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Return to Monkey Island: recensione del nuovo capitolo della saga piratesca

Return to Monkey Island è disponibile per PC, Mac e Nintendo Switch.

Return to Monkey Island, la nostra recensione.

«Salve! Mi chiamo Guybrush Threepwood, e voglio diventare un pirata!». Cominciava così nel 1990 The Secret of Monkey Island, gioco della LucasArts con cui Ron Gilbert, coadiuvato da Tim Schafer e Dave Grossman, ha definitivamente sdoganato le avventure grafiche nell’immaginario collettivo, centrando un irresistibile mix di umorismo demenziale, atmosfere piratesche e cervellotici enigmi. Una battuta ben presto superata da un ben più perentorio “Mi chiamo Guybrush Threepwood, e sono un temibile pirata”, vero e proprio tormentone del primo capitolo e del fortunato sequel Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge, anch’esso portato avanti da Ron Gilbert prima del suo abbandono del franchise e dei successivi ondivaghi episodi.

A ben vedere, in queste due battute c’è tutto il senso di una saga che da più di 30 anni ossessiona letteralmente i videogiocatori di tutto il mondo, e che oggi può contare sul nuovo ormai insperato capitolo Return to Monkey Island, sviluppato proprio da Ron Gilbert con la sua Terrible Toybox e disponibile su PC, Mac e Nintendo Switch. Da una parte, il “voglio diventare un pirata” dell’antieroe per eccellenza Guybrush Threepwood, eterno bambino e strenuo sostenitore del più sfrenato nonsense, ci connette con il fanciullo che è in tutti noi, che ha portato Gilbert a immaginare un esilarante universo piratesco a partire dall’attrazione di Disneyland Pirates of the Caribbean (la stessa che ha ispirato la serie cinematografica con Johnny Depp).

Dall’altra, quel “sono un temibile pirata”, detto da chi temibile non è affatto e che pirata lo è diventato dopo una serie di duelli a insulti con una serie di brutti ceffi di Mêlée Island, ribadisce il potere del racconto e della narrazione, che a volte può essere persino più forte della realtà.

Return to Monkey Island, la recensione: il miglior sequel possibile

Return to Monkey Island recensione 1

È proprio sulla dimensione bambinesca dell’avventura e sul potere salvifico delle storie che si basa Return to Monkey Island. Lo fa ripartendo esattamente da dove Ron Gilbert si era fermato, ovvero da quel luna park all’interno del quale si chiudeva Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge, lasciandoci la suggestione che le avventure di Guybrush e della sua nemesi LeChuck esistessero solo nella fervida immaginazione di due piccoli e indisciplinati monelli. Un epilogo aperto per una pietra miliare dei videogiochi (ve ne abbiamo parlato approfonditamente qui), da cui non era semplice proseguire. Il terzo capitolo The Curse of Monkey Island ci aveva provato con una difficoltosa opera di equilibrismo narrativo; il nome tutelare della saga Ron Gilbert lo fa in maniera ben più coerente, anche se per certi versi spiazzante.

Come in una puntata di How I Met Your Mother, ritroviamo Guybrush intento a narrare a una platea non del tutto convinta una sua inedita avventura, quella che l’ha portato finalmente a scoprire il famigerato Segreto di Monkey Island. Un mistero su cui ci siamo scervellati per decenni, chiodo fisso del protagonista e di conseguenza del perfido LeChuck, più agguerrito che mai. Ritorniamo quindi sull’indimenticabile Mêlée Island, uguale e allo stesso tempo radicalmente diversa da quella che avevamo lasciato più di 30 anni fa.

Le facce sono le stesse: Wally il cartografo, sempre alle prese con nuove mappe; Stan S. Stanman, che prosegue il suo controverso rapporto con il marketing e con la legge; Voodoo Lady (di cui finalmente scopriamo anche il nome) e i suoi esageratamente vaghi aforismi; ma soprattutto Elaine Marley, anima gemella di Guybrush che con fare materno è ormai rassegnata alle sue ossessioni, nonché pronta a mettere una pezza agli inevitabili disastri da lui causati.

Il sistema di gioco

Return to Monkey Island recensione 2

A cambiare è invece il contesto intorno a Guybrush, a partire da quello tecnico. Dopo il riuscito esperimento di Thimbleweed Park, Ron Gilbert accantona sia la sua caratteristica pixel art sia l’interfaccia punta e clicca comune a gran parte dei giochi LucasArts, puntando su uno stile visivo spigoloso, dalle sfumature quasi cubiste, e su un sistema di gioco più minimalista e allo stesso tempo raffinato, composto essenzialmente da due soli tasti (il sinistro e il destro del mouse) e da azioni variabili in base alla natura e allo scopo degli oggetti con cui interagisce il protagonista. Una scelta che ha fatalmente portato a durissime critiche da parte dell’ala più conservatrice e intransigente dei fan, non predisposta al cambiamento.

Dopo una comprensibile iniziale sensazione di spaesamento, emerge chiaramente la bontà della scelta di Ron Gilbert: la grafica di Return to Monkey Island dà nuova linfa e vigore alle location che ben conosciamo, mentre il sistema di gioco è decisamente più al passo coi tempi, nonché funzionale alla fruizione della storia. Da sottolineare in questo senso anche due feature essenziali ma non scontate: la possibilità di fare correre Guybrush con un semplice doppio clic e le svariate scorciatoie che abbreviano i viaggi del protagonista, utili soprattutto quando si tratta di risolvere enigmi che coinvolgono oggetti sparsi su varie isole.

A cambiare è però anche il mondo piratesco, attraversato da una vera e propria rivoluzione. I tre capi pirati sono stati deposti (li ritroveremo coinvolti in una nuova sorprendente attività), e al loro posto c’è un nuovo clan a trazione femminile intenzionato a rompere col passato.

La recensione di Return to Monkey Island: Guybrush, siamo a casa

L’ironia è la sola arma rimasta a Guybrush, che vaga per l’arcipelago cercando invano riconoscimento per le sue gesta e ritrovandosi invariabilmente sbeffeggiato da tutti, con positivi riflessi sulle svariate gag allestite da Gilbert. Come se tutto ciò non bastasse, le isole devono fronteggiare un’ostica epidemia di scorbuto: per arginarla basterebbe un po’ di lime, ma è fondamentale rimuovere dalle attività di divulgazione tutte le evidenze mediche, per non insospettire gli svariati detrattori della scienza. In pratica, la parte più demenziale della nostra realtà che si incastona perfettamente nel demenziale universo di Monkey Island.

Vecchie e nuove location diventano teatro di un’impressionante moltitudine di enigmi, tutti finalizzati alla scoperta da parte di Guybrush del fantomatico Segreto di Monkey Island. Non c’è però da preoccuparsi in proposito: Return to Monkey Island può infatti contare su due livelli di difficoltà e soprattutto sulla lista degli obiettivi e sul libro degli aiuti, che permettono rispettivamente di avere sempre sott’occhio il fine della missione attuale e di ricevere utili suggerimenti, con livello crescente di specificità. Rispetto al passato, è evidente la minore difficoltà degli enigmi soprattutto nella prima parte, che funge da vero e proprio tutorial del gioco per neofiti e non. Con il susseguirsi delle parti di Return to Monkey Island (5 in totale, per circa dieci ore di gioco complessive), la difficoltà aumenta leggermente, ma per i videogiocatori il libro degli aiuti è soprattutto una non indispensabile tentazione ad accelerare il proprio progresso nell’avventura.

Il manifesto artistico e narrativo di Ron Gilbert

Return to Monkey Island recensione 4

Uno dei maggiori timori da parte dei fan a proposito di Return to Monkey Island era rivolto al caratteristico umorismo della serie, potenzialmente affievolito dai decenni trascorsi. Anche in questo caso, Ron Gilbert ci sorprende in positivo, mantenendo inalterato lo spirito goliardico dei precedenti capitoli. Fra giochi di parole, sagaci commenti di Guybrush, ritorni di vecchie conoscenze, rimandi a oggetti indelebilmente impressi nella mitologia della serie (sì, anche il pollo di gomma con la carrucola in mezzo) si ha la piacevole sensazione di trovarsi a casa, in un universo in mutamento ma costantemente fedele a se stesso.

L’atmosfera spensierata e a tratti delirante di Return to Monkey Island, esaltata da una colonna sonora in perfetto equilibrio fra passato e modernità, non impedisce però a Ron Gilbert di fare calare sul racconto un velo di tangibile malinconia, che diventa spunto di riflessione sullo scorrere del tempo e sul concetto stesso di narrazione. Man mano che si avvicina la spiegazione del Segreto di Monkey Island (con un finale che farà indubbiamente emozionare e discutere i fan), ci rendiamo conto che, proprio come la ricerca del Santo Graal per Indiana e Henry Jones, questa improbabile missione non è altro che un modo per Guybrush di sentirsi ancora vivo e di volare per l’ennesima volta sulle ali della fantasia. In mezzo a battute fulminanti e a siparietti esilaranti, assistiamo infatti più volte alla delusione del protagonista dopo la scoperta della realtà, solitamente meno entusiasmante dell’immaginazione.

Una sorta di manifesto artistico e narrativo di Ron Gilbert, che non manca di sottolineare il concetto con numerose riflessioni su come si racconta una storia e sul perché lo si fa, portando di fatto la sua personale visione del racconto in mezzo alle gesta di questo bizzarro e spassoso gruppo di personaggi.

La recensione di Return to Monkey Island: è veramente la fine?

Return to Monkey Island è il miglior sequel possibile (ma c’è possibilità di migliorare: il finale lascia più di una porta aperta per ulteriori seguiti), perché non si limita a regalarci un nuovo entusiasmante viaggio in un universo amato da diverse generazioni di videogiocatori, ma lo fa mettendoci di fronte al fatto che il mondo cambia, e le storie a cui siamo affezionati cambiano con esso. Ci ritroviamo così a osservare l’ingenuità mista a furbizia di Guybrush con lo stesso bonario sguardo di Elaine, consapevole del fatto che l’uomo che ama è nel bene e nel male frutto di quella visione fanciullesca e impacciata del mondo.

Return to Monkey Island è qui per ricordarci che la vera gioia del viaggio e della ricerca non sta nella rivelazione finale, ma nel cammino che intraprendiamo per raggiungerla o, nel caso di Guybrush, nelle prove che supera, nelle pozioni che prepara, nelle mappe che assembla e nelle astuzie che mette in pratica per continuare la sua avventura. La vita non è un luna park, ma vivere storie avvincenti e appaganti come Return to Monkey Island ci rende nuovamente bambini all’interno di un parco di divertimenti: tristi perché le luci delle attrazioni e dei chioschi prima o poi devono spegnersi, ma allo stesso felici di aver vissuto una giornata all’insegna del gioco, del divertimento e del sogno a occhi aperti.

PRO

  • Lo spirito è quello dei primi due capitoli
  • La grafica e il sistema di gioco sono funzionali al racconto
  • Graditi ritorni e ottimi nuovi personaggi

CONTRO

  • Enigmi più facili rispetto al passato
  • Scarsa continuità con i capitoli non firmati da Ron Gilbert

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Marco Paiano

Tutto quello che ho imparato nella vita l'ho imparato da Star Wars, Monkey Island e Il grande Lebowski. Lo metto in pratica su Tech Princess.

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