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La nuova piattaforma resale di Shein è davvero sostenibile?

Una riflessione su Shein Exchange, circolarità e fast fashion

Pochi giorni fa il colosso dell’ultra-fast fashion Shein ha lanciato negli Stati Uniti la sua prima piattaforma di resale, con l’obiettivo di espanderla presto in altri mercati globali. Sviluppata in collaborazione con Treet, l’App Shein Exchange integra gli acquisti precedenti dei clienti per semplificarne la rivendita. Un progetto che punta alla sostenibilità, ma che ha già ricevuto numerose critiche. Secondo gli esperti del settore, infatti, la circolarità non basterà per risolvere i danni creati da un modello di business basato sullo sfruttamento e sulla sovrapproduzione. La domanda che ci siamo posti, allora, è questa: la piattaforma di resale di Shein è davvero sostenibile?

Shein Exchange: la promessa di sotenibilità è reale?

Shein si lancia nel resale, uscendo dai confini dell’ultra-fast fashion. E lo fa con un obiettivo dichiarato. Il colosso tecnologico punta a riportare nel suo ecosistema i capi Shein che gli utenti mettono in vendita sulle piattaforme second hand di terze parti. In un annuncio, infatti, la società ha dichiarato che non trarrà alcun profitto dalla piattaforma, ma che “riconosce che la rivendita minaccia di cannibalizzare la vendita di nuovi articoli“. Pertanto, “vuole offrire una destinazione ai clienti Shein per diventare partecipanti attivi alla circolarità e trovare nuovi armadi per i loro prodotti preferiti“. E sensibilizzare il suo pubblico sui “vantaggi ambientali dell’acquisto di vestiti di seconda mano“. Una promessa di sostenibilità che non ha convinto affatto gli esperti del settore, che vedono la rivendita come una soluzione per ridurre i volumi di produzione totale del colosso cinese.

Shein Exchange

Non a caso, lo stesso giorno del lancio di Shein Exchange è stato pubblicato un documentario sulle condizioni di lavoro negli stabilimenti della società. “Untold: Inside the Shein Machine” – disponibile sulla rete televisiva britannica Channel 4 – rivela che i dipendenti degli stabilimenti di Guangzhou non hanno orari di lavoro definiti, arrivando a lavorare fino a 18 ore al giorno, con un solo giorno libero al mese. Da quanto riportato, la retribuzione è di 3 penny – pari a 0.034 € – a capo, con un’eventuale detrazione per gli errori commessi. E la richiesta è quella di produrre 500 capi al giorno. Un’indagine attenta e chiara, che fa seguito ad un rapporto del Novembre 2021 in cui si “denunciavano” le condizioni dei lavoratori dei fornitori di Shein. Eppure, negli ultimi mesi il colosso tecnologico ha condiviso un rapporto di sostenibilità in cui ha esaltato la sua filiera di produzione.

Iman Amrani, il giornalista che compare nel documentario, ha dichiarato a Vogue Business: “Il punto scioccante è che in realtà non sembra esserci un modo in cui questo modello di business possa funzionare [in modo sostenibile]“. Eppure Shein sembra più che convinta di rispettare i diritti dei lavoratori. “Gli standard di approvvigionamento responsabile di Shein vincolano i nostri fornitori di produzione a un codice di condotta basato sulle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro e sulle leggi e normative locali che regolano le pratiche e le condizioni di lavoro – risponde la società -. Collaboriamo con le principali agenzie indipendenti come TUV, SGS, OpenView e Intertek per condurre audit senza preavviso presso le strutture dei fornitori. Abbiamo richiesto informazioni specifiche a Channel 4 in modo da poter indagare“.

documentario Shein

Nonostante le dichiarazioni del colosso cinese, Shein Exchange continua a lasciare perplessi gli esperti di sostenibilità. Le piattaforme di rivendita, infatti, non saranno mai sufficienti per sanare lo sfruttamento e la sovrapproduzione insiti nel modello di business del fast fashion. Soprattutto considerando che i capi Shein sono tutt’altro che adatti per un modello circolare basato sulla longevità. I prodotti dei marchi fast fashion, come potete immaginare, non sono realizzati per durare nel tempo – figuriamoci sopravvivere ad una “seconda mano” -. Al di là di questo, c’è da considerare che non sempre le piattaforme di rivendita frenano le abitudini di consumo eccessivo. Secondo Amrani, addirittura, il resale non fa altro che incoraggiare “ancora le persone a continuare a consumare“.

Un recente sondaggio tra i clienti Shein ha rilevato che quasi la metà ha venduto i propri articoli su piattaforme di resale di terze parti, e più della metà ha acquistato un articolo Shein usato. Non c’è da stupirsi, quindi, che il marchio voglia entrare in questo business, riportandolo sulla piattaforma Shein Exchange. Ma siamo davvero sicuri che la circolarità sia compatibile con il fast fashion? “I marchi di fast fashion come Shein non sono fatti per essere indossati più volte perché la qualità è troppo scarsa: chi può realizzare 500 capi al giorno in modo che siano realizzati per durare?” afferma Venetia La Manna, attivista protagonista del documentario. È evidente, quindi, che il resale non possa essere la strada giusta da percorrere per raggiungere importanti obiettivi di sostenibilità. Almeno per Shein.

Pagare le persone che fanno i loro vestiti con un salario dignitoso. Questa è la priorità“, chiosa La Manna. E così risponde a tutte le domande che ci siamo posti finora sulla reale sostenibilità del progetto Shein Exchange. Certo, c’è da ammettere che il colosso dell’ultra-fast fashion ha cercato di fare un passo per ridurre l’impatto del suo business sull’ambiente. Ma forse lo ha fatto nella direzione sbagliata.

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Chiara Crescenzi

Editor compulsiva, amante delle serie tv e del cibo spazzatura. Condivido la mia vita con un Bulldog Inglese, fonte di ispirazione delle cose che scrivo.

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