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Il filo nascosto: Morte a Venezia di Luchino Visconti

Per il nuovo appuntamento con Il filo nascosto, torniamo a Venezia, cornice di un capolavoro di Luchino Visconti.

«La castità è un dono della purezza, non il penoso risultato della vecchiaia, e tu sei vecchio, Gustav. E non c’è al mondo impurità così impura come la vecchiaia». Questa lapidaria sentenza, pronunciata da una voce fuori campo nei confronti del protagonista di Morte a Venezia di Luchino Visconti, non è solo una lucida e impietosa descrizione della terza età, ma rappresenta anche il cuore di una vera e propria pietra miliare del cinema italiano. Basandosi su La morte a Venezia di Thomas Mann, Visconti firma nel 1971 una delle vette della sua straordinaria carriera, dando vita a una struggente rappresentazione della decadenza e della vecchiaia, capitolo centrale della sua cosiddetta trilogia tedesca, aperta da La caduta degli dei e conclusa due anni dopo con Ludwig.

Un racconto con chiari echi autobiografici dello stesso regista, che inserisce all’interno di un racconto incredibilmente denso di idee e suggestioni tematiche a lui care, come l’inesorabile declino della borghesia e della nobiltà (suo padre era il Duca Giuseppe Visconti di Modrone) e l’amore omosessuale. Proprio quest’ultimo tema, che Visconti e il suo co-sceneggiatore Nicola Badalucco hanno reso più esplicito rispetto al romanzo di Mann, porta con sé chiari rimandi alla vita del regista (celebri le sue storie d’amore con Horst P. Horst, Franco Zeffirelli e Helmut Berger) ed è incarnato dall’efebica figura di Tadzio, oggetto dell’impossibile amore del protagonista Gustav von Aschenbach. A interpretare questo indelebile personaggio è l’attore svedese Björn Andrésen, che proprio con questo film comincerà una lunga spirale negativa a livello personale e lavorativo, narrata con dovizia di particolari nel documentario Il ragazzo più bello del mondo.

Morte a Venezia: decadenza e ossessione nello struggente capolavoro di Luchino Visconti

Morte a Venezia

Nello scorso appuntamento con la nostra rubrica cinematografica Il filo nascosto, avevamo parlato di A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg, capace di intercettare l’anima gotica della suggestiva città lagunare in un thriller psicologico carico di tensione e mistero. Questa settimana rimaniamo a Venezia, che funge in questo caso da rappresentazione architettonica e urbana della decadenza fisica, artistica e sociale del protagonista, interpretato da un monumentale Dirk Bogarde. Siamo nel 1911, quando il compositore Gustav von Aschenbach si reca nella città lagunare, e più precisamente nel prestigioso Hotel des Bains del Lido, per un periodo di riposo a seguito di dolorosi traumi fisici ed emotivi.

Una volta giunto sul posto, Gustav entra in una fase di profondo tormento interiore, causato dal ricordo della figlioletta morta, dal suo lento ma inarrestabile deperimento fisico e dal contemporaneo declino dell’ambiente artistico e borghese in cui è cresciuto, per il quale fatica a trovare ancora interesse. La crisi del protagonista si acuisce quando incontra casualmente Tadzio, giovanissimo villeggiante dalla figura angelica ed eterea. Da un lato, Gustav è portato a contrastare il nascente sentimento nei suoi confronti, per la colossale differenza di età fra i due e per la rigida morale dell’epoca, ma al tempo stesso desidera viverlo in tutte le sue sfaccettature, rivolgendo la sua attenzione e la sua immaginazione a Tadzio.

Anche se in città cominciano a serpeggiare voci sempre più insistenti di un’epidemia di colera in corso, Gustav rimane al Lido in adorazione del suo amore platonico, accogliendo con malcelata soddisfazione persino la notizia della sua impossibilità di immediato ritorno in patria a causa dello smarrimento della sua valigia. Morte e bellezza, gioventù e decadimento, arte e disfacimento si intrecciano fino al commovente epilogo, impossibile da dimenticare.

Morte a Venezia: alla ricerca del tempo perduto

Morte a Venezia

«Io mi ricordo che c’era una clessidra come questa in casa di mio padre. La sabbia scorre attraverso un forellino così sottile che all’inizio sembra che il livello della parte superiore non debba cambiare mai. Cominciamo ad accorgerci che la sabbia scorre via solo verso la fine. Ma prima di allora ci vuole tanto, che non vale la pena di pensarci. Poi all’ultimo momento, quando non c’è più tempo, ci si accorge che è troppo tardi, ci si accorge che è troppo tardi per pensarci».

La ricerca del tempo perduto di stampo proustiano di Gustav è racchiusa tutta in questo ricordo, e nel dolce e malinconico contrasto fra la presa di coscienza di una vita che sta per finire e l’ultimo sussulto di passione, rivolto sì verso l’irraggiungibile Tadzio, ma al tempo stesso anche verso l’ideale stesso di bellezza giovanile, talmente florida e abbagliante da far credere che la sua sfioritura sia impossibile. In una Venezia immutabile attraverso il tempo e le stagioni, veniamo trascinati dallo sguardo di Gustav, dalla sua percezione distorta della realtà, dalla sua presa di distanza dal suo passato e dal suo disperato quanto dignitoso attaccamento alla vita.

L’eterna dicotomia fra apollineo e dionisiaco teorizzata da Nietzsche trova nuova linfa nel capitolo finale della vita di questo compositore tedesco, sospesa fra l’arte figurativa rappresentata da Tadzio e quella non figurativa portata avanti dalla sua musica, fra la razionalità che ha accompagnato il suo percorso e il desiderio di abbandonarsi al caos.

La morte di una nazione

In tutto questo, è evidente il parallelo fra il tedesco Gustav e la sua nazione, al centro della trilogia viscontiana di cui fa parte Morte a Venezia. Una nazione che, insieme alla sua nobiltà, guarda con fiera superiorità a tutto ciò che non fa parte del suo impero, ma non riesce a cogliere il disfacimento del suo sistema di valori, che porterà all’umiliazione della Prima guerra mondiale e successivamente al tragico rigurgito del nazismo. La parabola di un popolo e di un impero intercettata perfettamente da Visconti in un sicuro percorso a ritroso, che dalla fine degli anni ’60 si muove prima verso la nascita del Terzo Reich con La caduta degli dei, poi verso gli anni ’10 con Morte a Venezia e infine alla seconda metà dell’800 con Ludwig, altra figura devota all’arte e alla bellezza.

Nel suo adattamento cinematografico dell’opera di Mann, Visconti traduce in immagini la parabola dell’aristocrazia europea, centrando diversi momenti altamente simbolici. Fra questi, spicca l’arrivo a Venezia di Gustav, schernito da un signore truccato che (a differenza sua) appare pienamente consapevole della sua personalità, insieme alla scena del barbiere, in cui il protagonista si arrende alla vanità, facendosi truccare viso e capelli nel vano tentativo di apparire ancora giovane e di fare colpo sulla sua ossessione (non a caso titolo della prima opera di Visconti). Un camuffamento che cerca di celare il sentore di morte, acuito da una Venezia ormai visibilmente afflitta dall’epidemia, col disinfettante gettato in ogni vicolo e i fuochi che fanno capolino nelle strade e nelle piazze semideserte.

Dalla carta allo schermo

Rispetto al romanzo, Visconti rende ancora più esplicito il collegamento fra il protagonista e il musicista Gustav Mahler, ammesso dallo stesso Mann. Il personaggio si trasforma da letterato in compositore, e i flashback sottolineano i rimandi alla biografia del musicista, come la perdita della piccola figlia. A fare da contraltare alla struggente esecuzione al pianoforte dell’armoniosa Per Elisa, ci sono proprio movimenti gravi e funerei della Quinta Sinfonia di Mahler, perfetto accompagnamento per un’opera che limita per buona parte della sua durata i dialoghi, salvo poi ricorrere ad accesi scontri verbali nelle discussioni fra Gustav e l’amico Alfred, per lui una sorta di acido e schietto grillo parlante.

Il silenzio è ciò che contraddistingue anche lo stesso Tadzio, che per l’intera durata del racconto si esprime quasi esclusivamente attraverso il suo magnetico sguardo, e le due più importanti figure femminili di Morte a Venezia, impersonate da due formidabili attrici come Silvana Mangano e Marisa Berenson, quest’ultima al suo esordio sul grande schermo prima del successo in Barry Lyndon di Stanley Kubrick. A parlare forte e chiaro è però il volto di Dirk Bogarde, alle prese con una prova di invidiabile controllo, fra le migliori della sua lunga e pregevole carriera. È lui a trasmettere con sfumature facciali quasi impercettibili i profondi mutamenti interiori di Gustav, ed è grazie alla sua eccezionale espressività che riusciamo a sentire e a vivere l’amore mai dichiarato del protagonista nei confronti del suo Tadzio.

Lo struggente epilogo di Morte a Venezia

Morte a Venezia

Il percorso di Gustav si chiude in un finale da antologia, tenero e tragico allo stesso tempo. Ormai stanco e sfibrato, abbandonato su una sdraio in spiaggia, il protagonista vede (o pensa di vedere) per l’ultima volta il suo amato, impegnato con un amico in un gioco balneare dal chiaro sottotesto omoerotico. Poco prima di morire ed essere portato via come un sacco della spazzatura (in una scena surreale), Gustav assiste così per l’ultima volta al trionfo della giovinezza. Lo lasciamo vestito di tutto punto ma comunque ridicolo, perché in questo momento lirico e disperato il suo volto viene comicamente attraversato da una goccia nera di tintura per capelli, che scopre il suo posticcio trucco. Una delle più dolorose e ficcanti rappresentazioni della vecchiaia e di una società incapace di comprendere la sua fine, funerea chiusura di un’opera di malinconica e decadente bellezza.

Morte a Venezia

«Tu non devi sorridere così. Non devi mai sorridere così a nessuno. Io ti amo».

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Morte A Venezia
  • The disk has Italian audio and subtitles.
  • Bogarde/Burns (Attore)
  • Audience Rating: NR (Non valutato)

Il filo nascosto nasce con l’intento di ripercorrere la storia del cinema nel modo più libero e semplice possibile. Ogni settimana un film diverso di qualsiasi genere, epoca e nazionalità, collegato al precedente da un dettaglio. Tematiche, anno di distribuzione, regista, protagonista, ambientazione: l’unico limite è la fantasia, il faro che ci guida è l’amore per il cinema. I film si parlano, noi ascoltiamo i loro dialoghi.

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Marco Paiano

Tutto quello che ho imparato nella vita l'ho imparato da Star Wars, Monkey Island e Il grande Lebowski. Lo metto in pratica su Tech Princess.

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