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Benessere mentale e tecnologia: l’intervista a Francesco Bocci, psicologo psicoterapeuta

Il tema della salute mentale sta diventando sempre più delicato e rilevante al tempo stesso. L’attenzione su questo ambito della psicologia si sta innalzando sempre più, tale da aver anche dedicato una giornata mondiale, il 10 ottobre. Istituita nel 1992, negli ultimi trent’anni l’ambito della salute mentale si è caricato di significati sempre maggiori, soprattutto in relazione all’incremento delle attività quotidiane nel settore tecnologico. Un ambito che è diventato sempre più ampio, e altrettanto delicato in diverse circostante, rischiando di danneggiare la stabilità e l’equilibrio di ciascuno di noi. Per affrontare da vicino queste tematiche, abbiamo intervistato il Dottor Francesco Bocci, psicologo psicoterapeuta che si occupa in particolare del benessere mentale legato all’uso di tecnologie e videogames.

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Una prima domanda: l’abuso di internet e delle tecnologie può essere in qualche modo un “sostituto” di altri tipi di assuefazioni o abusi? Va a sostituire altri comportamenti, o innesca dei disturbi del comportamento che altrimenti non si presenterebbero?

Ogni forma di intrattenimento che non porta il soggetto ad essere “attore” ed “interprete” della storia (anche virtuale) che sta vivendo oppure osservando, può portare a fenomeni di dipendenza. Porta a “riempire” un vuoto cronico ed a “compensare” l’angoscia di fondo attraverso contenuti che però non sono agiti dal soggetto, nel senso che non sono controllati con la sua attenzione. Ciò può portare a “subire” il mezzo e quindi a innescare un atteggiamento o comportamento di dipendenza e di assenza di pensiero critico rispetto a ciò che sto vivendo e osservando. Si va a lesionare in questo modo il benessere mentale degli utenti.

In che modo l’abuso di internet può aggravare tratti psicopatologici pre-esistenti e innescare processi di disconnessione del soggetto dalla realtà? Come prevenirli o, ultimamente, curarli?

Ognuno di noi può avere dei momenti nei quali tende a “dissociarsi” dalla propria quotidianità, sia per evadere che per compensare un proprio complesso di inferiorità. Anche in questo caso vorrei distinguere tra “dissociazione” passiva, nella quale si perde il controllo sul Sé e non si è lucidi, e la “dissociazione controllata”, uno status di “tranche” ma vigile. Qui il soggetto comunque agisce, se nella virtualità, dinamiche presenti anche nella vita reale e si creano connessioni con essa.

Per prevenire la prima di queste è importante che nel web non si ricreino automatismi fini a se stessi ma che ogni azione abbia un senso compiuto ed un fine, anche solo nella modalità di espressione. Inoltre è fondamentale che nel web permangano aspetti relazionali e connessioni con altri.

Quali sono gli ambiti di vita di un soggetto che vengono intaccati da una dipendenza da internet?

La scuola e il lavoro in primis, ma poi anche le relazioni sociali e familiari. In secondo luogo anche una relazione sentimentale ne può risentire.

Parlando di videogames, quali sono gli aspetti legati al benessere mentale apportato dal loro utilizzo, e quali invece le problematiche che possono insorgere?

Il videogioco, anche quello commerciale e non solo un serious game, può essere utilizzato anche in percorsi terapeutici. Può influire sui tre livelli conosciuti della nostra coscienza, allenando ed attivando quello razionale e cognitivo (che poi si manifesta nelle life skill che tutti conosciamo, come l’attenzione, il problem solving, il pensiero critico, la pianificazione, il decision making, la memoria spaziale e procedurale, il multitasking, il pensiero creativo, la comunicazione), facendo in seguito emergere il livello emozionale, attivando e “liberando”, attraverso il fenomeno della catarsi e della desensibilizzazione, determinati sentimenti.

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Spesso sono inconsci, legati ad eventi traumatici della propria vita, come anche emozioni indicibili e connesse con determinate relazioni. In ultimo i videogiochi ci parlano attraverso metafore ed attraverso il linguaggio dei simboli. Questo va ad attivare, naturalmente inconsapevolmente, parti di noi inconsce che rappresentano i punti cardine del nostro stile di vita.

Naturalmente tutto ciò diventa materiale di consapevolezza se il videogiocatore viene “guidato” mentre gioca da un professionista della salute mentale, e per questo il videogioco non diventa solo un mezzo di evasione e/o distrazione, ma ne viene raccolto il suo potenziale. I videogiochi diventano dannosi quando si crea una situazione in cui il gamer subisce il videogioco stesso, per motivi diversi, ma la fatica che si accumula videogiocando non permette quel livello di “flow” (equilibrio tra sfide del gioco e competenze personali) che sta alla base dell’esperienza ludica positiva.

Cosa sono gli online death games e perché se ne parla tanto? Quali sono le conseguenze sul benessere mentale dei giovani con un uso non corretto delle nuove tecnologie? Al contrario, per persone con problemi psicologici, cognitivi o con disabilità di altre tipologie, quali sono i generi di videogames consigliati, se ce ne sono?

Gli online death games sono delle “sfide estreme” che poco hanno di ludico. In essi si richiede ai soggetti, per lo più ragazzi giovani, di compiere gesti estremi attraverso delle vere e proprie “campagne” sui social, con il rischio anche di morire. Perché non hanno niente di ludico? Perché il soggetto si sente “obbligato” a fare queste azioni dal gruppo stesso che si è creato intorno alla sfida, per non esserne escluso, a costo di morire, e mostrare così di essere più forte e capace degli altri. La logica è simile a quella del Guinness dei primati, ma cambia completamente il contesto e il contenuto. Le sfide sono davvero estreme e portano quasi sempre a conseguenze molto gravi, se non alla morte stessa del ragazzo.

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L’obiettivo, spesso inconsapevole, è dunque quello di “essere il più forte” e di “vincere la morte”, come la paura più grande. Questi ragazzi hanno infatti sempre una forte angoscia di morte ed vuoto abbandonico cronico da colmare. Per persone che hanno problemi psicologici e/o cognitivi, la scelta di un gioco rispetto a un altro, rispecchia molto le loro caratteristiche e il loro stile di vita, e funge da “compensazione”, “riequilibrio” rispetto a determinati vissuti di inferiorità.

Come mai gli adolescenti sono il target prescelto di queste nuove dipendenze? Qual è la fascia di età più sensibile? E cosa ne pensa dell’esposizione fin da bambini a questi prodotti?

Gli adolescenti sono in una fase di vita nella quale si viene a creare una propria identità, un proprio modo di essere con se stessi e nel mondo. Per questo è più facile per loro sentirsi persi, insicuri, e avere bisogno di “agganciarsi” a qualcosa o qualcuno, recuperando quel “bisogno di tenerezza” che è vivo in loro fin dalla prima infanzia. La fascia più sensibile a quanto detto è quella dai 10 ai 13 anni, cioè la preadolescenza, dove da parte dei genitori ci vuole molta attenzione e sensibilità. Il benessere mentale diventa in questo periodo di crescita decisamente di fondamentale attenzione.

Rispetto a esporre un bambino piccolo o molto piccolo ai videogiochi o al digitale, non lo ritengo un male assoluto, né un bene o una cosa da fare perché “fa bene”. Anche qui dobbiamo fare delle distinzioni, un conto è lasciare mio figlio ad uno sguardo passivo di fronte ai video su You Tube o ai social o al web, un conto è abituarlo ad allenare quelle skill cognitive, ma anche a riconoscere certe emozioni, attraverso il videogioco per esempio, giocando insieme a lui/lei.

È vero che giocare per lunghi anni ai videogames può favorire alcuni processi mentali logici e di creatività, o di altre tipologie?

Sì, ci sono ricerche che lo dicono chiaramente, quasi tutte oltreoceano ma qualcuna anche italiana (ct. Elena del Fante e Federica Pallavicini, entrambe ricercatrici ed esperte in neuropsicologia). Soprattutto è stato dichiarato che giocare per esempio per 8 ore consecutive a determinati videogiochi, porta ad allenare una serie di skill quali l’attenzione, il pensiero laterale, il multitasking e la pianificzazione, come anche la memoria spaziale e procedurale.

Cosa si intende per narcisismo digitale? Esiste una correlazione tra narcisismo e dipendenza da web?

E’ la tendenza a mantenere, in modo forzato ed eccessivo, attraverso il web e in particolare i social, una propria forma o immagine fittizia di Sé, più legata a proprie aspettative, connesse con l’identità sociale, piuttosto che a dinamiche intrapsichiche, ai propri desideri e sentimenti.

La rivoluzione digitale è dunque la cifra del nostro tempo?

Sì, assolutamente. Di anno in anno vedremo e scopriremo sempre nuove forme del digitale, soprattutto parlando di tutti quegli elementi “meta”, ciòè che faranno da “ponte” tra realtà e virtuale. Pensiamo per esempio all’arrivo degli occhiali digitali, una cosa che si realizzerà a breve e vedrà i nostri monitor attuali quasi scomparire. Anche questo non lo dico io, ma le analisi approfondite di mercato.

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Per garantire il benessere mentale, qual è la sfida che si pone oggi agli adulti “non addetti ai lavori”? E agli “addetti” invece?

Ai “non addetti ai lavori” proporrei di non forzare la mano con chi ne sa di più, creando così una dinamica simmetrica e competitiva inutile, ma di “accogliere” il sapere di altri così da creare connessioni col proprio sapere. Agli adetti proporrei invece di utilizzare il digitale il più possibile per la collettività, e non solo per fare business. Perché gli uomini hanno bisogno del digitale, anche per rendere la vita di molti, se non di tutti, migliore.

Come pensa che si possano ulteriormente sviluppare i comportamenti evidenziati negli studi finora citati, per favorire il benessere mentale? Ci potrà essere il raggiungimento di una tecnologia con minime o perfino nulle possibilità di ingenerare problematiche psicologiche nei suoi utenti?

Penso sia improbabile che una tecnologia possa avere solo riscontri positivi, perché come tutte le cose dipende molto dal suo utilizzo, e dal fine ultimo che si vuole attribuire ad essa. Il problema quindi non è tanto la tecnologia, ma l’individualismo imperante che attanaglia buona parte dell’umanità. Solo se prendessimo la tecnologia per quello che dovrebbe essere realmente, uno “strumento” per vivere e far vivere meglio le persone, e per riportarle anche nella condizione di “chiedere aiuto”, e quindi di “riconoscimento di un loro limite”, per favorire la “consapevolezza” su certe tematiche dunque, allora si, forse i danni saranno minimi. Ma sinceramente, non vedo grandi cambiamenti nella mente umana in questo senso. Spero di sbagliarmi e di ricredermi a breve.

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