fosse migliore?

È retorica dire che oggi molti di noi faticano a distinguere l’essenziale dal superfluo, perché il costante collegamento col mondo permette di dire tutto e subito?

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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