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Le 6 auto da corsa più strane di sempre | Auto for Dummies

Le 6 auto da corsa più strane di sempre, tra F1 a 6 ruote e "auto ventole"

Il mondo dell’auto spesso sembra semplice, soprattutto quello delle auto da corsa. Nelle varie categorie, infatti, di solito c’è un progetto vincente, delle regole stringenti da seguire e auto che, a parte differenze estetiche e meccaniche, sono molto simili. Non è però sempre così: come in tutti gli ambiti, infatti, c’è sempre qualcuno che pensa fuori dagli schemi. Benvenuti ad Auto for Dummies, la rubrica che vi racconta le curiosità sul mondo dell’auto, e oggi parleremo delle 6 auto da corsa più strane che abbiano mai calcato l’asfalto di un circuito. Preparatevi: rimarrete sicuramente stupiti.

Chaparral 2J, l’auto “ventola” con due motori e soluzioni incredibili

Partiamo subito col botto per un’auto che gli appassionati di videogiochi conosceranno di certo, la Chaparral 2J del 1970. Quest’auto infatti è una delle più veloci del franchising Gran Turismo, presente da Gran Turismo 4 a GT6. Ma cosa rende così speciale la Chaparral 2J? Dal suo soprannome è facile capirlo: “Vacuum Car”, l’auto aspirapolvere. Quest’automobile così strana conquistò il Campionato Americano Prototipi, il CanAm, sfruttando una tecnologia tanto semplice quanto discussa.

Facciamo prima un piccolo passo indietro. Chaparral è una ormai defunta Casa americana fondata dai geniali piloti e imprenditori Hap Sharp e Jim Hall, attiva tra gil anni ’60 e gli anni ’80. Seppur più piccola dei colossi come Ford, Ferrari o McLaren, in Chaparral seguivano lo stesso principio della Lotus di Colin Chapman. Quale? Battere gli enormi rivali con delle soluzioni tecniche uniche e anticipando il futuro del motorsport. In Chaparral, all’apertura degli anni ’70, si resero conto come l’aerodinamica stava cominciando a ricoprire un ruolo sempre più importante, e decisero di concentrarsi anche loro sull’aderenza aerodinamica. Ma non come Ferrari e simili, ovvero montando appendici aerodinamiche, quanto lavorando sull’effetto suolo del sottoscocca.

Un progetto simile alla leggendaria Lotus 78 di Formula 1, che sfruttava il sottoscocca e le minigonne “mobili” per ottenere l’aderenza perfetta. Se però Lotus puntava sull’effetto suolo “naturale”, in Chaparral pensarono ad una soluzione folle. Ovvero, indurre un effetto suolo “artificiale”, un risucchio generato da un sistema meccanico. Ed infatti la Chaparral 2J è famosa anche come “auto ventola”. La carrozzeria era senza alettoni o appendici, semplicissima: doveva solo puntare a fendere l’aria al meglio. E l’aderenza? Arrivava da un paio di enormi ventole, dal diametro di 43 cm, montate al posteriore. Il motore della 2J era un V8 Chevrolet Big Block in alluminio da 7,3 litri e ben 688 CV. Anche il cambio era stranissimo: al contrario del classico manuale, infatti, Chaparral montò un assurdo automatico a 3 marce.

E a muovere le ventole non era il V8, bensì un motore a due tempi di una motoslitta da 45 CV dedicato solo al sistema di risucchio dell’aria.. Queste riuscivano ad attaccare al suolo la Chaparral 2J anche da ferma, e le minigonne in plastica facevano letteralmente attaccare la sportiva americana al suolo, esattamente come un aspirapolvere sul pavimento. L’aderenza era impareggiabile, e grazie all’assenza di appendici aerodinamiche la velocità superava di slancio i 320 km/h. Il risultato fu incredibile: nel 1970, la Chaparral 2J si aggiudicò praticamente ogni Pole Position nella categoria CanAm. Questo non sarebbe neanche così incredibile, se non fosse che la seconda classificata, la McLaren M8C, che fino al 1969 dominava la categoria, si beccava un distacco medio di 2-3 secondi… Incredibile!

In gara, però, questa superiorità non fu mai manifesta. La presenza di due motori e di questo sistema così particolare rendeva la 2J molto inaffidabile, tanto che vinse solo una manciata di gare nel 1970. E la sua carriera si chiuse prematuramente alla fine della sua unica stagione di corse. La presenza di un secondo motore e la pericolosità delle ventole, che letteralmente sparavano terra e pietre alle auto che la seguivano, costrinsero gli organizzatori del Campionato CanAm a bandirla. Non fu l’unica “fan car” della storia però. L‘idea di Chaparral venne ripresa nel 1978 da Brabham in Formula 1 con la BT46B. La BT46B era una Formula 1 convenzionale con motore Alfa Romeo, che però montava una enorme ventola centrale al posteriore.

L’idea di portare la tecnologia in F1 fu di un altro progettista, allora giovanissimo ma oggi celebre in tutto il mondo: Gordon Murray, il papà della McLaren F1 e di altre incredibili auto da F1 e non. Con al volante Niki Lauda, la BT46B corse una sola gara, il GP di Svezia del 1978, dove un’auto che prima della ventola faticava per ottenere punti vinse con oltre 30 secondi di vantaggio sul secondo classificato. Fin dal Gran Premio successivo, il GP di Spagna, le ventole vennero bandite per sempre dalla Formula 1 per gli stessi problemi di sicurezza visti in CanAm. E così, la Fan Car rimane un’auto da godere nei videogiochi, pensando a cosa sarebbe potuta diventare…

Volvo 850 Estate BTCC, tra le auto da corsa più strane c’è anche una paciosa familiare… da oltre 300 CV

Da una delle auto da corsa più strane e controverse di sempre ad un’icona del motorsport degli anni ’90. Come Chaparral 2J, anche la Volvo 850 Estate BTCC ebbe una sola stagione per brillare, ma quell’unica stagione la rese celebre, ricordata ancora oggi dagli appassionati di tutto il mondo. Per chi non lo sapesse, il BTCC è il Campionato Britannico Turismo, dove paciose berline pompate fino a 300 e oltre CV si sfidavano negli autodromi più belli del Regno Unito.

Tra le “padrone di casa” Ford Mondeo e Vauxhall Cavalier, le BMW Serie 3 E36 e la italianissima Alfa 155, c’era una svedese volante che tentava di agguantare la gloria, la Volvo 850. Lanciata nel 1991, la 850 è stata la prima Volvo moderna. Prima svedese (dopo la Serie 400, sviluppata però dagli olandesi della DAF) a trazione anteriore, la 850 portò al debutto il nuovo linguaggio stilistico Volvo, i motori a 5 cilindri e una guida molto più sportiva e dinamica delle vecchie 240 e 740. La 850 infatti arrivava, nelle versioni T5-R, ad oltre 230 CV, anche sulla versione Wagon, lanciata nel 1993.

Per far conoscere al grande pubblico la nuova “aura sportiva” di Volvo e dimostrare che anche le familiari fossero veloci e divertenti, a Volvo venne un’idea folle. Rivoltasi allo specialista TWR, Volvo decise di correre nella stagione 1994 del BTCC con una… 850 Station Wagon. Pazzesco, vero? E infatti i detrattori di questa soluzione furono tantissimi. Tra chi la vedeva come mero marketing e altri che la ritenevano solo uno scherzo, in Volvo non si tirarono indietro. Il telaio della Wagon era più rigido di quello della berlina, e la coda tronca, seppur limitando la presenza di grandi alettoni posteriori, era a sorpresa aerodinamicamente più efficiente, permettendo una maggiore stabilità nelle curve più veloci. Il motore era, ovviamente, un 5 cilindri turbo 2.0 da 280 CV a ben 8.500 giri. Il sound e la velocità di quella goffa wagon è ancora incredibile a quasi 30 anni di distanza.

Pur con tutti gli occhi addosso, la 850 BTCC Estate (Estate in inglese significa familiare) sorprese un po’ tutti. Guidata da Rickard Rydell e Jan Lammers si comportò molto bene in pista. Ottenne diversi terzi posti in qualifica e un quinto posto come miglior risultato, prima di essere pensionata per la stagione 1995. Nel 1995 infatti arrivò un cambio di regolamento che imponeva la presenza di un’alettone posteriore di dimensioni standardizzate. Con la coda alta, la Volvo 850 Wagon non avrebbe mai potuto montarlo ed essere competitiva. Perciò, al suo posto arrivò la 850 Berlina, che con alcune modifiche a motore e telaio guadagnò 13 vittorie in tre anni, e due terzi posti assoluti come costruttore nel 1995 e 1996. Chissà che con quelle modifiche anche la 850 Wagon avrebbe potuto sbaragliare la concorrenza…

Tyrrell P34, la prima (e unica) F1… a 6 ruote! L’auto da corsa più strana (e più famosa) della Classe Regina

Arriviamo così alla terza auto di oggi, che è senza dubbio la più conosciuta della nostra lista di auto da corsa più strane di sempre, la Tyrrell P34. Nata nel 1975, il suo nome potrebbe non dirvi nulla, ma sicuramente la conoscerete come “la F1 a 6 ruote”. Ha corso per due stagioni, nel 1976 e nel 1977, ottenendo una vittoria con Jody Sheckter, il pilota sudafricano poi vincitore nel 1979 del Campionato del Mondo con Ferrari. Ma la domanda che tutti si fanno è sempre la stessa: come è nata un’auto così assurda? Perchè ha sei ruote?

La risposta è più semplice di quanto si possa pensare. Nel 1975, infatti, la Formula 1 regolamentò la larghezza dell’alettone anteriore a 1,5 m. Questo significava che per avere delle ruote sufficientemente grandi, spazio per il piantone dello sterzo e per i piedi del pilota, le ruote anteriori sarebbero dovute essere più larghe dell’ala anteriore. Questo può sembrare normale, ma le ruote non coperte dall’ala generano diverse turbolenze, rovinando quindi i flussi e peggiorando l’efficienza aerodinamica e, in ultimo, l’aderenza. Alcuni, come Ferrari, McLaren e Lotus, controbilanciarono questa mancanza con ali posteriori più grandi e pance laterali più efficienti. In Tyrrell, però, non avevano la stessa idea.

La squadra inglese, fondata da Ken Tyrrell e vincitrice di 3 Campionati del Mondo Piloti con Jackie Stewart, voleva pensare fuori dagli schemi. L’idea di base era quella di avere delle ruote abbastanza piccole da poter stare dentro il metro e mezzo di larghezza anteriore. Il prototipo iniziale aveva 4 ruote, due posteriori normali e due anteriori minuscole, con cerchio da 10 pollici di diametro. L’auto però era inguidabile, con un sottosterzo pazzesco e un’aderenza in curva bassissima. Una ruota così piccola infatti non riusciva a generare abbastanza aderenza per le prestazioni di una Formula 1. Da lì, il colpo di genio: se due ruote non bastano, aggiungiamone un’altra coppia.

Nacque così la Tyrrell P34, la prima F1 a sei ruote. Se pensate che il regolamento vieti che un’auto abbia più di 4 ruote, vi sbagliate: una Formula 1 poteva (e può ancora oggi!) avere quante ruote vuole. Le quattro ruote anteriori avevano due enormi vantaggi. Vista la loro esigua impronta frontale, avevano un basso coefficiente di attrito sull’asfalto, permettendo all’auto di essere più veloce sul dritto. In più, come detto prima, le ruote anteriori così piccole e nascoste dietro l’ala rendevano i flussi molto puliti, massimizzando il grip aeoridinamico e la velocità sul dritto. Per permettere poi al pilota di vedere sempre tutte le ruote anteriori, le paratie laterali dell’abitacolo erano in Plexiglass, permettendo così ai due piloti di vedere esattamente dove finivano le ruote.

In più, c’erano altri piccoli vantaggi. L’auto grazie alla ridotta impronta frontale era molto agile e con un inserimento in curva eccellente. In più, le quattro ruote così piccole permettevano uno sforzo bassissimo del pilota per sterzare, riducendo la fatica. Non era però tutto rosa e fiori. I più grandi problemi erano infatti causati dalle scarissime dimensioni delle gomme. Essendo solo da 10 pollici, a parità di velocità le piccole coperture erano più sollecitate delle classiche gomme da 13 pollici. In più, la loro dimensione unica costrinse Tyrrell a chiedere al gommista Goodyear una fornitura di gomme su misura, solo per loro. Inoltre, i freni a disco erano davvero piccoli, e sottodimensionati (seppur fossero ben 6) per le prestazioni dell’auto.

I pregi della P34 furono subito evidenti, con una stagione 1976 memorabile. La “sei ruote” inglese ottenne infatti ben 10 podi, e alla terza gara, la P34 guidata da Jody Sheckter vinse il Gran Premio di Svezia, e il secondo pilota, il francese Patrick Depailler, ottenne il secondo posto. Un 1-2 memorabile per Tyrrell, che con la P34 ottenne un incredibile terzo posto nel Campionato Costruttori. Il 1977 però si rivelò crudele per la P34. Le scuderie rivali, infatti, nel 1977 ricevettero gomme molto più performanti. Tyrrell però poteva montare quelle gomme solo al posteriore, comune in dimensioni con gli altri. Le gommine anteriori invece vennero abbandonate nello sviluppo da Goodyear, che riteneva quella fornitura antieconomica e inutile. Così, la maggior aderenza delle gomme posteriori mandò in crisi le gommine frontali, che in quasi tutte le gare del 1977 si surriscaldarono prematuramente, portando anche a spettacolari e costanti ritiri.

La competitività dell’auto era ancora lì: Depailler e lo svedese Ronnie Peterson infatti ottennero 4 podi, ma anche ben 19 ritiri complessivi nell’intera stagione. Un bottino crudele, che costrinse Tyrrell ad abbandonare l’idea delle 4 ruote anteriori per il 1978. Con l’arrivo della “4 ruote” Tyrrell 008, la P34 venne mandata in pensione e con lei la prima e (fino ad oggi) unica F1 a 6 ruote.

DeltaWing, il “razzo da corsa”: assurda sotto ogni punto di vista ma incredibilmente efficace

Finora l’auto da corsa strana più moderna vista oggi è stata la Volvo 850 del 1994. Questo potrebbe far pensare che negli anni successivi le competizioni si possano essere un po’ appiattite in fatto di sana pazzia. Questo è relativamente vero: i regolamenti dei più importanti campionati mondiali sono molto stringenti. Per motivi di sicurezza e di contenimento dei costi, infatti, tutto è regolamentato, dalla dimensione del motore alla struttura al numero di ruote e motori. Questo è vero per quasi tutte le gare, tranne una: la 24 Ore di Le Mans.

La gara di durata più famosa del mondo, infatti, è gestita e organizzata dalla FIA in collaborazione con la ACO, l’Automobile Club de l’Ouest, che nel corso degli anni ha cercato un modo per ricollegarsi con l’anima di test di nuove tecnologie che la 24 Ore più famosa del mondo ha sempre avuto. Qui sono nati i freni a disco, i fari alogeni, i tergicristalli e tantissime innovazioni che oggi riteniamo banalissime. Così nel 2012 è nato il Garage 56. Che cos’è? Uno slot riservato ad un’automobile innovativa, che non compete nella classifica generale ma che porta in pista un’innovazione o una serie di novità da testare sul Circuit de la Sarthe.

E proprio nel 2012 la prima auto ad usufruire del Garage 56 è stata la nostra quinta protagonista tra le auto da corsa più strane del mondo: la DeltaWing. Nota come Nissan DeltaWing, si potrebbe pensare che si tratti di un progetto della Casa nipponica, mentre in realtà non è così. Il progetto della DeltaWing è tutto americano, realizzato da Ben Bowlby, Dan Gurney, Duncan Dayton e Don Panoz. Doveva trattarsi della “nuova” auto da Indycar, ma il progetto fu accantonato e ripensato come “nuova auto prototipo”.

Come consiglia il nome, si tratta di un’auto a forma di “delta wing”, l’ala a delta che caratterizza i cacciabombardieri. DeltaWing è infatti priva di alettoni anteriori e posteriori, in quanto l’aderenza aerodinamica è fornita dal sottoscocca e dalle paratie ai lati dell’abitacolo. La più grande particolarità di DeltaWing è infatti l’abitacolo strettissimo e lungo, che riduce la sezione frontale e, soprattutto, abbatte il peso. Davanti infatti DeltaWing è una “mezza auto”, con una larghezza anteriore di circa un metro contro i 2 metri del posteriore.

Il peso dell’auto è posizionato al 73% al posteriore, dove si trova il motore, e il peso stesso è a dir poco piuma. Nella versione aperta che ha corso a Le Mans, DeltaWing pesava solamente 475 kg con liquidi e pilota. Pochissimo. Il motore invece era fornito da Nissan, ed era il 1.6 DIG-T derivato dalla serie e usato su Nissan Juke Nismo (e su Renault Clio RS). Compatto ma potente con i suoi circa 300 CV, essendo un motore derivato dalla serie era anche poco assetato, consentendo a DeltaWing di avere un serbatoio di soli 40 litri. Il risultato è stata un’auto leggerissima ma capace di essere veloce sul dritto e velocissima in curva.

Contro ogni pronostico, la DeltaWing riuscì a correre alla velocità delle LMP2, i prototipi un gradino sotto le LMP1 più veloci, pur essendo oltre 300 CV meno potente delle LMP2 e circa 200 CV sotto le auto di classe GT. La 24 Ore di Le Mans del 2012 però fu agrodolce. Il progetto venne apprezzato ma la gara finì prematuramente dopo 75 giri, per un incidente con la Toyota TS030 di Kazuki Nakajima. Dopo questa avventura e perso l’appoggio di Nissan, DeltaWing continuò a correre in America anche con l’appoggio di Mazda e carrozzeria coupè fino al 2016 ma senza ottenere più grandi risultati.

Nissan GT-R LM Nismo, l’auto da corsa più strana degli ultimi 5 anni: una LMP1… a trazione anteriore?

Dopo quell’assaggio di Le Mans nel 2012, Nissan decise che era il momento di affrontare con i pesci grossi la 24 Ore più famosa del mondo. In vista del cambio di regolamento previsto per il 2014 con l’adozione di sistemi ibridi, Nissan decise di entrare nella classe LMP1, la Classe Regina. In quel periodo, la competizione era serratissima. Toyota, Audi e Porsche erano già presenti da diversi anni a Le Mans, e avevano preparato delle auto molto performanti, ma anche molto simili.

Nonostante la differenza nei motori (V8 aspirato per la Toyota TS040 Hybrid, V6 Turbodiesel per la Audi R18 e-tron quattro e 2.0 V4 turbo per la Porsche 919 Hybrid), tutte erano simili dal punto di vista tecnico. Tutte avevano otore centrale, trazione posteriore e la novità del sistema ibrido. Tutte scelsero una soluzione a 4 ruote motrici “virtuali”, con un motore elettrico posizionato all’anteriore e una batteria capace di recuperare energia in frenata.

Nissan invece era decisa a fare le cose molto, molto diversamente. La Nissan GT-R LM Nismo si è rivelata a posteriori una delle auto più fallimentari della storia, e merito di questo fallimento fu la meccanica. Il motore era un 3.0 V6 biturbo da circa 500 CV, e fin qui tutto bene. Il progettista Ben Bowlby (si, lo stesso di DeltaWing…) aveva dato però un unico ordine: non realizzare una copia dell’Audi R18, e cercare invece di pensare fuori dagli schemi.

E così fecero in Giappone: il motore della GT-R LM Nismo era infatti anteriore, posto dietro l’asse delle ruote. Si trattava del primo prototipo a trazione anteriore dal 2003, ma non è tutto, oh no. Se l’ultima LMP “anteriore”, la Panoz LMP01 Evo, era a trazione posteriore, in Nissan presero una decisione folle. Il V6 trasmetteva infatti la sua potenza alle sole ruote anteriori, con il cambio posto davanti al motore. L’aerodinamica poi era concentrata sull’anteriore, con un posteriore molto scarico che consentiva ottime velocità di punta. Sempre al posteriore poi era presente un complesso sistema ibrido con recupero di energia cinetica, privo però di alcun motore elettrico nè batterie. Era infatti presente un volano meccanico, che in fase di frenata recupera energia cinetica, e poi quando necessario la restituiva alle ruote posteriori tramite un sistema di frizioni, cinghie e ingranaggi.

Un sistema simile a quello delle automobili dei bambini, che si ricaricano andando indietro e poi schizzano avanti, che garantiva una potenza totale di oltre 750 CV. Il problema della GT-R LM Nismo non era però il sistema ibrido posteriore, quanto l’aderenza e l’agilità anteriore. I 500 CV infatti provocavano tantissime reazioni allo sterzo, e le prestazioni erano semplicemente lentissime. Le tre GT-R LM Nismo portate da Nissan infatti si qualificarono a 20″ dalle LMP1 rivali, più veloci solo di qualche decimo rispetto alle LMP2. La gara fu poi disastrosa: due vetture si ritirarono per problemi di affidabilità, mentre l’unica Nissan al traguardo ci arrivò con quasi 140 giri di distacco, risultando così non classificata. Dopo quella figuraccia, il progetto GT-R LM Nismo venne accantonato e mai più proposto.

Nardi-Giannini 750 Bisiluro, due missili (letteralmente) uniti “spazzati via” da una Jaguar

Chiudiamo il nostro viaggio tra le auto da corsa più strane con l’automobile più vecchia di questa classifica. Dobbiamo infatti tornare indietro al 1955 per conoscere la Nardi-Giannini 750 Bisiluro, che definire assurda è riduttivo. In un periodo dove le automobili da corsa erano davvero dei laboratori tecnici in movimento, non sorprende che proprio nel 1955 un’auto così particolare abbia visto la luce.

Nardi non è un nome inusuale nel mondo dei motori. La Nardi-Danese è infatti famosa in tutto il mondo per la produzione di volanti eleganti e di ottima qualità, ma non si è accontentata di produrre solo volanti e pomelli del cambio come oggi. Negli anni ’50, infatti, Enrico Nardi, il fondatore bolognese della Casa, dopo aver lavorato in Lancia si mise in proprio, fondando in Via Monginevro a Torino la Nardi Automobili. Insieme al suo collega e co-fondatore Renato Danese (da qui il logo ND-Torino) si occuparono di produrre anche automobili da corsa, come la 750 Bisiluro.

E proprio dal nome completo, Nardi-Giannini 750 Bisiluro, possiamo capire tutte le sue innovazioni. Il motore era infatti un 750 derivato dalla produzione Moto Guzzi e modificato dallo specialista romano Giannini. Capace di 55 CV, era molto leggero ed affidabile, perfetto per un’auto così particolare come la Bisiluro. La grande particolarità di quest’auto era infatti la struttura a doppio siluro. Cosa significa? Che più che un’auto la 750 Bisiluro era formata da due fusoliere separate, dove da una parte trovava posto il pilota e dall’altra la meccanica con motore e cambio. Questi due compartimenti separati erano uniti da un piano longitudinale, mentre il telaio tubolare distribuiva il peso in maniera perfetta tra i due lati dell’auto.

La sua forma assurda poi nascondeva un’altra sorpresa: nella parte centrale è presente quello che è a tutti gli effetti uno dei primi aerofreni automobilistici. Al centro, infatti, era presente uno spoiler azionabile tramite un pedale dedicato. Una volta alzato, questo spoiler aumentava la resistenza all’aria, rallentando di fatto l’auto e aiutando i freni a tamburo. L’auto era leggerissima, con un peso in ordine di gara di soli 450 kg, e la velocità massima superava i 215 km/h. In più, la Bisiluro era stata disegnata da Carlo Mollino, e da qui nasce il soprannome Damolnar, dai nomi dei tre progettisti: Danese, Mollino e Nardi. Infine, il volante (ovviamente in legno) era ovale, per massimizzare lo spazio per le gambe. Nonostante il minuscolo motore quindi era molto competitiva, ma la sua 24 Ore di Le Mans nel 1955 finì molto presto.

La leggenda infatti narra che una Jaguar C-Type, passando a tutta velocità sul rettilineo di Mulsanne, sbilanciò a tal punto la particolare aerodinamica della Bisiluro che questa finì a muro, ritirandosi subito dopo. Non è poi stata l’unica auto “a siluro” mai esistita, con tantissime auto dedicate ai record di velocità. Ma abbiamo scelto la Nardi Bisiluro sia perchè italiana e torinese ma anche perché nelle gare ufficiali una carrozzeria così non si è più vista.

Quali sono le auto da corsa più strane mai viste da voi?

E dopo la incredibile Nardi Bisiluro si chiude il nostro viaggio tra le 6 auto da corsa più strane che, secondo noi, hanno calcato le piste di tutto il mondo. Se avete il classico amico che dice “Le corse in auto sono noiose perchè le macchine sono tutte uguali” fategli leggere questo articolo. Certo è che se le sfidanti sono fatte in un certo modo è un rischio andare contro alle tecnologie già acquisite e fallire miseramente, come il progetto GT-R LM dimostra.

Ma ci sono state volte invece dove un’innovazione ha convinto, come quella della DeltaWing, e dove le novità sono state talmente vincenti da essere state addirittura bandite dalle corse. Di certo c’è che il Motorsport non si siederà mai sugli allori di ciò che c’è già, ma piuttosto i tecnici e le Case cercheranno sempre un modo nuovo di arrivare al successo. Ma ora noi smettiamo di parlare e la palla passa a voi: quali sono le auto da corsa più strane che avete mai visto? Avete avuto la possibilità di conoscere da vicino qualcuna delle nostre protagoniste? Oppure meritano il podio altre outsider? Fatecelo sapere nei commenti! Noi torneremo la prossima settimana con un’altra puntata di Auto For Dummies, ogni venerdì qui su techprincess. Ciaoo!

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Autore

  • Giulio Verdiraimo

    Ho 22 anni, studio Ingegneria e sono malato di auto. Di ogni tipo, forma, dimensione. Basta che abbia quattro ruote e riesce ad emozionarmi, meglio se analogiche! Al contempo, amo molto la tecnologia, la musica rock e i viaggi, soprattutto culinari!

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