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Get Back: com’è la miniserie di Peter Jackson sui Beatles

Get Back è un racconto intimo, appassionante e anche divertente. Uno sguardo che ci permette di osservare, da una prospettiva privilegiata, tanto il processo creativo dei Beatles quanto le silenziose e ingombranti crisi interne che, di lì a poco, avrebbero portato allo scioglimento della band più popolare del pianeta. Ecco la nostra recensione.

Get Back: la recensione della miniserie di Peter Jackson sui Beatles

Recensire un’opera mastodontica come Get Back non è affatto semplice. La quantità di informazioni, immagini, retroscena ed emozioni che subentrano durante la visione, finiscono per confluire inevitabilmente in un frullato di stupore e incredulità. Per la realizzazione del documentario, il regista Peter Jackson (Il Signore degli Anelli, Amabili Resti, Lo Hobbit), ha avuto a disposizione oltre 50 ore di filmati originali e quasi 150 ore di riprese audio. Ciò che ne esce fuori è un format del tutto inedito. Get Back ci arriva infatti sotto forma di mini serie-documentario da tre puntate, disponibili su Disney+, per un totale di quasi 8 ore di contenuto. Ma di cosa tratta esattamente Get Back?

Beh cominciamo col dire che se cercate un documentario sull’incredibile storia dei Beatles, avete scelto il contenuto sbagliato. L’ascesa e il successo dei Fab4 viene liquidata in poco più di 5 minuti, senza troppi fronzoli. Il vero scopo della serie, come vedremo in questa recensione, è un altro: svelarci i retroscena, mostrarci il processo compositivo e raccontarci la nascita delle crisi interne che avrebbero, progressivamente, portato al disfacimento dei Beatles. Ma fermi tutti: questa è una storia che va raccontata dall’inizio.

Le Get Back Sessions: i Beatles entrano in studio…e in crisi

Sul finire del 1968 i Beatles sono in una fase molto delicata: la morte improvvisa di Brian Epstein, manager storico del quartetto, ha letteralmente scombussolato l’equilibrio interno della band. I 4 di Liverpool decidono di rinunciare ai concerti dal vivo, e partono per un viaggio spirituale in India. Nel frattempo John Lennon inizia la sua intensa relazione sentimentale con Yoko Ono, e all’interno del progetto cominciano a sorgere le prime tenui divergenze artistiche. Per riprendere in mano il proprio destino, la band punta ad un simbolico ritorno alle origini: realizzare un disco alla vecchia maniera, live, senza le sovraincisioni che avevano caratterizzato le ultime produzioni. Insomma accantonare i trucchetti da studio, suonare tutti insieme, e contestualmente riprendere l’intero processo creativo e di recording grazie alle telecamere di Michael Lindsay-Hogg.

L’idea infatti prevede, oltre al disco, la realizzazione di un documentario e l’allestimento di uno spettacolo televisivo con tanto di pubblico in studio. I tempi però sono strettissimi: la band si ritrova insieme il 2 gennaio 1969 per scrivere, arrangiare e registrare i brani del nuovo disco. Questi vanno anche imparati per l’esibizione live, che intanto è stata fissata per i giorni 19 e 20 gennaio. Nascono così le iconiche Get Back Sessions, che culmineranno con l’incisione di Let it Be, l’ultimo disco, in ordine di pubblicazione, della band.

La prima puntata della serie ci mostra la band che si incontra negli studi televisivi di Twickenham per cominciare il lavoro ai nuovi brani. Fin dalle prime immagini l’effetto è straniante. Sembra infatti di assistere ad una di quelle pellicole moderne, con attori realisticamente truccati e totalmente immedesimati, in modo quasi stanislavskiano e manieristico, nei propri personaggi. Ma qui è tutto vero, davanti a noi abbiamo i Beatles. Ci sembra quasi di violare un immaginario confine sacro, quello dell’intimità della band più famosa del pianeta, alle prese con i dissidi interni che porteranno, inesorabilmente, allo scioglimento del gruppo.

Dalle immagini emergono perfettamente le diverse personalità dei Fab4 del 1969: il carattere schivo e pacificatore di Ringo Starr; l’animo ironico e irriverente di John Lennon; il senso di inadeguatezza di George Harrison e il dirompente estro creativo di Paul McCarthney, che si fa carico della crisi interna e guida artisticamente l’intero lavoro della band. Ma le tensioni sono palpabili: Harrison non è soddisfatto del suo ruolo all’interno del quartetto. Le sue composizioni, sempre messe in secondo piano rispetto quelle del duo Lennon-McCarthney, lo fanno sentire inadeguato al progetto. Arriva addirittura a confessare di non sentirsi all’altezza di altri chitarristi come Eric Clapton. Significativo è in tal senso lo scambio di battute in cui Harrison dice “forse vi servirebbe un Eric Clapton” e Lennon gli risponde “no, a noi serve un George Harrison”. Sarà lo stesso Harrison, più avanti, a manifestare a Lennon l’intenzione di realizzare un disco solista.

Nel frattempo i giorni passano e le tensioni tendono a crescere. Alla fine del primo episodio Harrison abbandona la barca, dopo l’ennesima discussione con McCartney, e liquida i compagni con un secco “ci si vede in giro”. A nulla servirà un meeting privato. I quattro rimasero in tre.

Un nuovo problema da risolvere ma Harrison torna sui propri passi

Nel frattempo però c’è da organizzare lo show: l’idea dello studio televisivo non soddisfa più nessuno. Vengono avallate le proposte più assurde come una crociera-concerto con i fan o un live in un anfiteatro romano in Africa.

L’opening del secondo episodio è significativo: il giorno dopo il fallimentare meeting con Harrison, Ringo Starr arriva in studio, seguito poco dopo da McCartney. Di Lennon neanche l’ombra. La macchina da presa indugia sullo sguardo di Paul, che sembra quasi sull’orlo del pianto: il progetto si stava lentamente sgretolando sotto i suoi occhi. Lennon non risponde al telefono e la tensione è così alta che il clima di silenzio a tratti sconfina con l’imbarazzo. Significativo è il cambio di espressione del bassista, quando il road manager gli conferma che “ho sentito John, sta arrivando”. Lo scioglimento definitivo era scongiurato (per il momento).

Un nuovo meeting con Harrison porterà i quattro a trovare un compromesso con il chitarrista: niente show in pubblico e le prove si spostano in un clima più consono alla band: gli studi della Apple a Savile Row

I Beatles si preparano all’atto finale? La nostra recensione di Get Back

Lo spostamento fa bene ai quattro, ma i problemi tecnici rallentano le registrazioni del disco. Intanto le date, e le soluzioni per il sempre più ipotetico show, vengono man mano rimandate. Si ha però la sensazione che i quattro Beatles fossero coscienti dell’imminente fine. Si parla delle prove come di una sorta di preparazione laica all’ultimo atto finale. Significativa, in tal senso, è una delle proposte di Paul McCartney: “Sarebbe bello assoldare dei giornalisti, i migliori del mondo e fare uno spettacolo TV in cui le nostre canzoni sono intervallate da notizie in tempo reale da ogni parte del mondo. E poi, dopo l’ultimo pezzo, la notizia conclusiva: ‘Signore e Signori, i Beatles si sono sciolti”.

In questo clima surreale di malinconica accettazione, in studio arriva Billy Preston, pianista e tastierista di Little Richard, che i quattro avevano conosciuto durante il primo periodo della band ad Amburgo. Da semplice passaggio per salutare la band, Preston viene coinvolto attivamente nel progetto. Dopotutto i Beatles per questo disco volevano evitare sovraincisioni, quindi assoldare un tastierista era fondamentale per il mantenimento di questa condizione. L’arrivo di Preston sembra anche riunire la band, la quale, almeno all’apparenza, ritrova la propria compattezza. Anche il progressivo allontanamento della coppia d’oro, Paul e John, sembra evaporare durante le lunghe sessioni di improvvisazione in studio.

Get Back: tra riferimenti artistici e tecniche di registrazione analogiche

Oltre ai brani della band, Get Back è uno spaccato sullo scenario musicale del 1969, alla vigilia di quella che sarebbe stata l’estate di Woodstock e del movimento hippie. I Beatles infatti parlano molto di altri artisti, ne eseguono cover, si divertono. Sembrano una band qualsiasi, e da spettatori si fa quasi fatica ad accettare che quella è la quotidianeità del gruppo più importante della storia della musica. Interessante è il fatto che il documentario ci mostra come i quattro improvvisino versioni embrionali di quelli che in seguito sarebbero diventati successi delle loro carriere soliste. Tra le tante non si può non citare On the road to Marrakesh di Lennon, brano che sarebbe diventato, anni dopo, Jealous Guy, canzone capolavoro contenuta nel celebre disco Imagine

Il documentario ci mostra anche la fitta rete di personaggi che circonda, e inevitabilmente influenza, il lavoro della band. Oltre alla onnipresente Yoko Ono, l’intero processo in studio viene supervisionato dall’immancabile produttore George Martin, considerato da molti il quinto Beatle. Il lavoro di ripresa e missaggio dei brani è invece affidato a Glyn Johns, coadiuvato dal road manager storico dei Beatles: Mal Evans, punto di riferimento e tuttofare della crew. Ai più attenti non sarà sfuggito che, nelle vesti di addetto ai nastri, si intravede un giovanissimo e irriconoscibile Alan Parsons, che solo pochi anni dopo avrebbe rivoluzionato la storia della musica grazie ai suoi lavori in studio con i Pink Floyd.

Get Back ci mostra i meccanismi di un’industria discografica che non esiste più, fatta di figure e di attrezzature, che per l’epoca erano decisamente all’avanguardia. Già, perchè dal punto di vista prettamente tecnico, la miniserie è anche un documentario su come si registravano i dischi sul finire degli anni 60. La totale assenza di macchine digitali ci riporta a pieno nell’essenza del lavoro in studio: nastri che girano, brani registrati in presa diretta, canzoni eseguite dall’inizio alla fine, ripetute innumerevoli volte, tracciando a penna sulle bobine dei nastri i numeri delle take. Un mondo in cui la ricerca del suono giusto passa attraverso l’ingegno. Come ad esempio quando la crew, per far suonare un pianoforte più western, poggia della carta di giornale sulla cordiera dello strumento. Un processo che oggi sarebbe invece interamente digitalizzato.

Una fotografia accurata di quello che era il processo creativo dei Beatles

Dal punto di vista artistico Get Back ci lascia spiare senza indugio quello che era il processo creativo dei Beatles. Un lavoro fatto di idee e parole che nascono dal brainstorming continuo tra Lennon e McCartney. O ancora, come nel caso di I Me Mine, un noioso programma TV che ispira George Harrison a scrivere un valzer in 3/4. Il documentario ci mostra, tra i tanti, anche la nascita live di due brani simbolo del disco Let it Be, vale a dire Get Back, con la sua genesi e graduale modifica, e la struggente The Long and winding Road.

I brani sono così tanti che Lennon, scherzando, propone: “Potremmo far uscire un singolo diverso per ogni paese del mondo”. In merito alle battute del frontman vale la pena sottolineare che l’ironia di John Lennon è il vero lato comico del documentario, che più volte ci mostra l’estro creativo del cantante. Una creatività che si manifesta con testi improvvisati e battute sagaci. Ad esempio come quando, dopo aver trovato particolarmente gradevole il suono di un pianoforte elettrico, afferma: “se Beethoven fosse vivo, oggi, avrebbe un apparecchio acustico ed un piano elettrico”.

Get Back: E se lo show finale dei fosse un concerto sul tetto?

Trovati i brani, e ritrovato un equilibrio interno, c’è però da risolvere la questione dell’esibizione dal vivo. L’idea dello show comincia, piano piano, a prendere una forma concreta: nessun viaggio in Africa, nessuno spettacolo televisivo: suonare live ma senza il contatto diretto col pubblico. Un’esibizione per le telecamere ma senza escludere il coinvolgimento umano. In che modo si può concretizzare questo mix di regole contraddittorie? In un dibattito in studio sono palesi i punti di vista: McCartney vorrebbe un finale col botto mentre Harrison non vuole esibirsi in pubblico. Su suggerimento di Glyn Johns nasce il concetto di quello che sarà lo storico ultimo live dei Beatles, quello sul tetto della Apple Records, il medesimo edificio in cui la band stava registrando. I quattro fissano anche una data definitiva: il 30 gennaio 1969, da questo momento in poi non si torna più indietro.

Il 30 gennaio: i Beatles suonano per l’ultima volta dal vivo

Ciò che accadde il 30 gennaio, al civico 3 di Savile Row, è storia. Il clima è surreale: in strada i passanti ignari vivono quello che sembra essere un comunissimo giovedì mattina di fine gennaio, mentre all’interno dell’edificio Apple, i preparativi sono in corso. I roadies portano tutta la strumentazione sul tetto, mentre la crew diretta da Michael Lindsay-Hogg prepara ben 10 videocamere: 5 saranno puntate direttamente sulla band a pochi metri dal gruppo, una sul tetto di un palazzo antistante per una ripresa da lontano, 3 in strada per cogliere le reazioni dei passanti ed una nascosta nella reception dell’edificio. Sarà proprio quest’ultima a riprendere il disagio delle forze dell’ordine quando arriveranno per fermare il live. Già, perchè il tutto avviene in totale segretezza, senza alcuna autorizzazione ufficiale. L’ultima parte del documentario ci mostra l’intera esibizione.

Verso mezzogiorno, ora di punta per il traffico londinese, i quattro Beatles e Billy Preston salgono sul tetto. Fa freddo e Lennon indossa la pelliccia di Yoko Ono. Lo stesso fa Harrison, che si fa prestare la giacca dalla moglie. Tutto è pronto: la crew cinematografica accende le videocamere, mentre al piano di sotto sotto Alan Parsons e Glyn Johns si preparano a registrare l’audio live. I due utilizzano due registratori a 8 tracce: alcuni brani di questa esibizione compariranno sul disco Let it Be.

L’iconico live: cala il sipario sui Beatles e su Get Back

Si inizia proprio con Get Back, scelta come singolo dell’album, e i brani vengono ripetuti più volte per ottenere il massimo dalle riprese. Nel frattempo la gente in strada inizia ad ammassarsi: i Beatles non si vedono, ma si sentono, e sono inconfondibili. Le strade, fin dai primi brani, diventano intasate di spettatori incuriositi e, sui tetti dei palazzi circostanti, le persone cominciano a radunarsi per assistere a quel pezzettino di storia.

Arrivano però anche le prime segnalazioni per disturbo della quiete pubblica. Ed è qui che il documentario ci mostra un interessante punto di vista: non tutti hanno gradito la storica e inaspettata performance. La telecamera nascosta nella hall, ci racconta perfettamente la volontà della polizia londinese di sospendere l’esibizione. Allo stesso modo assistiamo alla capacità, assolutamente creativa, del road manager Mel Evans di temporeggiare per permettere al gruppo di suonare il più possibile.

L’esibizione in totale dura 45 minuti, i brani sono solo 5, ripetuti più volte. L’ultimo è proprio un encore di Get Back, suonato a pochi centimetri dai poliziotti che, intanto, avevano raggiunto il tetto. McCartney ne stravolge il testo, cantando “State suonando sui tetti di nuovo? Non si fa, a vostra madre non piacerebbe e neanche alla polizia”. Il clima però è incredibilmente felice e, alla fine del brano, Lennon fa ridere tutti con una battuta delle sue: “A nome del gruppo vi ringraziamo per l’attenzione, speriamo di aver superato il provino”.

Di seguito la scaletta completa dell’esibizione:

  1. Get Back 
  2. I Want You (She’s So Heavy) 
  3. Get Back
  4. Don’t Let Me Down 
  5. I’ve Got a Feeling
  6. One After 909 
  7. Danny Boy 
  8. Dig a Pony
  9. God Save the Queen 
  10. I’ve Got a Feeling 
  11. A Pretty Girl Is like a Melody 
  12. Don’t Let Me Down
  13. Get Back 

Termina così l’ultimo concerto dal vivo della storia dei Beatles. La serie ci mostra i quattro nei minuti immediatamente successivi, qualche piano più in basso, che riascoltano la propria esibizione. Si divertono, ballano, sono soddisfatti dalla performance. Un entusiasmo che li porta a rimettersi subito al lavoro per ultimare le registrazioni del disco. Ciò che sarebbe accaduto dopo, purtroppo, ce lo racconta la storia.

Lo stile di Peter Jackson al servizio della narrazione

Tirando le somme possiamo dire che Get Back è una rara e corposa testimonianza culturale che porta gli spettatori all’interno delle dinamiche più intime dei Beatles. Lo stile di Peter Jackson si fa sentire anche e soprattutto nel montaggio. Questo, nonostante segua cronologicamente i reali avvenimenti in studio, sembra frutto di una sceneggiatura già scritta. Un saliscendi di emozioni che il regista riesce ad incanalare perfettamente grazie alla sua arma più potente: il ritmo della narrazione.

Peter Jackson non ha avuto paura di prendersi i suoi tempi (dopotutto parliamo di ben otto ore di documentario), con lunghe inquadrature dal forte carattere emotivo, intervallate da momenti di frenesia totale. Infatti molte scene sono montate così rapidamente che si ha quasi la sensazione di essersi persi qualcosa. Non sappiamo se tale scelta sia dovuta ai tempi (per inserire più materiale possibile) o, come ipotizziamo, per controbilanciare il lato più emotivo. La volontà di non implementare un narratore esterno è perfettamente coerente con la vera essenza del documentario: in questo modo a condurre la narrazione sono le sole immagini reali Anche la scelta di dividere tutto in tre soli capitoli, a discapito della maggiore durata dei singoli episodi, ha senso da un punto di vista narrativo. La storia si concentra così sui tre aspetti fondamentali: la crisi, la genesi del disco, il concerto sul tetto.

Per quanto riguarda l’eredità storico culturale, che dovrebbe poi essere la vera essenza di un documentario, la serie ci dice molto: i giornali dell’epoca scrivevano di furiose scazzottate tra i membri della band, mentre la serie ci mostra la surreale calma con cui Harrison e McCartney affrontavano le loro discussioni. Visto in senso più ampio Get Back può essere visto come un documentario sull’intero modus operandi dell’industria discografica del periodo. Ad esempio  tutti i fan dei Beatles conoscono il nome di George Martin, ma vederlo in studio con la band, circondato da questo alone di rispetto, è qualcosa che nessuna biografia scritta avrebbe mai potuto restituire. Inoltre le numerose citazioni, sia musicali e che di personaggi, rendono il documentario irresistibile per i più appassionati. A questi ultimi, probabilmente, otto ore saranno sembrate anche troppo poche.

In conclusione Get Back non si presenta come un’opera dalla semplice fruizione: la lunghezza rappresenta sicuramente un ostacolo per coloro che sono meno coinvolti emotivamente nella musica della band. Ma se vi piacciono i Beatles, o più in generale vi interessa la musica – e spesso queste due condizioni sono legate da un sottile filo rosso – non potete farvi scappare questa serie incredibile. 

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Marco Brunasso

Scrivere è la mia passione, la musica è la mia vita e Liam Gallagher il mio Dio. Per il resto ho 30 anni e sono un musicista, cantante e autore. Qui scrivo principalmente di musica e videogame, ma mi affascina tutto ciò che ha a che fare con la creazione di mondi paralleli. 🌋From Pompei with love.🧡

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