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Track & Field: la comodità delle Olimpiadi al bar. La macchina del tempo

Un arcade che ha fatto epoca (e distrutto falangi)

I bar, sino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, erano luoghi di relax.

A parte gli avventori che vi si soffermavano giusto il tempo di un caffè, gli abitudinari potevano giocare a carte, leggere il quotidiano, scambiare due considerazioni meteorologiche con il barista. Oltre, naturalmente, ad avvinazzarsi in solitudine o in compagnia.

Sino a quando non hanno fatto irruzione dei curiosi e voluminosi strumenti, presi d’assalto da torme di giovani chiassosissimi. Uno di loro, a turno, fissava con sguardo spiritato lo schermo, muovendo un dito a velocità supersonica. E gli altri, attorno, si dividevano tra chi faceva il tifo e chi, più o meno esplicitamente, non vedeva l’ora che il giocatore avesse la peggio.

Ebbene sì: nella quiete di circoli e mescite erano arrivati i videogiochi arcade. Cabine in cui si inseriva un gettone, e che gli over trenta guardavano con un misto di sospetto e indignazione.

TrackField

Prima di Track & Field

In realtà i videogiochi arcade sono apparsi già alla fine degli anni Settanta del Novecento.

Ma i primi titoli, come Tetris, Space Invaders e Asteroids, richiedevano un ritmo di gioco più compassato, che non rischiava di compromettere la tenuta nervosa dei clienti non avvezzi al gaming.

Anno discrimine in questo senso è il 1983, quando fa il suo debutto in società Track & Field.

Track & Field, ovvero le Olimpiadi nel bar sotto casa

Nel 1983, appunto, Track & Field occupa imperiosamente tutti i bar, e da lì in poi nulla sarebbe stato più come prima.

Qualche riga per spiegare cosa fosse. Si tratta di un gioco prodotto dall’azienda nipponica Konami, che in Giappone era noto col nome di Hyper Olympic. Ed è così che, in un nostro articolo di due anni fa, ve l’abbiamo presentato.

Nel mercato occidentale si chiamerà invece Track & Field, l’equivalente inglese di atletica leggera.

Il gioco consisteva appunto in una versione ridotta delle Olimpiadi, che contemplava sei discipline: i 100 metri, i 110 a ostacoli, il lancio del giavellotto, il salto in lungo, il salto in alto e il lancio del martello.

Le versioni successive

Il successo di Track & Field è stato immediato e folgorante.

Al punto che l’anno successivo (e spesso le due edizioni si sovrappongono erroneamente) sarà la volta di Hyper Sports, noto in Giappone come Hyper Olympic 84.

Da allora in poi si sarebbero susseguite svariate versioni, sino addirittura al 2010, e il gioco delle Olimpiadi dal bar passerà presto alle console domestiche. Già nel 1984, infatti, Track & Field sarà reso disponibile per Apple, Atari e Commodore 64.

Ma cosa importano i ragguagli cronologici, quando stiamo parlando di un’icona generazionale?

Il mito di Track & Field

Se vi foste trovate a giocare a Track & Field e aveste trovato atleti tutti identici (e tutti con i baffi), non avreste dovuto preoccuparvi: non era colpa dei troppi Gin fizz bevuti (giusto per citare un cocktail in voga allora).

È che, una volta lanciato su scala globale, il gioco ha avuto un tale successo da essere stato presto clonato. E una delle più celebri versioni taroccate mostrava appunto solo atleti baffuti.

Ma perché questo successo? Beh: perché Track & Field introduceva un modo nuovo, fisico ma anche sociale, di giocare ai videogiochi da bar.

Poveri arcade

La novità fisica era data dal fatto che, per la prima volta o quasi, i buoni giocatori si distinguevano per la capacità di pigiare i tasti (la versione originale non prevedeva joystick) a velocità pressoché sovrumana: più si era versati in questa attitudine, più si ottenevano punteggi alti.

Ma tra i risultati ottenuti c’erano anche quelli… collaterali: spesso, concorrenti troppo focosi distruggevano il gioco, aumentando così l’ostilità di gestori del locale e avventori rilassati.

Gioco e tifo

Ecco, gli avventori rilassati.

Tutto il contrario di chi giocava a Track & Field, o anche solo attorniava il giocatore di turno.

Perché? Perché l’ipercinetismo richiesto dalle manovre di gioco induceva una sovreccitazione non solo del fruitore, ma anche di chi ne seguiva le gesta. C’erano, come abbiamo già detto, gli amici del giocatore. Ma nascosti tra loro c’erano anche gli antagonisti, già con il gettone pronto in mano, che guardavano con un certo terrore l’incrementarsi dei punti dell’avversario.

Il tutto in un tifo da stadio.

C’era un solo momento in cui il ritmo (e con lui il volume del suono) calava drasticamente. Ovvero al termine del gioco, quando i più abili – che finivano nella classifica dei migliori – potevano immortalare la propria prestazione scrivendo accanto al punteggio il proprio nome (o nomignolo): un’operazione che richiedeva secoli. E i giocatori di scopone scientifico osservavano compiaciuti.

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Claudio Bagnasco

Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975 e dal 2013 vive a Tortolì. Ha scritto e pubblicato diversi libri, è co-fondatore e co-curatore del blog letterario Squadernauti. Prepara e corre maratone con grande passione e incrollabile lentezza. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com

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